I beni comuni, via alla “pace giusta”.


La ricerca del Cantiere del Cipax

Adista documenti n° 90 del 3/12/2011

 

DOC-2392. ROMA-ADISTA. È al fondamentale tema dei beni comuni come «via alla pace giusta» - primo punto all’ordine del giorno di fronte all’accelerato processo di distruzione globale - che è dedicato il Cantiere 2011-2012 organizzato dal Cipax (in collaborazione con Adista, Archivio Disarmo, CdB San Paolo, Confronti, Ore Undici, Pax Christi Roma, Progetto Continenti, Religions for Peace-Italia, Sae gruppo romano, Servizio Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese evangeliche), come «luogo di pace per ascoltare racconti, scambiare esperienze, costruire il futuro». Tema quanto mai decisivo oggi, in Italia, in un momento in cui alla crisi del debito pubblico si cerca di far fronte anche privatizzando i servizi pubblici locali, calpestando così la richiesta di un cambiamento di rotta espressa dalla popolazione italiana con il risultato referendario di giugno.

Era stato il Consiglio Ecumenico delle Chiese, nel documento finale della Convocazione internazionale ecumenica sulla pace svoltasi a Kingston, in Giamaica, lo scorso maggio, a parlare di «Pace giusta» come «un procedimento collettivo» teso a «liberare gli esseri umani dalla paura e dal bisogno», a «superare la discriminazione e l’oppressione», a «stabilire le condizioni per relazioni giuste che privilegino la partecipazione dei più vulnerabili e il rispetto dell’integrità del creato». Un’integrità ferocemente violata dai colpi assestati dall’attuale modello di sviluppo - ancor di più in tempi di crisi globale - all’aria, all’acqua, al territorio, alla democrazia, ai diritti umani, quei beni comuni che, evidenzia il Cipax, «possono esprimere, se riletti e aggiornati alla luce del presente, un ordine istituzionale, sociale, ecologico, economico ma pure etico alternativo a quello che domina sul mondo da circa tre secoli». Ed è così che, come ha sottolineato il presidente del Cipax Fabrizio Truini nel primo incontro del Cantiere, svoltosi il 19 ottobre scorso nella sede della Comunità di san Paolo, il “bene comune”, «come categoria astratta tramandataci da una lunga tradizione», si incarna adesso nei più concreti “beni comuni”, al plurale, da declinare nelle diverse prospettive», da quella economica a quella etica fino a quella religiosa, che è appunto la prospettiva su cui si è soffermato p. Alex Zanotelli nel primo incontro del Cantiere. Di seguito ampi stralci del suo intervento, tratto da una registrazione e non rivisto dall’autore. (claudia fanti)

 

DALL'ESODO ALL'ALTERNATIVA

 

di Alex Zanotelli

 

 

È bello ritrovarci sulle strade del comune impegno verso un mondo altro, rafforzandoci vicendevolmente in tempi tutt'altro che facili. Abbiamo vinto il referendum sull’acqua e sul nucleare, ed è un risultato straordinario. L'abbiamo vinto senza soldi, senza il supporto dei partiti e malgrado il boicottaggio dei mezzi di comunicazione. Adesso vogliamo attuarlo concretamente, città per città. Abbiamo cominciato con Napoli, prima grande città d'Italia a muovere un passo verso la ripubblicizzazione del servizio idrico, attraverso la trasformazione dell’azienda “Arin S.p.a.” in “Acqua Bene Comune Napoli”, un ente di diritto pubblico che gestirà le risorse idriche. E non è l’unico segno di speranza, per Napoli, essendosi il sindaco impegnato, sul fronte dei rifiuti, a far passare la raccolta differenziata al 70% in sei mesi (il problema si porrà in maniera grave a Roma, con Malagrotta strapiena e appena il 10% di raccolta differenziata). (…).

Mi è stato chiesto di parlare dei beni comuni in una prospettiva religiosa. Sappiamo già che l'uomo è un animale politico. Marx ci ha aiutato a capire che è un animale economico. Ma l'uomo è essenzialmente un animale religioso, perché assetato di risposte, bisognoso di capire perché ci siamo, da dove veniamo, dove andiamo. E questa è una dimensione religiosa.

