La forza del simbolo Il crocifisso e la religione prevalente
intervista a Sergio Luzzatto, a cura di Andrea Fabozzi
“il manifesto” del 20 marzo 2011
Per il suo recente Il crocifisso di Stato (Einaudi), Sergio Luzzatto - professore di storia moderna all'università di Torino - ha ripreso gli atti della lunga vicenda processuale della famiglia Albertin, vicenda conclusa venerdì con una sentenza della Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo favorevole all'Italia che dunque può continuare ad imporre il crocifisso nelle aule scolastiche.
Professore, i giudici della Grand Chambre di Strasburgo ribaltando la sentenza di primo grado hanno assolto il crocifisso di stato italiano. Non le pare che ne abbiano anche ridimensionato il valore, definendolo un «simbolo passivo» che non ha forza di
«indottrinamento»?
L'idea che un simbolo possa essere passivo è originale dal punto di vista teorico ma anche estremamente insidiosa dal punto di vista pratico. Non c'è bisogno di essere un giurista per sapere che una sentenza fa giurisprudenza e dunque questa apre il campo a qualsiasi altro simbolo. Portando all'estremo il ragionamento, in Austria qualche anno fa avrebbero potuto autorizzare l'esposizione di una svastica in classe. Come si vede questa piroetta sul carattere passivo dei simboli è pericolosa assai, anche se possiamo non rendercene conto fino a che si tratta di simboli portatori
di valori positivi come si può pensare che sia il crocifisso. La verità è che i simboli non sono inerti ma sempre attivi, altrimenti non si capirebbe questo accapigliarsi sul loro valore. Non per nulla questa è una sentenza che ha un chiaro valore politico.
Quale?
Il voto di quei 15 giudici su 17 che hanno assolto l'Italia riflette l'inquietudine dei governi sulla possibilità che l'Europa possa intromettersi nelle faccende nazionali. Ha vinto l'Europa della cosiddetta sussidiarietà, è passata l'idea che ci siano materie nelle quali bisogna inchinarsi alla sovranità degli stati. Esattamente il punto sollevato dal presidente Napolitano nel suo messaggio di appoggio al governo italiano: sui muri di casa nostra decidiamo noi. Non è la prima volta che prevale questo principio ma il paradosso è che ora la Grand Chambre lo afferma spiegando che la giustizia italiana non è stata in grado di dirimere la questione - ed è vero - e dunque non si vede perché debba essere l'Europa ad arrogarsi il diritto di decidere. Verrebbe da rispondere: una classe politica all'altezza dovrebbe raccogliere questa sfida piuttosto che festeggiare una «non decisione». Il governo ha fatto di più. Per ottenere un pronunciamento favorevole ha garantito ai giudici di Strasburgo che nelle scuole pubbliche italiane sono rispettate tutte le religioni, persino che si può portare il velo e festeggiare il Ramadan. Le risulta che sia così?
Ovviamente no, è chiaro che l'Italia ha portato argomenti teorici sul pluralismo che non corrispondono alla pratica che conosciamo ed è chiaro che la Grand Chambre se li è fatti andare bene. Ma io credo che vada evitata ogni confusione tra i simboli esposti in uno spazio pubblico e quelli portati sul corpo altrimenti si finisce con l'assimilare questioni assai diverse come il velo e il crocifisso. Al di là delle menzogne del nostro governo, un conto sono i programmi, gli abiti e le festività, un altro è il crocifisso sul quale peraltro si potrebbe molto più facilmente legiferare e colmare così quel vuoto che in parte sta alla base della sentenza. Invece l'unico progetto di legge che mi risulta essere stato presentato è quella della Lega Nord che vuole imporre il crocifisso negli uffici pubblici lombardi. Tutto qui, è l'unica cosa di cui effettivamente si parla. Tacciono le voci della laicità e le critiche alla sentenza di Strasburgo arrivano solo dai protestanti e dai cristiani di base. La politica rinuncia del tutto al suo ruolo.
Forse non solo la politica, dal momento che nella sentenza di Strasburgo si insiste sulla sussidiarietà, come ha detto lei, e sulla «percezione soggettiva» della famiglia Albertin che non basterebbe a configurare una lesione delle libertà collettive. Eppure parliamo di giudici che dovrebbero far rispettare valori universali, nientemeno che la convenzione dei diritti
dell'uomo.
È l'aspetto più inquietante di questa vicenda. La Grand Chambre ha usato espressioni come «religione maggioritaria» e «visibilità preponderante» che secondo me rappresentano una disdetta della tradizione più che secolare dei diritti dell'uomo. Come sanno anche i bambini che studiano l'educazione civica, i diritti dell'uomo sono pensati innanzitutto per garantire le minoranze, non le maggioranze. Il principio che alla fine conta la maggioranza è esattamente quello che si è applicato al tempo delle guerre di religione in Europa tra il Cinquecento e il Seicento. Allora prevalse l'idea che l'unico modo per mettersi d'accordo all'interno di una determinata area geografica fosse la regola del cuius regio, eius religio, cioè che la religione dominante dovesse essere quella del principe. A suo modo ha funzionato. Adesso dopo cinquecento anni si torna a dire che la religione dominante dev'essere quella del nuovo sovrano e cioè della maggioranza del paese. Questo è un precedente grave perché non tutela le minoranze e perché apre una situazione di censimento permanente. Pensiamo a nazioni dove c'è un equilibrio meno sbilanciato rispetto a quello italiano, si vuole davvero affidare la tutela dei diritti ai numeri?
Ma c'è anche un'altra possibilità, quella proposta ai giudici del governo italiano. E cioè che il crocifisso sia ormai un simbolo della tradizione più che della religione.
Giustamente questa tesi è stata respinta a Strasburgo. L'Italia ci aveva puntato essendo sicura che laddove fosse prevalso il valore religioso la Grand Chambre non avrebbe che potuto confermare il divieto di esposizione nelle aule. È un paradosso di questa politica per la quale la religione è veramente instrumentum regni e dove gli atei devoti vanno a braccetto con i cattolici intransigenti. Da non cristiano posso dire di essere impressionato dai commenti delle gerarchie religiose che festeggiano una sentenza dove si esclude che il crocifisso possa essere il simbolo dell'indottrinamento. Secondo me si tratta di una vera e propria profanazione. Colpisce la povertà di spirito di una chiesa ridotta a brandire questo argomento, quando il crocifisso è esattamente il simbolo della dottrina.
Da storico che riflessioni le suscita la perfetta coincidenza tra questa sentenza e il 150esimo dell'unità conquistata contro il potere mondano della chiesa?
Conferma un'impressione già forte di fronte alle modalità scelte per i festeggiamenti, generalmente improntate a celebrare la chiusura della ferita storica con il papato del 1861. Siamo rimasti in pochi a riflettere su quanto di quel progetto di costruzione di una nazione laica sia rimasto in piedi: molto poco a mio modo di vedere. Ecco allora che il giornale dei vescovi può legittimamente definire la sentenza di Strasburgo il miglior regalo per il centocinquantesimo. Ed è molto grave che nella politica italiana non ci sia stata nessuna voce autorevole in controtendenza. In fondo anche il messaggio del presidente della Repubblica che pure è stato giustamente apprezzato per la sua non ovvietà, sul punto del rapporto tra stato e chiesa è rimasto estremamente ambiguo.