UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
DI TORINO
FACOLTÀ DI SCIENZE
POLITICHE
CORSO DI
PERFEZIONAMENTO IN COMUNICAZIONE E MEDIAZIONE CULTURALE
Anno Accademico 2003/04
La figura femminile
nelle religioni monoteiste
Prof.
F. Avanzini
Indice
-
Il
quadro di riferimento
-
I
colloqui
-
Alcuni
cenni sui valori dell’ebraismo
-
Importanza
della donna nella famiglia
o
I
rapporti coniugali
o
Il
divorzio
o
L’eredità
-
La
donna e lo studio
-
Tre
punti problematici
-
La
preghiera delle donne
-
La
donna nella shari’a islamica
o
La
famiglia
o
Il
matrimonio
o
Il
divorzio
o
La
contraccezione
o
L’aborto
o
Il
velo islamico
-
La
posizione della donna nelle leggi dello stato
-
Primi
passi verso un cambiamento di prospettiva
-
Premessa
-
La
donna nelle scritture cristiane
-
Il
ruolo della donna nelle istituzioni
Conclusioni…
e progetti per il
futuro…………………………………………………...pag. 22
Introduzione
Il titolo di questa breve
dissertazione, tratto da una frase pronunciata da una mediatrice durante un
intervento nel corso di Mediazione culturale, mi è sembrato calzante per ciò
che intendevo illustrare affrontando il tema della figura femminile nelle
religioni.
La religione, infatti,
costituisce un fatto intimo, privato, anche se socialmente condiviso, che
coinvolge la sfera della fede, e quindi del non scientificamente dimostrabile, né
confutabile, ma fa parte di una cultura di appartenenza nella quale
difficilmente si riescono a separare gli elementi personali da quelli sociali,
gli aspetti religiosi da quelli morali, le questioni teologiche dalle
consuetudini.
L’argomento, ossia
l’immagine che nelle varie religioni viene proposta della femminilità, della
sessualità e della donna in genere, invece, è oggetto del mio interesse da un
certo periodo, da quando cioè ho incominciato ad occuparmi di una rilettura dei
testi a cui fa riferimento la religione cristiana (l’Antico e il Nuovo
Testamento) in senso
storico-critico, atta a rimuovere aggiunte e affermazioni legate al contesto
storico in cui questi testi sono stati scritti, ma che per anni sono state
utilizzate a fondamento di una concezione sostanzialmente maschilista
dell’organizzazione della società.
L’analisi non si è fermata
alla religione appartenente al nostro contesto culturale, ma si è allargata, in
un’ottica di confronto interreligioso, anche
alle religioni afferenti all’area delle religioni dette “del
Libro”, ossia le religioni monoteiste che, assieme a quella cristiana, sono le
religioni ebraica e musulmana.
Questa
tesina costituisce un tassello, con tutti i limiti della sua strutturazione, che
si colloca all’interno di un percorso teorico più ampio, volto a evidenziare
come la religione non solo costituisca un quadro simbolico che affonda le radici
in un patto sociale, ma anche ad interrogarsi sulle rigidità e
autoreferenzialità che caratterizzano questo quadro simbolico, in situazioni in
cui il patto sociale viene modificato dalle mutate condizioni socio culturali.
Incomincerò
con l’indicare ciò che non ho scritto.
Il
percorso teorico avrebbe potuto partire dalle rappresentazioni divine
primordiali, di cui
Parallelamente, (la mancanza
di una sezione in merito è anche dovuta ad onestà intellettuale, in quanto non
è argomento da me adeguatamente padroneggiato) una rivisitazione della figura
femminile all’interno delle diverse confessioni religiose non può escludere
la conoscenza profonda e non banalizzata delle religioni orientali, dove la
figura femminile trova espressioni che hanno origine dagli archetipi del nostro
inconscio collettivo.
Mi sono quindi limitata alle
religioni del Libro, che per origini comuni hanno più affinità di quelle che
abitualmente siamo abituati a pensare.
