Lettera all'arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia

di Enrico Peyretti

Torino, 29 dicembre 2010

Ho scritto il 26-12 al nuovo arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, ringraziandolo degli auguri

che mi ha inviato, una lunga lettera, non comoda. L’ho pregato di leggerla solo se ha tempo. Gli ho

detto che vorrei non tenerla privata, dati gli argomenti comunitari. Qui la riassumo. Vuole essere

una lettera di sincerità e di dignità, che ignora il “muro d’incenso”. È mia, soltanto personale, ma

forse rappresenta anche il sentire di altri cattolici, non pochi.

*

Vorrei, e prego lo Spirito santo, di essere un po’ cristiano, ma non so se sono ancora cattolico.

Penso che la chiesa di Cristo è una “chiesa di chiese”, tutte con la stessa autenticità - «dove due o

tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» -, e solo Dio vede quanto ciascuna è fedele

al Vangelo. Posso partecipare al culto evangelico, alla Santa Cena, riconoscendovi lo stesso valore

della messa cattolica.

Però frequento principalmente la chiesa cattolica, in un angolino periferico, senza importanza.

Partecipo alla chiesa nella preghiera, nella riflessione, nel dibattito, nella parresia.

*

Ho scritto al vescovo che lo riconosco come riferimento nella chiesa torinese. «Mi dispiace

solamente – ho aggiunto - anche per rispetto della Sua persona, che Lei sia arrivato qui nel modo in

cui, in certe strutture patriarcali, uno sposo sconosciuto viene assegnato ad una sposa ignara; mi

dispiace che sia stato designato da fuori, come un funzionario spedito in una prefettura, senza

alcuna partecipazione della chiesa torinese alla Sua designazione. Ma sappiamo bene come questa è

una penosa piaga della chiesa. Forse un vescovo, all’atto della sua designazione, potrebbe dire una

parola giusta e doverosa contro questo metodo. So di almeno un vescovo che lo ha fatto».

*

Riguardo alla chiesa cattolica, la mia posizione attuale è quella di sorella Maria di Campello,

grande spirito illuminato: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con

voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (lettera a Gandhi, 24

agosto1928). «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia

famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da

diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).

E parlava spesso di chiesa «senza confini»1. Oh, così finalmente si respira! Non nell’abituale

autocelebrazione ecclesiastica.

I maggiori testimoni della fede che ho incontrato personalmente nella mia vita – Balducci,

Turoldo, Michele Do, Umberto Vivarelli, Benedetto Calati, Adriana Zarri - pensavano e parlavano

così.

*

Invece, oggi, archiviato lo spirito del Concilio, nonostante il solito omaggio retorico, la chiesa si

1 (Frammenti di un’amicizia senza confini. Gandhi e Sorella Maria, pro-manuscripto, Eremo di Campello sul Clitunno,

1991, p. 15 e 22. Si vedano anche, per conoscere questa cristiana, la sua corrispondenza con Primo Mazzolari e quella

con Giovanni Vannucci, nelle edizioni Qiqaion della Comunità di Bose. Mio articolo in Lo Straniero n. 105, marzo

2009)

rappresenta, agli occhi del mondo, nei vescovi e nel papa, che rubano – non solo per colpa dei

media superficiali – l’intera immagine della chiesa.

Con qualche bella eccezione, grazie a Dio, la gerarchia appare come una categoria separata,

interessata alla propria struttura immobile, ingessata in una sacralità “sgridona” e brontolona,

lontana da un atteggiamento fraterno, coraggioso, incoraggiante, umano, misericordioso (il

trattamento di Welby ha scandalizzato i cattolici più semplici e buoni).

Invece, la chiesa è molto più che i vescovi, anche come fede, teologia, scelte di vita,

testimonianza, nonostante debolezze ed errori di tutti i cristiani. La gerarchia non prende atto del

fatto che come chiesa ufficiale non significhiamo più nulla per le nuove generazioni. Tanti nostri

figli, senza neppure astio, ignorano totalmente la chiesa, come io ignoro il calcio.

