La finanza internazionale ha espropriato i risparmi di milioni di persone senza che nessuno sia stato in grado di reagire

Parla
Bruno Amoroso, docente di Economia politica all’università di Roskilde in Danimarca
 

di Enzo Rossi

da www.altrapagina.it 10.2011


Da oltre un mese i Tg aprono con le notizie sulla borsa: l’indice sale, siamo salvi. Va giù, siamo sull’orlo del baratro. I mercati, questa fantomatica entità che condiziona le nostre vite, ci hanno bocciato. E il governo in un paio di giorni ha varato una manovra supplementare che pesa come un macigno sulle spalle dei cittadini più deboli. Non si può fare diversamente, ci hanno subito fatto sapere i telegiornali, altrimenti rischiamo di fallire. E allora via con la manovra lacrime e sangue.
Ma cosa sta succedendo? Lo chiediamo a Bruno Amoroso, docente di economia politica all’università di Roskilde in Danimarca.
«Siamo di fronte a una crisi economica e sociale provocata dal modo in cui la finanza ha espropriato a livello mondiale i risparmi di milioni di persone. Ma sa qual è la cosa peggiore?».
Quale?
«Che gli autori di questo colossale furto non sono in fuga, ma sono alla testa di tutte le istituzioni nazionali e internazionali che controllano e dovrebbero regolare la finanza. E questo costringe il mondo della politica e gli stati a gestire una situazione di fatto ingovernabile».
Ma quando è iniziata questa truffa, come la chiama lei?
«È cominciata nel 2008-2009 negli Stati Uniti, poi si è diffusa in Europa attraverso le banche tedesche, che ne sono state i veri agenti e l’hanno imposta a popolazioni e paesi come l’Islanda, la Grecia, il Portogallo e via via fino all’Italia. L’economista americano James Galbraith ha definito quel che è successo dal 2008 a oggi “la più gigantesca truffa della storia”. Non era mai successo che fosse perpetrato un furto di risparmi di milioni di persone senza che nessuno fosse in grado di reagire».
È possibile che i governi non siano riusciti a fare nulla?
«I governi avrebbero dovuto e potuto reagire, perché loro compito è quello di proteggere i propri cittadini e i propri risparmiatori…».
E invece…
«Invece non possono farlo perché nel frattempo gli ideatori della truffa hanno messo in azione delle vere e proprie camicie di forza che hanno posto i governi nella impossibilità di reagire. Prima hanno inventato i “Criteri di convergenza”, che poi si sono trasformati nel “Patto di stabilità e di crescita” e infine, per i paesi che hanno abboccato, è arrivato l’euro».
Lei sta sostenendo che l’euro ci ha danneggiato?
«Proprio così. Quando vendettero l’euro a paesi come l’Italia, perché non tutti hanno abboccato, l’argomento principe era che la nuova moneta, più forte delle valute nazionali, nel nostro caso della lira, avrebbe protetto le economie dei paesi aderenti dagli assalti speculativi. E invece sta accadendo esattamente il contrario: l’euro è diventato la camicia di forza che impedisce al governo italiano di reagire. A meno che non si abbia il coraggio di rompere quegli obblighi, firmati in modo anch’esso discutibile, che rappresentano i vincoli che ci impone l’Europa e il sistema finanziario internazionale».
Eppure sia da destra, sia soprattutto da sinistra, si sostiene che l’euro sia il nostro paracadute…
«Ci sono studi che dimostrano che dal 1999 (anno di entrata in vigore dell’euro) al 2008 (anno della crisi) i paesi dell’euro sono cresciuti di meno, eccetto la Germania, e in modo più disuguale rispetto a quelli che non hanno aderito alla moneta comune, come la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia… Questo dicono i dati economici. Insomma, l’euro non ha aiutato e rafforzato le economie che sono entrate nel club, anzi le ha indebolite e rese disuguali. Poi nel 2008 è arrivata la grande truffa, e i paesi si sono trovati nella impossibilità di reagire, perché sono ingabbiati dentro questo meccanismo che impedisce loro di fare politiche diverse».
C’è un paese in Europa che ha avuto il coraggio di opporsi alle imposizioni della finanza internazionale?
«Sì c’è, è l’Islanda. È uscita dal sistema e si è rifiutata di pagare quanto imposto dalla finanza internazionale. Ma l’Islanda è un paese piccolo e ha raggiunto rapidamente una grande capacità di coesione politico-sociale che le ha permesso di opporsi al ricatto. Per paesi come l’Italia, il Portogallo o anche la Grecia è più complicato, anche perché le nostre autorità monetarie sono coinvolte in questa grande truffa…».
Cioè? Si spieghi meglio, professore.