L’approccio di indagine tra
le diverse religioni è stato leggermente differente nei singoli capitoli:
mentre per la religione cristiana, essendo questo un terreno sicuramente più
battuto, ho privilegiato gli aspetti di criticità, le controversie, gli
elementi innovativi che spesso con fatica dalla base, ma anche da fonti
autorevoli, emergono, per l’islam e l’ebraismo ho cercato di
riportare le letture fatte in merito senza interpretarle attraverso i
miei schemi abituali, evitando di darne una lettura connotata dal mio percorso
personale.
Per evitare questo, ho pensato
di integrare ciò che ho riportato con delle “chiacchierate” con donne
appartenenti alle religioni prese in considerazione. Non si tratta di vere e
proprie interviste, ma più che altro di un lavoro di “ripulitura”, di
chiarimento riguardo agli elementi emersi nelle letture.
I tre capitoli non seguono una
trattazione espositiva parallela, ma piuttosto un’organizzazione indipendente,
strutturata sulla base del materiale che avevo a disposizione e dal “taglio”
che si è potuto dare nei colloqui. Un tentativo di comparazione è stato fatto
nei quadri riassuntivi in appendice, pur nella consapevolezza dei rischi di
un’eccessiva schematizzazione, allo scopo di visualizzare anche le affinità e
non solo le differenze. In questi quadri, la suddivisione del cristianesimo in
confessioni diverse è stata funzionale per evidenziare alcune differenze con il
cattolicesimo, anche se queste non sono supportate da ulteriori argomentazioni.
Le
donne sono Nedelia Tedeschi, della sinagoga torinese, insegnante della scuola
ebraica in pensione, figura attiva della sua comunità, impegnata nel gruppo di
dialogo interreligioso “Insieme per la pace”, e Charifa Kbiri, mediatrice
culturale, originaria del Marocco, di religione musulmana, impiegata presso i
servizi socioassistenziali del comune di Torino e della sua collega di lavoro,
Tunisina, presente durante l’incontro con Charifa, che è intervenuta portando
contributi tratti dalla sua esperienza personale. Non mi è stato possibile
incontrare, a causa dei suoi numerosi impegni, ma è rimasta aperta la
disponibilità a farlo nell’arco dei prossimi mesi, la pastora valdese Daniela
Di Carlo, della comunità Agape, di Ghigo di Prali.
Ciò che è stato detto in
queste chiacchierate non risulta specificatamente riportato nel testo, anche se
gli incontri sono stati registrati e sbobinati, ma ne costituisce il tessuto
connettivo, l’elemento di vita religiosa concretamente vissuta.
Dai colloqui è emerso però
un aspetto fondamentale, che fa da linea di confine tra due modi diversi di
pensare la religione: la fede nel testo sacro come portatore di verità, e
quindi non soggetto ad alcuna revisione storico critica, e la concezione del
testo come frutto di una rielaborazione umana, non definitiva, modificata nel
corso dei secoli nel quale può essere fatto un lavoro di decostruzione e
ricostruzione del messaggio originario.
La consapevolezza di
avventurarmi in uno spazio privato, legato a convinzioni intime della propria
fede, e il rispetto per questo spazio, mi hanno reso incapace di proporre
domande dirette che mettessero in discussione le certezze, in favore di una
lettura più critica dei testi, nei confronti di donne che si ritenevano
soddisfatte della loro scelta religiosa, e fortemente radicate nella propria
comunità di appartenenza, convinta di non essere portatrice di un metodo
efficace per la liberazione della donna, ma semplicemente una persona in
ricerca.
L’ebraismo poggia su un
insegnamento scritto e un insegnamento orale: il primo (il Pentateuco, in
ebraico Torà, e gli altri libri della Bibbia) racchiude i principi eterni
dell’ebraismo e le sue leggi, il secondo (il Talmud), che raccoglie la
saggezza di centinaia di generazioni, rappresenta l’insieme delle norme
necessarie per attuare, in ogni epoca e in ogni luogo, le Leggi della Torà.
Questo secondo Insegnamento è quello che ha permesso di rendere applicabili le
leggi della Torà in contesti storico sociali in continuo mutamento.
