La Lega e la sindrome norvegese

 

 

di Michele Serra

 

la Repubblica” del 27 luglio 2011

 

Esiste un Paese europeo nel quale l'esponente di un partito al governo - ripeto: di un partito al governo - dichiara pubblicamente: «Il cento per cento delle idee di Breivik sono buone, in qualche caso ottime. Le posizioni di Breivik collimano con quelle dei movimenti che in Europa ormai ovunque vincono le elezioni». Questo Paese è l'Italia. L'autore della dichiarazione è l'eurodeputato Mario Borghezio. Il partito al governo è la Lega. Naturalmente è sempre possibile nascondere la cenere sotto il tappeto. Cioè confinare parole come quelle di Borghezio in un limbo eccentrico, attribuirle a una patologia marginale e tutto sommato fisiologica in ogni democrazia, quella (generica) dell'estremismo. Solo che, per compiere questa de-classificazione, che è anche una rimozione, è necessario dimenticare che Borghezio non fa parte di una frangia di esaltati che farnetica sul web, roba che può interessare solo la polizia postale e la Digos. Borghezio è eurodeputato di lungo corso delle Camicie Verdi, e le Camicie Verdi, molto spesso in divisa d'ordinanza, governano con piena legittimità il nostro Paese.

Ben vengano, dunque, le parole di Borghezio, se ci aiutano a inquadrare con un minimo di lucidità e coraggio in più la strage norvegese. Trattata da molti commentatori italiani soprattutto come un caso di imprevedibile follia al prezzo di parecchie omissioni, la più evidente delle quali è il peso quasi nullo dato all'obiettivo, molto specifico, della strage: un raduno giovanile del partito laburista, individuato da Breivik come una sentina del "mondialismo" impuro e corruttore. Ora, se qualcuno irrompe in una sinagoga e fa strage di ebrei; se mette una bomba in una moschea e fa strage di musulmani; se spara alla folla e all'oratrice durante un comizio del Partito democratico americano; nessuno potlevargli la patente del fanatico paranoide, ma nessuno pot isolare quel gesto(politico nelle intenzioni e nelle conseguenze) dal contesto ideologico, culturale e sociale nel quale è nato, ha potuto nutrirsi, attecchire, infine esplodere.

L'ideologia può essere considerata un pretesto, strumentalmente impugnato dall'assassino per dare sbocco al proprio odio individuale, a patto che non offra, al fanatismo, parole di odio non così pretestuose, non così equivocabili. Non per caso una discussione lunga, difficile e dolorosa, ai tempi del terrorismo rosso, animò il nostro e altri Paesi (ad esempio la Germania) attorno al duro nodo dell'odio di classe, del nesso tra teoria e prassi, tra libri e azione, tra parole suggestive e suggestionabilità degli animi più accesi. Perché i fanatici e gli assassini sono sempre una piccola - anche se purtroppo non trascurabile - minoranza. Ma la famosa "acqua in cui nuota" la violenza, quella è una questione che riguarda la società intera, i suoi media, le parole messe in circolo, i suoi giornalisti e i suoi scrittori, i suoi politici, la responsabilità di chi prende la parola in pubblico, soprattutto se ricopre cariche elettive.

E dunque, quando un eurodeputato leghista giudica «buone e in qualche caso ottime le idee di

Breivik», è poca cosa - e troppo facile - preoccuparsi o ribellarsi "solo" perché quelle idee sono

state espresse da un carnefice che ha macellato decine di ragazzi inermi. Quelle parole erano infami e cariche di sangue anche prima di Breivik e prima della strage (che infatti è stata lungamente coltivata e programmata). Quelle parole sono il veleno pluridecennale dell'odio razziale, del suprematismo bianco, dell'omofobia, dell'antisemitismo, dell'antislamismo, e sono coltivate con

cura nelle tante madrasse del razzismo nostrano. Ne sono piene, da anni, giornali, blog, siti Internet: basta cercare, basta leggere, come fanno pochi e coraggiosi ricercatori e giornalisti che hanno imparato a nuotare nel mare tempestoso della nuova destra razzista. E non è solo scavando nei recessi della rete che si capisce che aria tira in certi ambienti e in certe teste: quelle parole circolano anche nelle aule elettive, attraverso dichiarazioni troppo spesso (qui da noi) relegate a folklore, a stravaganza pittoresca, a intemperanza rude ma in fin dei conti bonaria. E ha tragicamente ragione Borghezio, le cosiddette "posizioni" di Breivik «collimano con quelle di movimenti che in Europa ormai ovunque vincono le elezioni», fortunatamente rimanendo quasi ovunque esclusi dal governo (tranne che in Italia), ma quasi ovunque dotati di un potere di ricatto e di condizionamento che fa leva sulla paura del domani raffinata ad arte, come l'eroina, e tradotta in voti.

Il primo ministro norvegese, un socialista a noi sconosciuto che abbiamo imparato ad amare e ammirare in questi giorni terribili, ha detto che «in tragedie come questa dobbiamo dare il meglio di noi: reagiremo con più democrazia». E solo settecento norvegesi - un'inezia - hanno aderito al sito che chiede la pena di morte per Breivik. Tutto, in questa vicenda che gronda sangue, gronda anche

di politica. La follia è solo ospite di un teatro, la politica, che come ogni europeo sa bene è carico di tragedia e di morte, ma anche di nobiltà e di gloria. Dovrebbe essere vietato, dico vietato, parlare di Breivik, della Norvegia, dei suoi giovani martiri laburisti, senza parlare di politica.