Leggere la Parola può essere pericoloso*
di Daniel Marguerat*
in “www.garriguesetsentiers.org” del 14 luglio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Martin Lutero, convocato dall'imperatore Carlo Quinto a spiegarsi, comparve davanti alla dieta di Worms il 14 aprile 1521. All'ingiunzione di ritrattare i suoi scritti che erano stati posti davanti a lui, rispose con un discorso in latino, che gli chiesero di ripetere in tedesco; lo fece, in piedi al centro dell'assemblea, di fronte all'imperatore: “Sono dominato dalla Sacra Scrittura che ho citato e la mia coscienza è prigioniera della Parola di Dio. Non posso né voglio ritrattare nulla, perché non è né saggio né prudente agire contro la propria coscienza.” E al giudice ecclesiastico che gli risponde: “Abbandona la tua coscienza, frate Martino, il solo atteggiamento senza pericolo sta nel sottometterti all'autorità”, Lutero ribatte e persiste: “Eccomi, non posso fare diversamente. Che Dio mi aiuti.”
Curiosamente, Martin Lutero rivendica la sua libertà usando un linguaggio di cattività: sono dominato, la mia coscienza è prigioniera, non posso fare diversamente. Non vedo in questo un'astuzia per mostrarsi innocente, perché il monaco di Wittemberg non ricorre a tali pietose strategie di difesa; vedo l'ammissione di essersi imbarcato in un'avventura che lo travolge interamente: la lettura della Parola. E in questa avventura, padrone non è il lettore, ma la Scrittura che si è impossessata di lui. Dopo Worms, Lutero si rinchiuderà a Wartburg: cattività voluta, deliberata, segno della cattività della lettura.
Leggere quindi non è senza pericolo. Non si sa mai in anticipo dove vi condurrà l'avventura della lettura, almeno se si accetta di aprirsi al viaggio, all'ignoto, alla scoperta, invece di leggere stringendo a sé con paura un cumulo di certezze acquisite. Leggere non è disporre di un libro; il lettore si espone al testo, e in un certo modo, è lui ad essere a disposizione del testo e della sua parola. Leggere può essere pericoloso.
È sembrato che dai racconti di miracolo al linguaggio del giudizio, da Luca a Paolo, dagli Atti degli Apostoli all'Apocalisse, le immagini di Dio siano infinitamente più diverse di quanto si pensi. Il Nuovo Testamento non ha una dottrina, ma presenta diversi approcci di Dio, o più esattamente tiene insieme diversi tentativi di dire il mistero di Dio. È rischioso leggere; il rischio è qui di volatilizzare l'unità del Nuovo Testamento. Si può ancora parlare di un Dio dei primi cristiani?
Valutiamo la portata di questa constatazione. Queste diverse immagini di Dio, tratte dalla lettura, non sono semplicemente addizionabili le une alle altre, come se, accumulando gli autori del Nuovo Testamento, sovrapponendo le loro percezioni di Dio, si ottenesse così un ritratto competo del Dio dei primi cristiani. Si è constatato che i loro discorsi non possono essere messi semplicemente gli uni di seguito agli altri. L'apostolo Paolo ha un modo di indicare la grazia, con la sua convinzione
potente che la barriera della Legge sia caduta, che non si accorda immediatamente con la teologia di Matteo, per il quale il Regno di Dio è una fessura, una porta stretta attraverso cui passare. Luca si ostina a percepire Dio nello spessore della storia sociale e politica del suo tempo, mentre l'Apocalisse vive della convinzione che Dio si sia assentato dal mondo. La lettera ai Galati (3,28),
perpetuando il gesto liberatore di Gesù, abolisce ogni prerogativa dell'uomo sulla donna, ma all'altro capo del Nuovo Testamento, le epistole pastorali delineano il ritratto di una donna destinata al silenzio, invitata a sottomettersi all'uomo e resa responsabile della caduta (1Timoteo 2,9-15; 5,3- 16). L'unità del Nuovo Testamento non si farà per addizione.