Dopo la pubblicazione del
Talmud intorno al 300 d.C. non è più possibile fissare norme, ma è sempre
necessario discutere e analizzare quelle già stabilite, per osservare
Va comunque considerato che la
legge Orale ha avuto un ruolo fondamentale nel permettere il mantenimento dei
valori fondamentali in un mondo che, ovviamente, ha continuato a cambiare
dall’epoca della promulgazione della Torà ai giorni nostri, ma nello
stesso tempo, in considerazione delle differenze che si sono venute a creare
nell’ambito delle varie comunità ebraiche dovute alle diversità delle società
in cui gli ebrei si sono trovati a vivere, diversi possono essere alcuni
atteggiamenti, anche nei riguardi del rapporto uomo/donna, che si sono di fatto
consolidati nelle diverse comunità[1].
Il valore fondamentale per
l’ebraismo è considerato lo zemiut, la riservatezza, la modestia, sia per
l’uomo che per la donna, inoltre non esiste dicotomia tra corpo e anima e
l’equilibrio sta nel trovare il giusto spazio per curare l’aspetto
spirituale, ma senza trascurare le esigenze della “carne”.
Altro elemento è la non
considerazione degli esseri umani come tutti uguali, nel senso che ci sono
differenze nei compiti che Dio ha assegnato ad ogni gruppo, così come tra uomo
e donna, e ognuno sarà valutato e premiato in base ai compiti che gli sono
stati assegnati.
L’ultimo aspetto rilevante,
ai fini di comprendere il ruolo della donna all’interno dell’ebraismo è
l’importanza che si dà al hesed, parola di difficile traduzione, ma che
indica la volontà di far sì che gli altri stiano bene, la dedizione che porta
a preoccuparsi per gli altri per il piacere che si prova nel fatto che gli altri
stiano bene. Il hesed è il valore più alto a cui dovrebbero essere improntati
i rapporti con gli altri, e quindi, inizialmente, con i membri della propria
famiglia.
Dio creò inizialmente
l’uomo androgino, ma poi preferì distinguere uomo e donna, per evitare
l’egoismo e l’egocentrismo che sarebbe derivato dal non avere una compagna
con cui condividere sentimenti e decisioni.
La famiglia è certamente il
nucleo più importante all’interno dell’ebraismo, e, all’interno della
famiglia, un ruolo decisivo è sostenuto dalla donna. Si tratta di un ruolo
vissuto in un ambito chiuso, ma, dato che un valore fondamentale è lo zemiut,
questa caratteristica aumenta il valore del compito stesso affidato alla donna.
Il ruolo della donna è quello di creare e mantenere una casa ebraica,
occupandosi del cibo, della famiglia e ovviamente dell’educazione dei figli,
compito che è stato affidato ad entrambi i coniugi, ognuno per la sua parte.
Secondo i maestri il compito degli uomini è quello di insegnare il contenuto
della rivelazione,
Nell’ebraismo il celibato
non è visto di buon occhio, mentre è considerato precetto (mitzwà) per
l’uomo il matrimonio. Si ritiene che i rapporti sessuali trovino la giusta
collocazione nel matrimonio, non solo come dovere, ma anche come piacere per
ambedue i coniugi. Sono proibiti i rapporti, nell’ambito del matrimonio, se
fatti in condizioni di ubriachezza, o dopo un litigio, perché in questi casi si
tratterebbe di un puro appagamento dei sensi. Il termine che la torà usa per
indicare i rapporti sessuali è yedi’à, ed indica una conoscenza
approfondita, che mal si collega con un atto in cui prevalga l’aspetto
puramente fisico.
L’ebraismo
considera il matrimonio un contratto e non un sacramento, quindi non c’è
nessuna proibizione riguardo al divorzio, anche se la pratica non è certo
incoraggiata. Il divorzio ebraico ha la forma del ripudio della moglie da parte
del marito, ciò però non deriva da una forma di svalutazione del ruolo della
donna, ma dalla peculiarità del modo di stipulare i contratti tipica del mondo
ebraico. Secondo le leggi ebraiche, infatti, qualsiasi contratto (non solo
quello matrimoniale), ha un solo contraente attivo, che stipula il contratto
mentre la controparte ha solo la possibilità di accettare o rifiutare. Essendo
uno solo quello che firma, può essere uno solo quello che rescinde il
contratto, e ciò vale anche per il matrimonio.