Per dare un’idea della gravità della situazione che stiamo vivendo, vorrei partire da quanto afferma un teologo cattolico americano, Paul Collins, nel suo libro Judgement Day, Struggle for Life on Earth (“Il Giorno del Giudizio. La lotta per la Vita sulla Terra”): «Malgrado la nostra incapacità di prevedere il futuro in dettaglio – scrive -, il mio punto di vista è che tutti coloro le cui vite si inscrivono nei sette decenni successivi alla II Guerra Mondiale appartengono alle generazioni tra le più disprezzate e maledette in tutta la storia del mondo. Noi saremo odiati dai nostri nipoti, dai nostri pronipoti e da tutti quelli che verranno per una ragione molto semplice: non era mai successo prima che gli esseri umani sfruttassero, danneggiassero, degradassero la terra fino a questo punto. Nessun'altra generazione si è macchiata del crimine che la nostra generazione ha commesso».

Stiamo letteralmente uccidendo il pianeta. Gli scienziati tacciono, ma è ormai certo che la temperatura media sulla terra aumenterà di 3-4 gradi centigradi. Sapete cosa vuol dire? I tre quarti dell'Africa, continente in cui vivono un miliardo e 700 milioni di persone, non saranno più abitabili; le Nazioni Unite prevedono che già a metà secolo saranno 250 milioni i rifugiati climatici. Il Bangladesh andrà in buona parte sott'acqua. Dove andranno i suoi 100 milioni di abitanti? In India? In Cina?

 

LA PRIMA BIBBIA

Sant'Agostino dice che la prima Bibbia che Dio ci ha dato è il creato. Cosa ne abbiamo fatto di questa Bibbia? È completamente scomparsa dall'orizzonte, anche ecclesiale. Non abbiamo neanche coscienza del problema: in quarant'anni mai nessun penitente è venuto da me a confessarsi di un peccato contro l'ambiente. Un prete napoletano che è andato per un anno in Guatemala ha raccontato di essere rimasto scioccato quando un bambino si è confessato per aver maltrattato un albero.

Prima di partire per l’Africa, avevo un atteggiamento quasi di disprezzo verso le religioni tradizionali africane che la nostra cultura occidentale definiva “pagane” o “animiste”. In realtà, esse non hanno mai adorato idoli. Come neppure vanno definite religioni panteiste: non sostengono, infatti, che tutto è Dio, ma che Dio è in tutto, e questo anche noi cristiani dobbiamo professarlo, se crediamo in un Dio presente ovunque. Oggi lo chiamiamo panenteismo: significa che Dio è presente in tutto, che dà forza, che dà vita. Religioni come quelle africane o quelle degli indigeni nordamericani e sudamericani, degli aborigeni dell'Australia, di tante popolazioni native dell'Asia costituiscono una fonte straordinaria per recuperare la prima Bibbia che Dio ci ha dato.

Eppure, quando si parla di dialogo interreligioso, queste religioni primordiali (non primitive) non vengono menzionate mai, come se non esistessero. E questo la dice lunga sul disprezzo che nutriamo verso religioni in cui è così incredibilmente presente il senso di Dio, in cui non esiste neppure una separazione tra vita comune e vita religiosa. Addirittura, nelle lingue bantu non esiste la parola “religione”: per usare tale concetto si è dovuto ricorrere alla parola araba dini. E ciò perché in Africa, come pure per gli indigeni, la religione è vita. Per noi che abbiamo completamente dimenticato la prima Bibbia, queste religioni possono essere dunque di grande aiuto.

