La paura del progresso
di Gad Lerner
“la Repubblica” del 24 febbraio 2011
A più di un mese, ormai, dall’inizio
della rivoluzione araba che ridisegna i connotati del
bacino mediterraneo in cui siamo immersi, finalmente, a
denti stretti, il nostro primo ministro ha pronunciato
le parole “vento di libertà”. Nè ha osato ancora
riconoscere che dopo quasi 42 anni di dittatura -il
doppio di Mussolini!- è ben venuto il tempo che si
allontani dal potere quel partner sanguinario cui
Berlusconi ha da poco baciato la mano assassina in
pubblico. Neanche le cifre di una vera e propria
ecatombe in Libia lo hanno indotto a chiedere
ufficialmente che Gheddafi sia assicurato a una corte di
giustizia internazionale.
Come mai persiste una simile, vile titubanza, condivisa
in forme più discrete da gran parte della classe
dirigente italiana? Quale imbarazzante divario morale
con la dichiarazione di un eroe della democrazia, Vaclav
Havel, che sempre ieri paragonava il 2011 dei
rivolgimenti nel Nord Africa al “suo” 1989, quando i
moti popolari provocarono la caduta dei regimi comunisti
nell’Europa centro-orientale.
Spiegare un tale contrasto è imbarazzante. Lo stato
d’animo impaurito con cui il nostro establishment
assiste, come paralizzato, all’impetuoso cammino della
storia, certifica infatti un declino italiano vissuto
come ineluttabile. Quasi che ci fosse precluso reagire
all’impotenza cui noi stessi, e con noi l’Europa,
saremmo condannati a rassegnarci.
Eppure dovrebbe soccorrerci una visione dinamica della
storia italiana, a centocinquant’anni dalla fondazione
dello Stato unitario. Dovremmo pur ricordare come la
nostra penisola abbia conosciuto secoli di primato
economico e culturale, non a caso, fra il Mille e il
Millecinquecento, allorquando l’Italia dell’Umanesimo e
del Rinascimento si è fatta forza della sua formazione
geografica allungata che la proietta al centro del
Mediterraneo. Proprio quella fortunata collocazione, le
migliaia di chilometri di coste, viene oggi descritta
con vittimismo dai nostri governanti, come una disgrazia
da maledire. Come se l’Italia meridionale, vicina
all’Africa e al Medio Oriente, fosse un’appendice di cui
sopportiamo malvolentieri il peso.
Questa miopia rischia di farci perdere un appuntamento
cruciale con la storia. Com’è possibile ignorare che
abbiamo vissuto le stagioni italiane più felici di
egemonia intellettuale e commerciale grazie al destino
intrecciato che le nostre repubbliche marinare prima, e
Venezia poi, seppero realizzare con le città cosmopolite
del Levante e del Maghreb? Com’è possibile negare che
proprio il mancato sviluppo armonico della sponda
meridionale del Mediterraneo, con gli squilibri
economici e demografici che provoca, ha nuociuto alla
nostra crescita come una palla al piede?
Ci siamo illusi, per decenni, che sostenere dei regimi
totalitari costituisse la miglior garanzia per
fronteggiare la minaccia del terrorismo e il flusso dei
migranti, garantendo altresì il rifornimento energetico.
A supporto di questa realpolitik oggi rivelatasi
fallimentare, abbiamo elaborato teorie razziste di
matrice neocoloniale: secondo cui i nostri vicini di
casa sarebbero per loro natura inadatti alla democrazia,
refrattari al progresso civile. Fino a usare anche per
loro il concetto di democra-tura come se le società
arabe si potrebbero governare solo con un mix fra
democrazia (finta) e dittatura (vera).
D’altra parte ricordiamo che fu Giulio Andreotti l’unico
statista europeo che esplicitò la sua delusione di
fronte alla caduta del Muro di Berlino (“amo talmente la
Germania da volerne mantenere due, separate”).
Berlusconi ha solo esasperato, da istrione affarista
qual è, una vocazione al sostegno dei tiranni
mediterranei già coltivata trasversalmente dai suoi
predecessori. Ignorando il malessere delle società
arabe, abbandonando al loro destino gli intellettuali
laici e progressisti di quelle regioni, considerandovi
ineluttabile il predominio dell’integralismo islamico e
l’avversione per l’occidente.
Il fallimento conclamato di questa politica mediterranea
fondata sulla partnership con i tiranni –salvo poi
elogiare Israele quale unica democrazia della regione-
ora cede il passo a un allarmismo recriminatorio. A
leggere le dichiarazioni dei nostri ministri, il “vento
di libertà” che soffia impetuoso fra il Nordafrica e il
Levante non meriterebbe il nostro apprezzamento perché
la “piazza araba” resta sempre e comunque una minaccia.
Dopo la caduta di Ben Ali, con l’arrivo a Lampedusa di
alcune migliaia di profughi, Roberto Maroni è si è
riscoperto buono e ha riconosciuto che si tratta di
un’”emergenza umanitaria”, poi enfatizzata addirittura
come “esodo biblico”. Salvo polemizzare subito dopo con
l’indifferenza di una Unione Europea certo non benevola
nei confronti dell’Italia, penalizzata oggi dalle
ripetute condanne internazionali alla politica dei
respingimenti allestita dallo stesso Maroni di comune
accordo con Gheddafi. Errori che si pagano a distanza.
Ora che quel trattato italo-libico del 2008 è ridotto a
carta straccia si deve certo predisporre una nuova
strategia fondata sul concerto europeo. Ma a questo fine
non giovano certo le cifre sparate a casaccio: che senso
ha preconizzare trecentomila migranti nel prossimo
futuro? Peggio ancora è lo scaricabarile
sull’accoglienza già cominciato fra le diverse regioni
italiane; mentre Bossi promette spavaldamente di
dirottare in Germania le non meglio precisate masse di
profughi. Finendo solo per dare ragione agli altri Stati
dell’Unione che hanno buon gioco a evidenziare, dati
alla mano, come oggi l’Italia accolga un numero di
richiedenti asilo e di nuovi migranti assai inferiore
alle altre grandi nazioni europee.
Le nostre credenziali in materia di accoglienza e di
sensibilità umanitaria sono ridotte al minimo. Ciò non
facilita il rapporto con Bruxelles nella necessaria
gestione comune dell’emergenza.
Molto dell’esito politico dei rivolgimenti in atto
dipenderà dal nostro comportamento. Ma siamo stati, noi,
dalla parte giusta? Ci siamo prodigati a proteggere i
nostri vicini di casa da una repressione feroce? Gli
Stati Uniti di Obama si sono rivelati più pronti
dell’Europa nel sostenere il cambiamento. E ahimè in
Europa proprio l’Italia, cioè la nazione che ha più
interesse alla crescita di società aperte nel sud
Mediterraneo, si è mostrata la più reticente nel
prendere le distanze dai dittatori.
Questo atteggiamento istintivo ha rivelato un deficit
culturale che caratterizza la nostra classe dirigente di
matrice nordista. Spiace ricorrere ai luoghi comuni, ma
certi ministri parlano come antichi “polentoni”
impauriti dalle potenzialità del cosmopolitismo
mediterraneo, da loro vissuto (per ignoranza) solo come
una minaccia. Come se la storia non avesse niente da
insegnare a una nazione anziana, la cui età media è di
quasi vent’anni più elevata rispetto alle società
giovani e vitali che si stanno ribellando. Come se
fossimo condannati ad avere paura del progresso fino al
punto di non immaginare neppure un futuro democratico
comune a tutti i popoli del nostro mare.