*

La chiesa appare come un partito, una forza sociale tra le altre, coi suoi interessi – addirittura

interessi economici non puliti, forse peggiori delle offese sessuali - con le sue alleanze calcolate,

non di rado impresentabili. Così mi ha parlato un vescovo, ed ha aggiunto chiaro e tondo,

letteralmente: «Questa non è la chiesa di Gesù Cristo». Chiederei, senza volere una risposta: si

dicono queste cose con franchezza nelle discussioni interne alla Cei? Ma ci sono discussioni nella

Cei? Vista da fuori è una compattezza congelata: i vescovi sostituiti da un capo, come scolaretti, o

soldatini. Le indiscrezioni parlano di lotte tra cardinali. La discussione pubblica è scomparsa anche

dai settimanali diocesani. Come può vivere una comunità che non discute, che non dibatte? Tutto

ciò è irreale.

Ma, se è davvero così, è un modo responsabile, questo, di essere pastori nella chiesa? Certo, non

tocca a me giudicare. Ma queste domande che i laici si fanno, arrivano ai vescovi? Anche la

sincerità è amore e rispetto.

*

Oggi, la fede di molti è muta, senza chiesa. Tanti credenti pregano, amano, sperano, senza

trovare aiuto e fraternità spirituale in una chiesa semplice, povera, chiara, libera, franca, coraggiosa.

Ma così la fede rischia anche di addormentarsi.

Chi sta in mezzo alla gente vede, anche senza volerlo, che la chiesa è, per la gente comune, un

oggetto “tele-visivo” (cioè, che si vede lontana, sullo schermo delle cose imponenti e false, o finte).

La chiesa di Cristo è irriconoscibile nei suoi rappresentanti: strane vesti, strane facce, strani

linguaggi, strani buffi titoli, strane relazioni.

So bene che ci sono tante piccole realtà vive. Spesso, sono luoghi di buoni sentimenti, caldi.

Nelle parrocchie-servizio-pubblico si può pregare, una messa dopo l’altra come gli spettacoli del

cinema. Ma sono poche – le conosciamo quasi tutte - le realtà ecclesiali “im-pegnate”, dove ci si

spende, ci si dà “in pegno” al prossimo, agli ultimi, contrastando i grandi mali organizzati. Certo,

non occorre che abbiano visibilità. Ma la “tele-chiesa” vatican-vescovile oscura tutto. Sembra che la

gerarchia continui a vivere nel sogno di una società coincidente con la chiesa, un matrimonio tronoaltare,

con una arcaica autorità sacerdotale. E c’è fior di mascalzoni che ne approfittano.

*

Ho ringraziato l’arcivescovo per suoi segnali di vicinanza ai poveri e agli esclusi, alternativi alla

maledetta peste del razzismo, che ha contagiato anche i cristiani, e specialmente le regioni più

“cattoliche”!

Ma i segnali “politici” vanno in direzione opposta. Gli ho inviato una nota critica sul discorso

del Papa al nuovo ambasciatore italiano presso lo Stato pontificio. Il crocifisso nelle scuole –

ipocrisia di origine fascista – compensa forse la crocifissione dei poveri del mondo, respinti dal

governo italiano in mano a dittatori e predoni feroci?

Quel discorso del Papa è stato un episodio, tra vari altri (come la cena tra cardinali e ministri!),

che ha indignato tanti veri credenti: nel migliore dei casi una ingenuità inammissibile, una cecità

funesta.

Non si tratta di dissenso per il dissenso, come se noi fossimo i puri, no. Ma ci sono eventi,

momenti, in cui non è lecito tacere, ma è doveroso esprimere la propria distanza da posizioni prese

dalla gerarchia in nome della Chiesa tutta.

L’odierno catto-berlusconismo della gerarchia cattolica italiana è pari al catto-fascismo del

ventennio violento, che fu il fallimento dei pastori e l’abbandono dei fedeli al potere malvagio e

falso. Può accadere di peggio alla chiesa? Questo è peggio della persecuzione.