(…) Purtroppo, uno degli ambiti su cui si riflette di meno in campo cattolico (ma anche protestante) è quello della teologia naturale. Chi ha lavorato su questi temi ha sofferto un’emarginazione totale, come indica il caso di Thomas Berry, ecoteologo scomparso nel 2009, autore tra l’altro del libro Il futuro cristiano e il destino della terra. Scrive Berry: «La sopravvivenza del pianeta terra nella sua integralità mi sembra sia il problema fondamentale che siamo chiamati ad affrontare oggi. In un certo senso, il progetto umano e il progetto pianeta terra sono un unico progetto. Non ci può essere il primo se non c'è il secondo. Non c'è nessuna possibilità che il progetto umano abbia successo se il progetto terra fallisce. Il fatto che tale conclusione non venga compresa dalle forze della comunità umana è la sfida più grande che ci troviamo di fronte».

Ciò di cui abbiamo bisogno è di rinnovare l'intera tradizione religiosa spirituale dell'Occidente. Come scrive Berry, «dobbiamo passare da una spiritualità dell'alienazione del mondo naturale a una spiritualità di intimità con il mondo naturale; da una spiritualità del divino rivelato nelle Scritture a una spiritualità del divino rivelato nel mondo visibile attorno a noi; da una spiritualità centrata sulla giustizia semplicemente verso gli esseri umani a una spiritualità basata su una giustizia che include il pianeta terra. Il destino del cristianesimo sarà determinato in larga parte dalla sua capacità di realizzare questi tre profondi impegni».

Scrive ancora Berry: «Si potrebbe dire che la più importante divisione oggi esistente non è più né di classe né di religione; piuttosto, la divisione fondamentale tra gli esseri umani è tra coloro che si dedicano a preservare il pianeta e coloro che sono decisi a distruggerlo» (si potrebbe anche esplicitare tale divisione usando i termini “antropocentrico” e “biocentrico”). Ecco perché non possiamo dirci credenti se ci troviamo tra coloro che sono intenti a distruggere la prima meraviglia che Dio ci ha dato. (…).

Ancora: «Dal punto di vista morale, abbiamo elaborato una risposta significativa al suicidio, all'omicidio, al genocidio. Oggi, però, ci troviamo dinanzi al biocidio: stiamo uccidendo gli stessi sistemi di vita. Anzi, abbiamo di fronte a noi il geocidio, l'uccisione del pianeta nelle sue strutture fondamentali. Queste sono opere del male, più di qualsiasi altra cosa che abbiamo conosciuto fino ad oggi, ma per affrontarle non abbiamo principi etici né morali».

Stiamo uccidendo il pianeta e nessuno è responsabile. «Stiamo distruggendo forme di vita che hanno avuto bisogno di milioni, forse di miliardi di anni per venire all'esistenza». Le foreste tropicali in Amazzonia, per esempio, hanno richiesto 60 milioni di anni per essere come sono oggi: rappresentano  forse la più bella espressione di vita sulla terra e forse nell'intero universo, eppure noi le stiamo distruggendo alla velocità di 50 ettari a minuto. «Una semplice dottrina della custodia non sembra adeguata per problemi gravi come questi. Ben altri sviluppi si richiedono nel nostro modo di relazionarci al mondo naturale, se vogliamo salvarci».

Magari vi fosse in Italia qualche teologo a dirci queste cose! Tra l'altro, in un Paese cattolico come l’Italia, con centinaia di facoltà teologiche, io non ho mai letto un solo studio teologico sull'acqua. (…).

 

IL DIO DEGLI SCHIAVI

Come credenti, come cristiani, dobbiamo richiamarci a quanto si legge nella Bibbia riguardo ai beni comuni. (…). La Bibbia è essenzialmente “teologia narrativa”, il racconto del modo in cui un popolo ha camminato nella storia dal 1200 a.C. in avanti e del come ha avvertito la presenza di Dio nella sua stessa storia.

Nel primo testamento, il punto di partenza non è la Genesi, il libro che leggiamo per primo (i primi capitoli sono stati in realtà scritti per ultimi), ma l'esperienza dell'esodo, quella di un piccolissimo clan trasferitosi in Egitto, nel grande impero faraonico, sotto Ramses II. Non conosciamo la ragione di tale trasferimento: forse era fuggito, forse era andato lì in cerca di lavoro. In ogni caso, in Egitto, questo piccolo clan prende lentamente coscienza di venire sfruttato per costruire le grandi città in cui l'impero egiziano ammassava le sue ricchezze. La parola imperium, come “emporio”, viene da “ammassare”: l'impero è lì dove si ammassano i beni.

