La democrazia contro le oligarchie
di Gustavo Zagrebelsky
“la Repubblica” del 5 marzo 2011
Questo testo è un brano tratto dall'introduzione di Zagrebelsky al volume "L'interesse dei pochi, le ragioni dei molti. Le letture della Biennale Democrazia", a cura di Pier Paolo Portinaro, che esce l'8 marzo per Einaudi. La prossima edizione della Biennale Democrazia sarà dal 13 al 17 aprile.
Che sulla democrazia – come su ogni altra forma di governo – incomba il pericolo del disfacimento, è un dato d'esperienza che non può essere negato. Le forme di governo sono vitali se sono animate da un principio, un ressort, secondo l'espressione di Montesquieu. Il ressort della democrazia è la virtù repubblicana. Quando la molla è totalmente dispiegata e dunque non ha più forza da sprigionare, quello è il momento d'inizio della decadenza. La questione, gravida di conseguenze pratiche, è se l'esito finale del processo corruttivo sia o non sia inevitabile. Se non è evitabile, tanto vale rassegnarsi e, se mai, lavorare per il dopo. Se è evitabile, la democrazia come ideale politico non perde di valore, pur in presenza di difficoltà. Possiamo dire la stessa cosa prendendo a prestito l'espressione di Norberto Bobbio, "le promesse non mantenute della democrazia", e chiederci: queste promesse possono o non possono essere mantenute? (...) Che cosa possiamo rispondere a questa cruciale domanda? È necessario prendere atto di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l'odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l'oggetto e, spesso, le vittime.
Per secoli, democrazia è stata la parola d'ordine degli esclusi dal potere per contestare l'autocrazia dei potenti; ora sembra diventare l'ostentazione di questi ultimi per rivestire la propria supremazia. Presso i cittadini comuni, non c'è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C'è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più trasmettono ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C'è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Quando si sente esclamare con fastidio: "tanto sono tutti uguali" (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l'occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una "teatrocrazia", è stato detto. L'esito potrà essere l'astensione o l'adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un distacco. Lo scetticismo a-democratico dal basso fa da pendant alla retorica democratica dall'alto.
Il paradosso sopra segnalato si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue spoglie ideologiche si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un'efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. Basta consultare la storia. Essa ci dice che la democrazia, come parola, può contenere l'anti-democrazia, come sostanza. Anzi, oggi il potere antidemocratico ha bisogno di passare per la porta rassicurante della democrazia (...) Realisticamente o, come si dice, "sperimentalmente", dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere in poche mani, nelle mani di élites. Gli studi in proposito sono numerosi; le loro teorizzazioni presentano diverse varianti e le conclusioni cui pervengono non sono necessariamente in opposizione alle esigenze minime della democrazia. Ma le cose cambiano quando dalle élites si passa alle oligarchie, anzi a quella che è stata definita la "ferrea legge delle oligarchie": una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili, sia della democrazia sia delle stesse élites. Questa tendenza è denunciata concordemente dai critici della democrazia, i critici sia di destra che di sinistra. Il che è quanto dire che la denuncia è corale e che coloro che proclamano l'ideale del governo del popolo sono o degli ingenui o degli impostori. La "ferrea legge" si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l'uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, per ragioni strutturali ha bisogno di piccoli numeri, di gruppi di potere ristretti. Non basta. L'oligarchia non è però l'élite. L'oligarchia - si potrebbe dire così - è l'élite che si fa corpo separato ed espropria i grandi numeri a proprio vantaggio. Trasforma la res publica, in res privatae. Poiché, poi, questa è una patente contraddizione rispetto ai principi della democrazia, occorre che queste oligarchie siano occulte e che esse, a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così il regime dell'illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il "principio maggioritario", che è l'essenza della democrazia, si rovescia infatti nel "principio minoritario", che è l'essenza dell'autocrazia: un'autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un'autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che possono sostenersi solo su se stesse.