«Mario Draghi, che è ancora governatore della Banca d’Italia, è stato vicepresidente e manager diretto della Goldman Sachs, la società americana che è tra i maggiori responsabili di questa grande truffa. Se va a vedere nel sito ufficiale di Draghi, accanto a molte altre cose, c’è scritto che ha ricoperto quell’incarico presso la società statunitense prima e mentre diventava funzionario del Tesoro italiano e poi governatore della Banca d’Italia. Questo personaggio è oggi direttore della Banca europea ed è quello che preside il Financial Stability Board, l’organizzazione che ha l’incarico di riformare la finanza internazionale. Siamo al paradosso!».
Come mai in Italia di queste cose si parla pochissimo?
«Si tratta di operazioni gigantesche nelle quali sono coinvolti anche i mass media. Ci sono degli economisti che ne parlano, ma non vengono mai invitati nei talk show. Si preferisce discutere delle varie P3, P4, P5, cose vergognose per carità, ma il problema più importante del quale occuparsi riguarda la grande truffa finanziaria ai danni dei cittadini».
Perché le agenzie di rating hanno assunto un potere così grande da mettere addirittura a rischio la stabilità degli stati?
«Sono parte del circo. Sono società private costituite dagli stessi speculatori. Dovrebbero essere tutte incriminate per un reato che si chiama insider trading, che è un reato di abuso di informazioni privilegiate. E chi più di loro è in possesso di informazioni privilegiate, visto che decidono se e quando svalutare un titolo o un paese? Queste società andrebbero abolite o perseguitate come si fa con le organizzazioni mafiose».
La nostra politica appare del tutto inerte di fronte al potere degli organismi nazionali e internazionali.
«Sì, i dirigenti di questi grandi organismi non sono eletti e godono di una totale autonomia. Negli Stati Uniti, per esempio, il governatore della Federal Reserve, la banca centrale americana, ogni sei mesi deve rispondere in Senato alle obiezioni che gli vengono mosse e dimostrare in che modo la sua politica corrisponde agli interessi generali del paese. Da noi, quando parla il governatore della Banca d’Italia tutti i politici e le più grandi autorità dello stato vanno ad ascoltarlo come fosse l’oracolo di Delfi».
Eppure solo con la politica è possibile uscire da questo vicolo cieco.
«Sì, ma soltanto se essa riacquista l’autonomia che ha ceduto alle banche e a questi organismi virtuali. Insomma, dovrebbe riprendere la propria sovranità, riconquistare i propri spazi e fare piazza pulita sia all’interno che in questi grandi organismi internazionali. L’arroganza di questo capitalismo predatorio non ha più nulla da scompartire con la produzione e il consumo. Se i cittadini fossero più informati sarebbe anche più facile selezionare dirigenti politici non collusi con queste forme di potere speculativo finanziario».
Che ne pensa della manovra del governo italiano di cui tanto si discute?
«È la fotocopia di quella che l’Europa sta imponendo in tutti i paesi. Ma coloro che non hanno aderito all’euro, come la Danimarca per esempio, riescono a cavarsela meglio di noi, perché hanno meno obblighi di rispettare. Una cosa a onor del vero va detta: l’Italia è l’unico paese della zona euro il cui ministro delle finanze negli ultimi 3 o 4 anni ha cercato di reagire alle imposizioni dell’Unione Europea…».
Sta parlando di Giulio Tremonti?
«Sì. Tremonti da tempo chiede l’introduzione di misure come gli eurobond e la Tobin tax. E anche recentemente ha inviato, insieme al ministro svedese e a quelli di altri piccoli paesi europei, una richiesta di modifica delle regole della finanza internazionale».
In Italia non se ne è discusso…
«No, parlavamo d’altro. Eppure il 40 per cento circa del sistema finanziario italiano – le banche popolari, quelle cooperative, le casse di risparmio – non appartengono al circuito delle grandi banche. Sono un patrimonio importantissimo che potrebbe essere utilizzato per un’altra finanza e un’altra economia. Economisti importanti appartengono a questo mondo. Stefano Zamagni per esempio, da un’area significativa come quella cattolica, insiste da tempo sulla necessità di creare un altro tipo di società, di impresa e di consumo».
Questa è un’altra questione della quale si parla pochissimo…
«Discutiamo solo delle decisioni che prendono le società di rating e le società finanziarie internazionali. Oppure di quello che fa Marchionne, come se la Fiat fosse il sistema produttivo su cui si regge l’economia italiana. È una sciocchezza. Tra l’altro, la Fiat non è più italiana, anche se i sindacati insistono nel credere a una finzione che non esiste».