Stanco della schiavitù, il clan, sotto la guida di leader come Mosè, Aronne, Miriam, aspira a recuperare la sua libertà. E alla fine riesce a fuggire, vedendo in questa fuga, anzi in tutta la sua lotta di liberazione, la mano di Dio. Dio è sempre presente ovunque ci siano persone che si danno da fare per liberarsi.

È questo il significato dell'Esodo. E si tratta di una novità assoluta in Medio Oriente: tutte le religioni mediorientali erano basate su ben altri concetti di Dio: Dio è il Dio del Faraone, il Dio degli eserciti, il Dio dei generali vincitori, il Dio dei re. Qui invece appare come il Dio di un branco di schiavi. E, come si legge in un bellissimo brano contenuto nell'ultimo capitolo del libro di Amos, Dio non ha liberato solo gli ebrei: «Non siete voi per me come gli etiopi, figli di Israele? Oracolo del Signore. Non sono io che ho fatto uscire Israele dal paese d'Egitto, i Filistei da Caftor, gli Aramei  da Kir?». È il Dio che è presente in tutti i cammini di liberazione.

Ma, ottenuta la libertà, in che direzione andare?

Nel suo studio Alternative al capitalismo globale. Dalla storia biblica all'azione politica, Ulrich Duchrow, uno dei migliori teologi europei, afferma che ogni impero è costruito sulla base di tre aspetti fondamentali:

1. Un'economia di opulenza, in cui le ricchezze sono concentrate in poche mani. L'economia occupa sempre il primo posto e dobbiamo ringraziare Marx per avercelo ricordato. Negli antichi imperi, il 5% della popolazione aveva la pancia piena, gli altri tiravano la cinghia (oggi quel 5% è diventato tutt’al più un 10-15%). Roma, al tempo di Gesù, aveva 1 milione di abitanti: almeno il 40% erano schiavi, i ricchi patrizi romani erano quattro gatti.

2. Una politica di oppressione: per garantire un'economia di opulenza, si richiede una politica di oppressione, con gli apparati dello Stato impegnati a tenere a bada l’80-90% della gente che muore di fame. Un'economia di opulenza richiede per forza di cose l’oppressione, la repressione, il controllo.

3. Una religione imperiale. Gli imperi sanno molto bene che l'uomo è un animale religioso e utilizzano la religione a proprio vantaggio: è fondamentale far passare l’idea che Dio benedica l'impero. (…).

 

UN NUOVO ESODO

Ma non siamo ancora stanchi di imperi? Dai documenti che sono a disposizione degli storici, risalenti al massimo a seimila-ottomila anni fa, risulta che l'umanità è sempre stata retta da imperi. Oggi ci troviamo di fronte al più grande impero della storia, un impero mondiale. Non ci siamo ancora stancati?

La narrativa ebraica afferma che Dio non sa cosa farsene degli imperi, che anzi si fa presente in ogni lotta di liberazione. Ma, una volta liberato, il popolo cosa fa? È chiaro che sente di non poter dar vita a un nuovo impero; è uscito dall'impero - ecco l'esodo - verso un altro stile di vita. Uno stile che si può riassumere in tre punti:

1. Un’economia di uguaglianza, che vuol dire che i beni esistenti devono essere divisi il più equamente possibile.

2. Una politica di giustizia: non la giustizia dei tribunali, ma la giustizia distributiva. Una società lasciata a se stessa tende necessariamente a strutturarsi nella disuguaglianza, perché l'egoismo dimora nel cuore dell'uomo. Pertanto, sono quelli che vengono eletti dal popolo che devono assumersi la responsabilità di instaurare un'economia di uguaglianza.

