Il diritto di sognare un´Italia pulita
di Roberto Saviano
“la Repubblica” del 5 febbraio 2011
L'ITALIA oggi non è un paese libero. Sia chiaro: non sto dicendo che la
situazione italiana sia in qualche mondo comparabile con i totalitarismi del
passato. Niente a che vedere con fascismo o comunismo, è ovvio. Ma ciò non ci
deve impedire di dire che oggi chiunque attacchi il governo sa che subirà
un'intimidazione, una forma di ritorsione. Sa che potrebbe essere colpito, lui,
o i suoi cari, da una qualche veline infamante che cercherà di sporcarlo davanti
all'opinione pubblica.
La libertà non può esistere solo come costruzione astratta o peggio come
principio.
"La libertà politica - scriveva Salvemini - è sostanzialmente il diritto del
cittadino di dissentire dal partito al potere. Da questo diritto di opporsi al
potere nascono tutti gli altri diritti".
In Italia, certo, si può dissentire: ci mancherebbe altro. Ma a che prezzo? Al
prezzo di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango. Lo
abbiamo visto in passato con Boffo, con Fini, con il giudice Mesiano, ora con
Ilda Boccassini. Lo vedremo ancora.
Parlo da trentenne. L'odio che senti vicino quando ti poni contro certi poteri
mi ha stupito. Guicciardini aveva ragione quando definiva l'Italia un paese di
contrade. Temo che se queste contrade non saranno dismesse non potremo andar
lontano. Sembriamo condannati a dividerci su ogni cosa. Ci si può essere
antipatici, ma in questo momento non c'è spazio per sottolineare le differenze,
per misurare chi è più critico
e chi è più puro, chi ha la corona del miglior antagonista o
dell'Italia migliore. Questo è il momento non dico dell'unità, ma almeno delle
affinità. La purezza non serve più. Ricordo quel che diceva Don Milani: "A cosa
sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?". Sporcarsi le
mani non ha nelle parole del parroco della scuola di Barbiana nessun significato
di corruzione, è ovvio: vuol dire la necessità di fare, anche sbagliando, di
realizzare cose che possano essere difficili, ma utili. Unirsi nelle diversità è
cosa complicata ma ormai imperativa. Certi che da questa unità verrà del bene
per tutti.
Monicelli poco prima di morire auspicava una rivoluzione. Oggi la parola
rivoluzione in me non evoca banchetti di sangue né vendette, né palazzi
d'inverno né Moncada. Ancor meno fucilazioni e "uomini nuovi". E' invece la
parola che mi fa tornare alla mente la lezione di Piero Gobetti: oggi ho la
sensazione che sia rivoluzionario non considerare gli elettori di un'area
avversa come perduti. Che sia rivoluzionario sentirci tutti partecipi di uno
stesso paese ed un unico destino. O si riparte da questo o non saprei proprio il
motivo di impegnarci, intervenire, "sporcarsi le mani".
Sento di poter scrivere queste parole proprio perché vengo da una terra dove la
legalità significa vita e libertà in maniera forse più chiara che qui a Milano.
E perché non appartengo alla generazione che ha creduto nel socialismo reale.
Non ho amato i rivoluzionari tramutati in dittatori. Non ho creduto in sogni di
società perfette divenuti inferni in terra. Appartengo alla generazione che ha
visto i caduti della sua resistenza morire per costruire un paese dove le
opportunità, il talento, il diritto, fossero cose reali. Gianni Falcone, Rocco
Chinnici, Rosario Livatino, Carlo Alberto Dalla Chiesa. non muoiono mentre
stanno portando avanti la loro professione di magistrati a difesa del diritto e
perseguendo i reati. Almeno, non solo per questo. Fanno molto di più.
Così come Giancarlo Siani, Pippo Fava, De Mauro non muoiono perché inciampano in
verità indicibili. Ma perché scrivendo rendono pubbliche le verità che
conoscono: e molti uomini e donne che hanno verità possono trasformare lo stato
di cose. Per questo vengono condannati a morte. Per la loro parola.
In questa battaglia la mia generazione è cresciuta. In un Paese dove lo Stato
non era un monolite tutto corrotto o tutto rivolto al bene. Ma dove una parte di
Stato corrotto era affrontato quotidianamente dall'altra parte dello Stato.
Vivere costruendo le possibilità di essere felici è una necessità dell'uomo,
l'unica alternativa ad una rassegnata, cupa disperazione: un sogno che non può
non farti combattere con tutto te stesso contro l'impossibilità di far affermare
il merito, l'impegno, il talento. L'ingiustizia è di questo mondo. Ma sono di
questo mondo anche gli strumenti per affrontarla. In questa fase in Italia non
sembra possibile. Il governo e l'area culturale che lo sostiene non si difende
mai dalle accuse - così evidenti, così manifeste - dicendo: non si fanno certe
cose. Ma sostenendo l'autoassolutoria tesi del "così fan tutti". L'accusa
maggiore a chi chiede un paese diverso è l'accusa di essere un ipocrita:
"Berlusconi fa quel che tutti fanno o vorrebbero fare". Non è vero, non è così,
dobbiamo ribellarci al ritratto di un Paese piegato e corrotto, accomunato in
una specie di complicità collettiva. C'è un'Italia che ha il diritto e il dovere
di venire alla luce e di prendere voce: un'Italia che crede nelle regole, nella
legalità, che crede che non sia normale avere un premier che, preda di una
senile ossessione sessuale, paga le minorenni, mente allo Stato per proteggerle
e sfugge ai magistrati.
Albert Camus diceva che la sofferenza, come la morte, non si può sconfiggere: ma
che il nostro dovere è di riparare nella creazione tutto ciò che può essere
riparato. Io in questo credo: nella possibilità di ridurre aritmeticamente il
dolore. Forse un mondo migliore non esiste, ma credo nella possibilità di
migliorare il mondo. Per questo sento che è il tempo per tornare a sognare. Non
sembri scontato e retorico e anche se lo fosse ben venga. Ma sognare un paese
diverso non può che essere il carburante vivo e persino divertente del tentativo
di cambiare le cose. Di cercare una felicità possibile. Una felicità semplice,
fatta di un lavoro dignitoso, della possibilità dell'individuo di provare quanto
vale. Di ricevere quanto merita. Non è il sogno di un paradiso inesistente ma di
un luogo un po' diverso, dove l'ingiustizia, il favore, la raccomandazione del
potente di turno per ottenere un lavoro o addirittura un posto in consiglio
regionale o in parlamento, non esistano più. I valori che ci fanno in questo
momento stare insieme sono sepolti con l'urgenza di identificare ciò che non
siamo ciò che non vogliamo. Ora è il tempo di dire anche ciò che siamo e ciò che
vogliamo.