*

Ho scritto anche che mi ha scandalizzato e turbato un parere del cardinale Bagnasco secondo cui

il celibato clericale prevale sulla messa: «La convenienza di tutelare il celibato ecclesiastico e di

prevenire il possibile sconcerto nei fedeli per l’accrescersi di presenze sacerdotali uxorate prevale

infatti sulla pur legittima esigenza di garantire ai fedeli cattolici di rito orientale l’esercizio del culto

da parte di ministri che parlano la loro stessa lingua e provengono dai loro stessi Paesi». Così la

risposta negativa di Bagnasco, a nome della Cei, al primate della chiesa greco-cattolica romena,

monsignor Lucian Muresan (da Adista n. 93, 4 dicembre 2010, p. 7). Ma dov’è la responsabilità del

pastore? Il popolo cristiano ha il diritto di obbedire a Gesù: «Fate questo in memoria di me», assai

più che il dovere di rispettare forme clericali assolutamente discutibili.

L’eucaristia è dono dato ai fedeli, non è possesso di un clero. È certamente bene che

normalmente sia guidata da persone (che dovrebbero poter essere sia uomini sia donne) preparate e

designate ecclesialmente, ma la scarsità crescente – grazie a Dio! - del tipo del “sacerdote-maschiocelibe”

non interroga la gerarchia sul dovere primario di rispettare la realtà fondamentale del

sacerdozio comune dei cristiani?

Perché i vescovi temono più la discussione e il dissenso serio, segni di vita, che il gregarismo

passivo? L’arcivescovo Pellegrino diceva, invece, di essere più preoccupato di questo che di quello.

*

Ci occorrono ripensamenti non piccoli, che il Concilio ha soltanto avviato, e devono ancora

essere proseguiti. Si aderisce alla verità, non all’autorità. E invece la storia cattolica va

diversamente.

La chiesa lottò con l’impero per farsi impero. E prima aveva ceduto a Costantino e Teodosio,

rinnegando la vittoria di Gesù nel deserto sulla tentazione del potere. Non sono cose da poco, ma

questioni radicali: o le affrontiamo, o il Vangelo rimane sotto il moggio, e quella che passa è una

sua caricatura.

C’è una vera e propria questione del laicato. C’è disagio, indignazione, abbandono, c’è lo

scisma silenzioso. Responsabile è solo chi se ne va in silenzio, oppure siamo tutti responsabili? C’è

forse una speciale responsabilità gerarchica, e a molti sembra – non lo so - che i vescovi ne

prendano coscienza meno del laicato più vivo.

*

Non c’è Vangelo senza testimonianza di giustizia, senza schieramento spregiudicato per la pace.

Contro la maggiore di tutte le violenze, che è quella dei poteri omicidi e oppressivi.

Ho letto tutta la newsletter n. 8, del novembre 2010, del Coordinamento Cristiani per la pace, di

Vicenza (pubblicata solo in parte in Adista Segni Nuovi, n. 96, 11 dicembre 2010, p. 6). Concordo

con quel passaggio in cui Antonio Pigatto dice: «Anche in riferimento al Dal Molin, il nocciolo

della questione sta proprio qui: la Chiesa deve o non deve occuparsi di ciò che accade nel mondo e

denunciare con forza ciò che è contro il messaggio di Gesù?». Deve occuparsene. Non mi sembra

giusta una posizione di neutralità su una questione enorme e terribile come la base militare Dal

Molin, base di guerra ingiustificabile.

Alla pacificazione nella chiesa non si può sacrificare la pace nel mondo. Se la chiesa, per paura

di dividersi sulla guerra e la pace, si divide dalla pace, essa si spacca nel cuore. I movimenti per la

pace mediante la nonviolenza attiva e positiva non meritano solo rispetto e comprensione nella

chiesa, ma devono caratterizzare la sua presenza nel mondo. Se non altro per pentimento e riscatto

dalle tante compromissioni storiche della chiesa-struttura con le strutture di guerra. Ma soprattutto

perché l’annuncio del Vangelo passa soltanto per la scelta, anche costosa ed eroica, della politica di

pace, contro i metodi e le forze di guerra.