3. Una profonda esperienza di Dio, di qualcosa che brucia dentro. È quello che noi chiamiamo l'aspetto religioso, cioè l'esperienza dell'incontro con Dio, un Dio Totalmente Altro e, proprio perché Totalmente Altro, totalmente libero. Non il Dio del sistema, dunque, ma un Dio che ascolta il grido dei poveri, il grido degli schiavi, il grido degli immigrati, il grido di una prostituta, il grido di chi è schiacciato ed oppresso.

È un punto fondamentale quello del nostro concetto di Dio. Perché ogni sistema cerca di accaparrarselo. Per Tommaso d'Aquino, non a caso, l'unica teologia vera è quella negativa: Dio non è questo, Dio non è quello. L'unica via potrebbe forse essere quella mistica: Dio è il nulla, dice Giovanni della Croce.

Dobbiamo ringraziare storici, sociologi e archeologi per il modo in cui si sta ricostruendo la nascita di questo popolo: un piccolo clan che attraversa il deserto, dove rimane per lungo tempo, e poi entra nella terra promessa. Quello che ci racconta il libro di Giosuè, scritto 700 anni dopo - che, cioè, gli ebrei sono entrati nella terra promessa con le armi in pugno, uccidendo e distruggendo - è epica religiosa, null'altro: gli scavi effettuati in Israele rivelano che non ci sono state distruzioni, né città cadute. In realtà questo popolo è entrato lentamente, da sud, trovando un po' di spazio sulle colline di Giuda. Lungo la costa della Palestina c'erano delle città-stato, le quali, liberatesi dall’impero egiziano, entrato in crisi in seguito all'invasione dei popoli indoeuropei, avevano cominciato a loro volta a diventare oppressive. Ed è così che molti erano fuggiti sulle colline - vengono chiamati habiru, da cui viene la parola ebrei, fuorilegge – dove avevano formato piccoli nuclei, i quali si incontrano con il nucleo di Mosè, giunto dall'Egitto con questa fede rivoluzionaria: Dio non è il Dio dei re, non è il Dio dei faraoni, ma è il Dio degli schiavi, che Egli vuole liberi e impegnati a vivere in un'altra maniera. Ecco l'alternativa proposta.

In Medio Oriente, gli unici a credere che la terra appartenga a Dio sono questi piccoli clan. Ed è proprio perché la terra è di Dio che deve essere divisa tra tutti. È il concetto di economia di uguaglianza. Altrove, la terra è del faraone, è di Cesare, è dello Stato. Ma in realtà la terra è di Dio e deve servire a tutti per vivere.

Gli studi recenti ci dicono che questo primo insediamento, che va dal 1200 circa al 1050, è davvero un tentativo, da parte di Israele, di vivere in maniera alternativa rispetto ai popoli vicini, secondo, cioè, un'economia di uguaglianza. Non c'è un governo centrale, non ci sono tasse, non c'è un esercito, la terra è equamente divisa. Un programma alternativo che dura circa 150 anni. Poi il tradimento. (…).

La fine di questo tentativo avviene con la monarchia. Gli ebrei vanno da Samuele e gli dicono: «Vogliamo un re, come tutti gli altri imperi». È il capitolo 8 del libro di Samuele, uno dei più duri del primo testamento. Samuele risponde: «Ma sapete quello che il re vi farà? Prenderà i vostri ragazzi e li farà entrare nel suo esercito per fare le guerre. Prenderà le vostre ragazze perché non vorrà accontentarsi appena di una donna (Salomone aveva un harem di un migliaio di donne). Prenderà i vostri campi…». Ma loro: «Vogliamo un re». Ed ebbero il re.

E si ritorna alle città. Davide conquista Gerusalemme, una città pagana, e ne fa la sua capitale. E Salomone completa l’opera, costruendo il tempio, in maniera che il re possa uscire dal palazzo, entrare nel tempio e dire: «Eccomi, Jahvè». Ma Jahvè non c'è più, è fuori con i poveri, gli oppressi, gli umiliati. E da qui nasce la profezia.

