Santo dubito. Wojtyla beato a tempo di record

 

 

di Luca Kocci

 

 

 il manifesto” del 30 aprile 2011

 

«Santo subito!» chiedevano gli striscioni e gridavano i papaboys, i neocatecumenali, i giovani focolarini e del Rinnovamento nello Spirito accorsi a piazza San Pietro per il funerale di Giovanni Paolo II, l'8 aprile 2005. E «Santo subit sarà papa Wojtyla, che verrà beatificato domani primo maggio, Festa dei lavoratori.

Una beatificazione a tempo di record: meno di due mesi dopo la morte - avvenuta il 2 aprile -, papa Ratzinger, successore e braccio destro di Wojtyla per 25 anni alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'ex Sant'Uffizio, avviò il processo di canonizzazione, senza aspettare i 5 anni previsti dal Diritto canonico; nel dicembre 2009 riconobbe le «virtù eroiche» di Giovanni Paolo II, insieme a quelle di Pio XII, il papa dei silenzi sulla Shoah; ora la beatificazione, a 6 anni dalla morte, quando per il papa del Concilio e della Pacem in Terris, Giovanni XXIII - popolare almeno quanto Wojtyla -, ce ne vollero 37.

Papa Ratzinger che beatifica il suo predecessore Wojtyla è immagine eloquente di un papato che santifica se stesso per rafforzare il potere dell'istituzione ecclesiastica e riaffermare la centralità di Roma e della curia in una Chiesa sempre meno «popolo di Dio», secondo l'espressione del Concilio Vaticano II, e sempre più verticistica e gerarchica. Una parabola, questa, che deve molto proprio a Giovanni Paolo II e al suo lunghissimo pontificato che, al di là del grande consenso raggiunto anche grazie al sapiente uso dei mass media, può essere letto con la categoria interpretativa della restaurazione: progressiva riduzione dell'autonomia delle Conferenze episcopali territoriali; repressione ed emarginazione di vescovi, religiosi, teologi e teologhe non in linea con il governo e il pensiero vaticano; riaffermazione di dogmi, principi e norme sia dottrinali che ecclesiastiche e chiusura a qualsiasi richiesta di riforme proveniente dalla base in materia di collegialità e partecipazione, etica familiare e sessuale, ruolo della donna e dei laici; sostegno a congregazioni e movimenti conservatori - dall'Opus Dei ai Legionari di Cristo, dai neocatecumenali a Comunione e liberazione - alfieri della restaurazione pontificia ed isolamento di gruppi ed esponenti del mondo progressista e cattolico democratico; copertura di scandali - dallo Ior di Marcinkus alla pedofilia - spesso liquidati, quando sono stati ammessi e quando è stato chiesto il «perdono», come colpe di alcuni «figli della Chiesa», non dell'istituzione; condiscendenza nei confronti di governi e regimi militari violenti, ma benevoli nei confronti della Chiesa, considerati un argine contro il comunismo, soprattutto in America latina (è storia l'immagine di Pinochet e di Giovanni Paolo II affacciati al balcone della Moneda di Santiago del Cile che benedicono la folla, nell'aprile del 1987).

Messe in fila anno dopo anno (lo ha fatto anche l'agenzia di informazioni Adista con un dossier dal titolo Santo? Dubito), le tappe di questa restaurazione mostrano la storia di un «altro» pontificato che, in questi giorni di ubriacatura mediatica e apologetica per Giovanni Paolo II «il grande», come ebbe a dire l'allora segretario di Stato vaticano, il cardinal Angelo Sodano, subito dopo la morte del papa, sembra cancellato.

Pochi mesi dopo l'elezione al soglio pontificio - il 16 ottobre del 1978, superando il conservatore Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, e il «progressista» Giuseppe Benelli, arcivescovo di Firenze -, nel gennaio del 1979 Wojtyla partecipa alla terza conferenza dei vescovi latino-americani e mette in riga la teologia della liberazione, che aveva teorizzato «l'opzione preferenziale per i poveri» e incarnato il Vangelo nelle condizioni storiche dei popoli oppressi, punendo i teologi accusati di marxismo e di fare «lotta di classe». Dopo di loro sarà lungo l'elenco delle teologhe e dei teologi progressisti puniti o ridotti al silenzio; dei vescovi, delle religiose, dei religiosi e dei preti «fuori le righe» isolati, costretti ad una rigida obbedienza o rimossi, da Oscar Romero, prima di essere ucciso dagli squadroni della morte della giunta militare al potere in Salvador, ai fratelli Ernesto e Fernando Cardenal, coinvolti nel governo sandinista in Nicaragua, fino al vescovo francese Jacques Gaillot, troppo schierato a fianco degli emarginati. Poi i provvedimenti per potenziare l'autorità centrale: rafforzamento della curia romana e declassamento dei sinodi dei vescovi e delle conferenze episcopali; «giuramento di fedeltà» al magistero pontificio anche senza una esplicita «definizione dogmatica» e ampliamento della «infallibilità papale» anche a quei principi «non contenuti nelle verità di fede»; riaffermazione della superiorità assoluta della Chiesa cattolica romana sulle altre Chiese cristiane «sorelle» e del cattolicesimo sulle altre fedi, in una visione dell'ecumenismo assolutamente romanocentrica.

Dopo gli «sbandamenti» del Concilio e le effervescenze del decennio '68-'77 che attraversarono anche la Chiesa e il mondo cattolico, la missione del pontefice non poteva che essere quella di ricompattare i cattolici sotto la guida della gerarchia, riaffermare il magistero tradizionale contro interpretazioni e letture troppo aperte e progressiste, riconquistare alla Chiesa visibilità e un ruolo di guida della società. E con Benedetto XVI, la missione continua, con ancora maggior forza.