Se dal testo della Torà non
si ricavano particolari limitazioni alla possibilità dell’uomo di ripudiare
la moglie, interviene
Resta il fatto che l’unico
che può ripudiare è l’uomo e, se egli non vuole farlo, la donna non ha la
possibilità di rendere nullo il contratto. Esistono inoltre due forme di tutela
della donna nella legislazione rabbinica: se il marito si ostina a non voler
concedere il divorzio alla moglie nonostante le sue richieste e contro il parere
dei rabbini a cui si è rivolta, il tribunale rabbinico ha il diritto di fare
pressioni sul marito, arrivando addirittura a metterlo il marito in prigione (è
prevista la collaborazione delle autorità giudiziarie degli stati in cui non
viga la legge ebraica), anche a pane e acqua, fino a quando non deciderà di
acconsentire alla richiesta della moglie (ma pare che attualmente, nello stato
di Israele le autorità rabbiniche siano alquanto restie a obbligare gli uomini
a concedere il divorzio).
Anche per quanto riguarda
l’eredità, è importante non limitarsi alla lettura del testo della Torà, ma
integrarla con l’analisi della complessa legislazione in materia che si può
ricavare dallo studio della Legge Orale.
Secondo
Ma per capire meglio è
necessario spiegare alcuni elementi che differenziano la mentalità e la
legislazione ebraica da quella attualmente più diffusa, almeno in Occidente.
Una prima differenza la
troviamo sul valore da dare al testamento: finchè una persona è in vita può
disporre dei suoi beni, e fare dono di parte
o tutto il suo patrimonio a chi meglio crede, maschio o femmina che sia;
dopo la morte non si ha più “volontà” da far valere, e il patrimonio della
famiglia viene diviso fra i figli maschi. Se il capofamiglia desidera che moglie
e figlie ricevano parte delle sue sostanze non ha che da donarla loro, fintanto
che è in vita.
Un secondo aspetto da prendere
in considerazione è la ketubà,
l’atto civile del matrimonio religioso.
E’ un contratto stipulato
prima del matrimonio, nel quale si prevede la somma che l’uomo si impegna a
versare alla moglie in caso di divorzio, la somma che verrà destinata alla
donna in caso resti vedova (fino ad eventuali nuove nozze). L’esistenza della ketubà
mette la donna in posizione di privilegio rispetto a chiunque vanti diritti
sull’eredità del defunto. Infatti la moglie risulta in questo modo creditrice
privilegiata del marito (e prima tra i creditori, in ordine temporale) e dato
che, prima di procedere alla spartizione dell’eredità, si devono saldare i
crediti in sospeso, si provvederà prima a fornire la moglie di quanto dovutole,
poi si pagheranno eventuali altri creditori, e solo a questo punto si procederà
alla spartizione dell’eredità fra i figli maschi.
L’ebraismo dà una
grandissima importanza allo studio della Torà, ed affida questo compito agli
uomini, sottolineando che lo studio non deve essere attività intellettuale fine
a se stessa, ma studio della Torà con fini religiosi. Tale compito degli uomini
ha lo stesso valore del compito della donna di creare una casa ebraica.
Riguardo allo studio della Torà
da parte delle donne, ci sono opinioni discordi. Da un’affermazione del Talmud
di Rabbi Elietzer l’insegnamento della Torà alle figlie è considerato tiflut,
immorale, superfluo, ma ci si è posti il problema se questa affermazione debba
essere interpretata come Alachà (norma a cui è obbligatorio attenersi) o come
un semplice consiglio. L’analisi di altre fonti mostra che la seconda ipotesi
è quella attendibile, come dimostra una figura femminile, Beruià, moglie di
Rabbi Meir e figlia di Rabbi Haninà, donna di grande cultura. L’affermazione
di Rabbi Elietzer non può essere una proibizione allo studio della Torà, per
il fatto che ogni ebreo/a è tenuto a conoscere in maniera approfondita tutte le
regole che riguardano gli obblighi che deve compiere, quindi da questo non
possono essere escluse le donne. Ma per queste ultime, lo studio della Torà è
ristretto a ciò che è di loro competenza, perché lo studio di regole che non
riguardano i loro compiti specifici si riduce a puro esercizio intellettuale,
quindi condannabile.