Walter Brueggemann, uno dei più grandi biblisti americani, dà a questa storia che ho appena ripercorso il titolo Journey to the common good, “Viaggio al bene comune”. Leggo soltanto la conclusione: «Il nostro impero si chiama consumismo, dove c'è sempre più speranza per sempre più persone, dove immaginiamo che le cose diventeranno sempre più confortevoli, sempre più sicure, e ci renderanno sempre più felici. L'ideologia del militarismo consumista pervade totalmente la nostra cultura, con il sostegno dei media, che hanno perso la loro capacità di pensiero critico, di un sistema giudiziario ora completamente votato alla sicurezza nazionale, di una pubblicità televisiva aggressiva, un’appendice liturgica all'ideologia consumistica… C'è un'alternativa a questo sistema: la pratica della vicinanza e un'alleanza per il bene comune. Una tale alternativa non è facile, richiede un’uscita intenzionale dal sistema, quello che la Bibbia chiama “esodo”. Nell'antica narrativa gli israeliti non volevano partire, e, anche dopo la partenza, sognavano spesso di poter tornare sotto il faraone. La partenza, l'uscita, è un’impresa difficile: la capacità di pensare, di immaginare, di agire, di vivere al di là del sistema richiede un enorme lavoro di tipo psicologico, economico, liturgico».

Dietro il nostro concetto di beni comuni c’è appunto questo passaggio dall'impero in cui siamo immersi a una maniera alternativa di vivere.

 

SPEZZARE IL PANE

Ritengo straordinaria l’attuale ricerca sul Gesù storico. Pensiamo solo al libro di José Antonio Pagola Gesù. Un approccio storico o quello di William R. Herzog Gesù profeta e maestro.

Collochiamo prima di tutto Gesù nel suo contesto imperial-romano. Gesù nasce sotto Cesare Augusto, il primo imperatore romano, cinque anni prima dell'anno 1, e sarà crocifisso sotto il secondo imperatore romano, Tiberio, un uomo terribilmente violento, sospettoso di tutto. (…). Gesù nasce nella periferia dell'impero, in Palestina. Il re che governava, a cui Augusto aveva dato il potere, Erode, era un assassino criminale che aveva ammazzato quasi tutta la sua famiglia. E sapeva usare abilmente la religione: pagano (era ebreo solo per parte di madre), avrebbe fatto del Tempio una delle meraviglie del mondo. E prima di morire avrebbe ordinato di massacrare 3.000-4.000 ebrei nell'anfiteatro di Cesarea Marittima da lui costruito, affinché si piangesse la sua morte in Israele.

L’impero romano non va letto sotto la luce fascista con cui lo abbiamo studiato. Il suo dominio non si esercitava in maniera prioritaria attraverso le legioni romane. Gli americani (che stanno studiando con grande attenzione l’impero romano, perché hanno paura di fare la stessa fine) non riescono a capire, non a caso, come i romani siano riusciti, con solo 28 legioni, a difendere un territorio così vasto con i mezzi di trasporto dell’epoca. Uno dei più attenti studiosi americani dei servizi di intelligence sostiene che i migliori servizi segreti nella storia siano stati quelli di Cesare Augusto. Il controllo era esercitato con grande ferocia. Vorrei ricordarvi a cosa servivano le crocifissioni: erano uno strumento del terrorismo romano, applicato solo nei riguardi di schiavi e sobillatori contro l'impero. A livello economico, Roma spillava soldi attraverso tasse esorbitanti. Uno storico come Richard A. Horsley, nel suo volume Galilea, storia, politica e popolazione, sostiene che in Galilea si pagavano almeno tre tasse: una a Cesare, una al re Erode Antipa e una al Tempio. Gli studi storici ci dicono oggi che il Tempio era alleato dell'impero romano. Le autorità religiose pagavano profumatamente il titolo di sommo sacerdote a Roma; Pilato conservava le vesti dei sommi sacerdoti e le consegnava loro solo per il giorno di festa. Si capisce quindi quanto stretto fosse l'intreccio.