*

C'è invece nella chiesa cattolica un sostanziale disprezzo-utilizzo (come l' "utilizzo finale" di

Berlusconi!....) del mondo, che porta tradizionalmente il cattolicesimo a teorizzare la "indifferenza"

morale tra monarchia e repubblica, tra democrazia e dittatura, tra Berlusconi e la Costituzione,

chiedendo al potere solo la libertà di predicare il Vangelo, ma in una posizione di compromissione

(o addirittura di privilegio e appoggio per scambio di favori illeciti, come fa oggi il cattoberlusconismo

incosciente dei maggiori gerarchi) che lo svuota e lo falsifica, perché non è più il

Vangelo per i poveri e per la giustizia, annuncio storico del Regno promesso e iniziato nei cuori.

La libertà della chiesa, la libertà religiosa, giustamente reclamata dal Papa per i cristiani e per

tutti, specialmente in questi giorni, è inutile e sprecata se non è sfida evangelica ai potenti. Gesù è

morto in croce perché ha esercitato «fino in fondo», con amore coraggioso e fedele, questa sfida

alle falsità potenti del mondo.

Sappiamo bene, dai profeti e da Gesù, che Dio non vuole un culto senza giustizia, e che, tra

l’offerta all’altare e la pace, tra la religione e la riconciliazione generosa nella giustizia, sono la pace

e la giustizia che hanno la precedenza. Sappiamo, dal Vangelo come dal Corano, che saremo

giudicati sulle azioni, non sulle religioni.

Sappiamo che dobbiamo dire no ad una religione evasiva dalla carità storica sociale e politica.

*

Credo, sinceramente, che la fede ha da produrre una teologia seriamente e moralmente politica,

di animazione spirituale della polis. La condanna ecclesiastica della teologia della liberazione, è

stata un’auto-condanna storica del cattolicesimo. Possibile che non si veda questo errore? Dopo la

vittoria morale sul falso comunismo dittatoriale di tipo sovietico, si aspettava una lotta al turbocapitalismo,

che appare ancora incerta e contraddittoria: in Italia la chiesa appoggia un pessimo

capitalismo personale, corrotto, corruttore e illegale, fautore della “rivoluzione dei ricchi”, contro

ogni giustizia.

Certo, la fede non si riduce a tattica politica, sempre opinabile, ma, se non produce scelte

storiche di valore liberante, non è fede operosa nel Signore che viene. La chiesa non è per

mantenersi, ma per spendersi. Come Gesù. Non è forse vero?

*

Oso dire che la chiesa deve cessare di essere clericale, come è ancora, nonostante la riforma

conciliare. Il classismo sacro clericale è contro la fraternità evangelica. «Voi sapete che coloro che

sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e si fanno anche riverire, ma fra voi non è così».

Questa è la prima regola. Chi ha compiti di servizio nella chiesa non è più sacro degli altri.

Sacerdotale è tutto il popolo, non alcuni soltanto. Il ritorno del sacerdozio, abolito da Gesù in

quanto esteso a tutti i credenti, è una deformazione successiva del cristianesimo storico, che va

messa in discussione a fondo. I nomi dei ministeri nella chiesa delle origini sono accuratamente

laicali e mai sacrali. Il “potere sacro” non è cristiano.

*

Ho sentito di poter parlare con fiducia e in tutta franchezza, come un cristiano deve parlare a un

vescovo. Non occorre essere d’accordo in tutto, se ci si ascolta e rispetta. Credo che, invece di

omaggi formali, così dovrebbe fare ciascuno, vicino o lontano dal vescovo.

«Mi sembra – ho concluso - il modo migliore di ringraziarla e ricambiarle gli auguri, e di darle

una collaborazione mentre comincia il Suo servizio a Torino».

Enrico Peyretti

 

1 (Frammenti di un’amicizia senza confini. Gandhi e Sorella Maria, pro-manuscripto, Eremo di Campello sul Clitunno,

1991, p. 15 e 22. Si vedano anche, per conoscere questa cristiana, la sua corrispondenza con Primo Mazzolari e quella

con Giovanni Vannucci, nelle edizioni Qiqaion della Comunità di Bose. Mio articolo in Lo Straniero n. 105, marzo

2009)