La situazione odierna è però
notevolmente cambiata, almeno nel mondo cosiddetto occidentalizzato. Spesso la
donna di oggi, pur continuando a formarsi una famiglia, svolge attività
lavorative anche di grande livello culturale. Le università sono aperte a
uomini e donne, e la presenza femminile è rilevante. Di fronte a questa
situazione, alcuni maestri contemporanei hanno addirittura capovolto la frase di
Rabbi Elietzer, sostenendo che, nelle condizioni attuali, colui che proibisse a
sua figlia di studiare
Negli
anni ’60 del XX secolo, il nascere dei movimenti femministi negli Stati Uniti,
porta le donne ebree ad aprire il dibattito sulla posizione della donna nella
religione ebraica, partendo da una lettura femminista dei testi che riconsidera
le figure femminili che si sono confrontate con gli uomini su un piano di parità,
con pari responsabilità nei riguardi della comunità. L’accusa principale nei
confronti dei rabbini è che nei loro commenti, avrebbero sempre privilegiato il
classico modello femminile, ponendo in secondo piano il ruolo pubblico delle
donne.
Un midrash dell’Esodo (cap.
38, 8), nel quale le donne sono protagoniste, ci fa entrare nella logica
dell’interpretazione:
Lo stesso vale per la figura
di Ester (Libro di Ester, cap. 8),
che affronta il re, suo marito, Haman, pur di salvare il suo popolo che sta per
essere sterminato, che rappresenta un modello di donna attiva, indipendente che
prende decisioni autonome[3].
Un altro esempio di donne
coraggiose e determinate viene sempre dall’Esodo (cap. 1) quando le levatrici,
intimate dal faraone ad uccidere tutti i maschi appena nati, disobbedirono,
giustificandosi davanti al faraone: “Le donne ebree non sono come le egiziane,
sono forti e vigorose e prima che la levatrice arrivi, esse hanno già
partorito”, oppure nei Proverbi (n. 31) dove si descrive come donna virtuosa
quella che si occupa della casa e del vitto, organizza la servitù, e generosa e
caritatevole, ma anche vende ciò che produce, compra ciò che è meglio per la
sua famiglia (pensa a un podere e lo
compra), sa parlare con sapienza, è istruita.
Interessandosi della posizione
della donna nell’ebraismo è necessario chiarire tre punti che vengono spesso
sollevati da donne non ebree: i riti di purificazione mediante il bagno rituale
(la tevilah), il ripudio, la separazione delle donne dagli uomini nei momenti di
preghiera, evidente con la struttura del matroneo nelle sinagoghe.
E’ davvero una posizione di
secondo piano quella delle donne nei riguardi della preghiera? Una precisa norma
esenta la donna da tutti i precetti positivi, i riti e le preghiere che
prevedono un tempo preciso per il loro espletamento. Si tratta di
un’attenzione per i ritmi biologici a cui è legata, e per le incombenze della
cura della casa che è connessa alla santità stessa della famiglia, e perciò
esalta qualcosa di prezioso. Essa deve recitare una volta al giorno le Diciotto
benedizioni, anziché tre volte come gli uomini. Può entrare e uscire dal
tempio secondo gli orari che più si adeguano alle sue necessità, entrando e
uscendo dalla sinagoga anche durante le celebrazioni. Per questo è stato
riservato un posto per le donne, in modo da permettere maggior libertà di
movimento.
La donna non è accettata alla
guida della comunità ortodossa, proprio in quanto non è tenuta
all’osservanza di tutti i precetti: su questo da qualche decennio si è aperto
un serrato dibattito, soprattutto negli Stati Uniti ma oggi anche esteso in
Europa e in Israele. Da alcuni anni le donne rabbino sono accettate nelle
comunità cosiddette riformate, che prendono le mosse dall’illuminismo ebraico
tedesco del XVIII secolo che si richiama a Moses Mendelssohn.
Ha fatto scendere su di te il
Libro per la verità
E il buon diritto confermando
ciò che fu prima;
Egli fece scendere
Il Corano, III-3
L’islam e la shari’à (le
leggi islamiche), contrariamente alle visioni riduttive al riguardo diffuse in
Occidente, non hanno conferito alla donna una posizione più precaria o
peggiorativa rispetto alle altre religioni monoteiste. La questione fondamentale
da porsi nell’approcciarsi al mondo musulmano è perché siano sopravvissuti
modelli e comportamenti sociali tipici delle cosiddette società premoderne,
caratterizzate da una forte gerarchia tra clan, tribù, caste, uomini e donne.