(...) Le oligarchie nascoste di cui stiamo parlando, per il sol fatto d'essere tali, tendono naturalmente, anzi necessariamente, all'illegalità e alla corruzione. Poiché le oligarchie del nostro tempo sono costruite e finalizzate all'accaparramento di ricchezza - sempre questo: pecunia regina mundi - il potere di cui si parla oggi è il potere illegale e corruttivo del denaro di cui si occultano il possesso e la gestione per poter corrompere ogni altro ambito della vita sociale. È una tendenza "naturale", per l'ovvia, antropologica legge del potere che già Montesquieu ha chiarito, nella sua crudezza: chi detiene il potere, se non incontra limiti, è portato ad abusarne. Le oligarchie del nostro tempo non incontrano altri limiti se non quelli rappresentati da altre oligarchie. Ma l'abuso come limite all'abuso è semplicemente una complicazione dell'abuso. È anche una tendenza "necessaria", perché i regimi dei pochi sono incompatibili con la legalità uguale per tutti. Le oligarchie hanno bisogno di privilegi, cioè di leggi che valgono solo per loro, diverse da quelle che valgono per tutti gli altri. O, quanto meno, hanno bisogno che le leggi generali e astratte siano interpretate e applicate a loro in modo tale da non contraddire l'esistenza dell'oligarchia stessa. Ciò che occorre loro è una "giustizia dei pari", diversa da quella comune; un "foro speciale" non di giudici imparziali, ma di giudici amici. "Un'aristocrazia - ha scritto Tocqueville, e noi potremmo senz'altro dire: un'oligarchia - non potrebbe lasciarsi sfuggire i suoi privilegi senza cessare d'essere una aristocrazia". La legalità uguale per tutti - lo si comprende senza spiegazioni - è incompatibile con la divisione della società in appartenenti ed esclusi dal potere oligarchico. Quando, alla fine, nel senso comune si sommano due percezioni: l'estraneità al potere e la sua illegalità e corruzione, ecco la miscela esplosiva che
può indurre a chiedere che la si faccia finita con la democrazia, se essa, in concreto, significa queste cose.
Che dire, allora? La democrazia è destinata a trasformarsi in oligarchia; l'oligarchia è in se stessa disuguaglianza di fronte alla legge; l'illegalità e la corruzione sono la conseguenza. Allora, dunque, alla domanda se le promesse della democrazia siano tali da non poter essere mantenute, la risposta sembra che debba essere: sì, non possono essere mantenute. Si fondano le democrazie e si mette in moto un processo destinato alla rovina delle società. Fermiamoci un momento, però, prima di questo passo fatale, del quale, se lo facessimo leggermente, ci dovremmo presto pentire, perché, abbandonata la democrazia, avremmo solo autocrazie e le autocrazie non sono un rimedio, sono anzi l'accentuazione dei mali.
(...) Potremmo forse dire così: la democrazia non è - nel senso che non può essere - l'autogoverno del popolo che si afferma durevolmente. È invece la possibilità istituzionalizzata, dunque resa stabile secondo procedure riconosciute e accettate, di combattere e distruggere sempre di nuovo le oligarchie ch'essa stessa nutre dentro di sé. Una definizione in negativo, dunque: qualcosa che si qualifica per essere contro un'altra. Da questo punto di vista, la democrazia è tutt'altro che un ideale impossibile. È invece una possibilità, cioè una serie di strumenti che spetta a noi di utilizzare, per
tradurre in pratica l'avversione alle oligarchie. Se gli strumenti esistono e non sono utilizzati, non si può dire che non c'è democrazia, ma si deve dire che la democrazia (come possibilità) c'è e ciò che manca è la pratica della democrazia. Allora, la responsabilità dello scacco non deve essere addossata alla democrazia come tale, ma deve essere assunta da noi, incapaci di utilizzare le possibilità ch'essa ci offre. Se cediamo all'accidia della democrazia, è perché prevale sulla libertà morale il richiamo del gregge e la tendenza gregaria, che sono il lato biologico profondo degli esseri umani che l'avvicinano agli altri esseri viventi, come ha messo in luce Sigmund Freud nel suo studio sulla psicologia delle masse. Ma il gregge è una possibilità, non un destino.
(....) Diciamo così, a costo di cadere nell'enfasi: la democrazia vuole potenti gli inermi e inermi i potenti; vuole forti i giusti e giusti i forti. È per questo che i suoi nemici mortali sono le concentrazioni oligarchiche del potere. Contro le concezioni ireniche della democrazia, non possiamo pensare ch'essa sia il regime che definitivamente pone fine ai conflitti, eliminandone le cause. Il suo tempo non è quello in cui tutto è pacificato. Non è il regno dell'armonia, della giustizia e della concordia. È illusione che sia il luogo ove "il lupo dimorerà con l'agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera" (Isaia, 11, 1-9). Questo sarà, se mai sarà, il tempo messianico. Finché ci sarà politica, ci saranno conflitto, ingiustizia e discordia. La questione non è come eliminarli, ma come affrontarli.