Bisogna allora rassegnarsi alla constatazione di una Scrittura spezzata in posizioni teologiche inconciliabili? Il Dio dei primi cristiani sarebbe l'emblema di teologie disparate? Direi che dobbiamo ammettere l'irriducibile diversità delle immagini di Dio nel Nuovo Testamento, e che questa ammissione passa attraverso un lutto: il lutto dell'uniformità. Solo la rinuncia all'utopia dell'identità ci fa accogliere la pluralità come un fatto positivo, e non come una minaccia. L'unità del Nuovo Testamento non è sospesa alle corrispondenze che si troverebbero nei suoi autori ispirati; sta nella loro comune volontà di render conto dell'evento Cristo. Gesù di Nazaret, poiché verso di lui tendono tutti i racconti e i discorsi, cementa l'unità del Nuovo Testamento.
Ma attenzione. Questa unità è in tensione. I primi cristiani hanno, ciascuno alla sua maniera, accolto e attualizzato nella loro situazione la memoria di Gesù. La loro diversità indicherebbe che certi hanno preservato fedelmente il messaggio del Nazareno, mentre altri lo avrebbero falsato? Diffidiamo di questi termini, perché la “fedeltà alla tradizione di Gesù” che consiste nel fissarla per trasmetterla parola per parola è in realtà una fondamentale infedeltà; fa della parola di Gesù un oggetto da museo, una parola da incensare come si incensano i morti. I primi cristiani non avevano questa visione immobile della tradizione; la parola di Gesù, perché era la parola del Signore presente nella Chiesa, doveva essere attualizzata. Per loro, essere fedeli ad una tradizione impone che essa evolva e si sviluppi. Prova ne è che la scrittura dei vangeli non ha esaurito il flusso delle tradizioni orali, segno che perfino questa imponente cristallizzazione letteraria non aveva svigorito la memoria di Gesù. La Chiesa antica del resto ha mantenuto solo una parte degli scritti cristiani per farne la raccolta normativa della sua fede; molti altri, che noi conosciamo in parte, sono stati
scartati, ed amplificano ancora considerevolmente la diversità di cui parliamo; ma questa è un'altra storia.
I primi cristiani hanno impegnato la loro fedeltà a Cristo su vie teologiche diverse, e il Nuovo Testamento vive del riunire queste fedeltà. Paolo è fedele alla memoria di Gesù quando afferma che la dignità dell'uomo gli viene da Dio solo e che la salvezza non è una prestazione religiosa. Matteo è fedele alla memoria di Gesù, quando ripete ostinatamente che la fede si concretizza nel gesto e nella parola, altrimenti non esiste. Luca è fedele alla memoria di Gesù quando vede lo Spirito di Dio all'opera nelle peripezie della missione. L'autore dell'Apocalisse è anch'egli fedele quando sostiene che i poteri oppressivi sono già stati vinti sulla croce, e che il giudizio su di loro è solo una questione di tempo.
Il Nuovo Testamento vive dell'accoglienza di queste fedeltà, la cui diversità arriva fino al disaccordo, e le tiene insieme. Può farlo, perché le testimonianze e i sistemi teologici che riunisce non invitano ad adottare un principio, una norma, una dottrina, ma a seguire qualcuno, Gesù di Nazaret, il Cristo, Parabola di Dio. La fedeltà ad una persona non si accontenta di una uniformità, e lo Spirito si è incaricato di farlo comprendere ai primi cristiani.
Gestire oggi la loro eredità, significa resistere all'illusione totalitaria del discorso unico, e rischiare a propria volta una parola. Una parola che dovrà essere umilmente sottoposta alla testimonianza della Scrittura, per sapere se prende posto, e come, nello spazio delle fedeltà a Cristo, Ma una parola che, e proprio se si discosta dal discorso maggioritario, non sarà forse totalmente nostra, perché in essa, un'Altra Parola parla, che fa dire: non posso fare diversamente...
• Tratto dal libro: Le Dieu des premiers chrétiens, éd. Labor et Fides, 2011 (pp. 249-252)
• Daniel Marguerat, biblista, è stato pastore della chiesa evangelica riformata del canton Vaud e dal 1984 al 2008 insegnante di Nuovo Testamento alla Facoltà teologica dell'Università di Losanna.