È in questo contesto, in cui il 90% dei galilei viveva sotto la soglia della povertà assoluta, che Gesù arriva proclamando il regno di Dio. È la stessa parola che usava Roma: basileia in greco, imperium in latino. Ma per Gesù c'è un altro re e un'altra maniera in cui poter vivere. Ed è parlando a questa poveraglia della Galilea che Gesù ritorna all'antico sogno, radicalizzandolo: Dio è il Dio dei poveri. Non «beati voi poveri di spirito», come abbiamo tradotto noi, ma «beati voi miserabili della Galilea perché vostro è il regno». Dio ha mandato un messia, Gesù, perché portasse la buona novella ai poveri. Questo è l'annuncio di Gesù in Galilea.

È qui uno dei grandi fallimenti dei cristiani. Perché non ricordiamo i detti di Gesù sull'economia? Evidenziamo una cosa soltanto: le uniche due parole autentiche di Gesù che abbiamo in aramaico sono “Abbà” e “mammona”. Gli antipodi.

Il miglior teologo moralista in Italia, Enrico Chiavacci, ricorda nel suo libro Teologia morale e vita economica che l'insegnamento di Gesù in campo economico, il suo sogno di un'economia di uguaglianza, è basato su due comandamenti (non solamente consigli evangelici), validi per ogni discepolo. Primo: cerca di non arricchirti. Secondo: se tu possiedi ricchezze, quale che sia la ragione per cui sei arrivato ad averle, è per condividerle.

È da qui che parte la visione economica di Gesù in Galilea, il cui concetto fondamentale è quello dello “spezzare il pane”. Ai poveri che dicevano «Abbiamo pochi pani», egli risponde: «Sedetevi in piccoli gruppi e cominciate a dividere quel poco che avete». E nasce il miracolo, nasce il nuovo. Ecco l'antica visione di Israele reintrodotta, ma rafforzata, radicalizzata, dall'insegnamento di Gesù.

È Gesù - sono stanco di ripeterlo - che ha inventato la nonviolenza attiva, non è stato Gandhi, il quale ha sempre detto di averla ripresa dal Vangelo. E l'ha inventata perché ha capito che il suo popolo era talmente inferocito con Roma che sarebbe andato incontro alla rovina. Gesù è stato crocifisso non con due ladroni, ma con persone che lottavano con le armi contro Roma. C'era già in atto la ribellione.

Ma cosa fa Gesù? Sfida il sistema. A un certo punto deve aver compreso che il vero problema della Galilea risiedeva a Gerusalemme, nel Tempio e a Roma. Ed ecco la grande marcia, prima della marcia del sale di Gandhi, prima della marcia di Martin Luther King dall’Alabama a Washington: scende con la poveraglia, insieme a pochi discepoli, dalla Galilea ed entra a Gerusalemme. Sarebbe bastato che vi fosse entrato sul dorso di un cavallo e sarebbe stata la guerra contro Roma. Vi entra sul dorso di un asino. Prende in giro tutti, è teatro di strada. Entra nel tempio, sfida il sistema. Una sfida terribile: «Con quale autorità fai questo?». E così decidono di farlo fuori: Gesù è condannato, crocifisso fuori dalle mura di Gerusalemme. Ma a quel crocifisso l'Abbà, il Papà, è rimasto fedele. E nel suo nome verrà rilanciato il tentativo delle piccole comunità cristiane che, all’interno dell'impero romano, rappresenteranno un’alternativa ad esso.

Concludo ricordando che l'Apocalisse non ha nulla a che vedere con la fine del mondo. È un libro scritto da un profeta per aiutare le comunità cristiane a leggere l'impero romano. Il profeta dell'Apocalisse non è preoccupato per la persecuzione, la persecuzione fa bene alla Chiesa. È preoccupato perché le comunità dell'Asia Minore cominciano ad adattarsi allo stile imperial-romano, a tradire il sogno. Un sogno che continuamente abbandoniamo. (…).

Dietro questa visione, insomma, c’è una religiosità biblica profonda. Io sono convinto che, se la riscopriremo, troveremo nuova forza per impegnarci non solo a proclamare l'alternativa, ma a farla nascere dal basso, in un momento così grave per il pianeta. Buon lavoro a tutti!