La problematica è complessa,
e la lettura unicamente religiosa è insufficiente[5].
La
dottrina islamica è interpretata, da diversi secoli, in modo estremamente
diverso dalle varie correnti che caratterizzano il pensiero musulmano, a questo
si aggiungono le differenze tra sunniti e sciiti, la distinzione tra le diverse
scuole giuridiche. Inoltre sono notevoli le differenze in campo socioculturale e
di applicazione della shari’à: tra il Medio Oriente e la penisola araba, e il
resto del mondo, le leggi coraniche sono state gradualmente adottate secondo
sistemi socioculturali e sistemi di valori del tutto differenti e che non sono
scomparsi con l’avvento dell’islam, anzi ne hanno fornito gli elementi per
interpretazioni diversificate.
In questo contesto lo status,
il ruolo e i diritti della donna variano a seconda della scuola di pensiero,
della nazione, della cultura locale. E’ importante partire dal fatto che non
esiste UNA unica donna musulmana: questo concetto molto diffuso semplifica una
realtà molto articolata, in cui però le donne hanno spesso un denominatore
comune: lo status di minorenni a vita, in paesi tutt’altro che laici e
democratici, che a loro è stato imposto da leggi che rivendicano la loro
legittimità nei valori sacri della religione.
Io non permetto che il bene,
da chiunque di voi,
maschio o femmina, sia stato
fatto vada perduto.
Tutti voi siete uguali.
Il Corano, III-195
L’islam riconosce la parità
ontologica ed escatologica tra uomo e donna e riconosce al femminile un ruolo
fondamentale nell’armonia dell’universo. Tuttavia diverse disposizioni
contenute nei versi del Corano assegnano all’uomo una preferenza: gli
“uomini sono un gradino più in alto” delle donne (II-228).
Si racconta che alcune donne
appartenenti alla prima comunità musulmana furono grandi femministe (come la
grande guerrigliera Nusaybah) e chiesero al profeta Muhammad per quale ragione,
nel Corano, Dio si rivolgeva solo agli uomini e mai alle donne. La leggenda dice
che Dio riconobbe la validità della rivendicazione perché in seguito tutta la
rivelazione parlerà ai credenti e alle credenti.
Secondo l’interpretazione
tradizionalista la diversità biologica determina i diversi ruoli e le
responsabilità all’interno della società: l’uomo, dotato di forza lavora
fuori casa, si occupa di affari e politica e in famiglia è il capo assoluto,
mentre il ruolo della donna, dotata di sensibilità, si svolge esclusivamente
all’interno della famiglia in qualità di moglie e madre. Secondo
l’interpretazione modernista, nell’islam gli uomini e le donne hanno uguali
diritti e doveri e la reclusione femminile raccomandata nei versi coranici si
riferiva esclusivamente alle mogli del profeta.
Già
al tempo di Muhammad, le donne non solo avevano contatti sociali con gli uomini,
sia in pubblico che in privato, ma molte (tra le quali Khadigia, datrice di
lavoro del Profeta prima di diventare sua moglie) si occupavano di affari
economici e politici.
Nell’islam la differenza fra
uomini e donne sta esclusivamente nel modello di famiglia delineato, che
ripropone, consolida e regolamenta la struttura familiare patriarcale e
patrilineare che caratterizza la cultura arabo-semita dove l’islam è nato e
gran parte delle cultura dove si è diffuso. Il modello patriarcale garantisce
lo sviluppo e il crescere del gruppo paterno di appartenenza e in particolare
del suo sistema di valori.
In tale modello l’autorità
è assunta dal capo famiglia ed ereditata sempre da un uomo dello stesso
lignaggio, mentre il ruolo assegnato alla donna è la subalternità a colui che
ha l’obbligo di mantenerla, la maternità e la hadana
(cure relative all’allevamento dei bambini, compito strettamente femminile).
La patria potestà è
esclusiva del padre che gode anche del cosiddetto “diritto di ta’dib”
(correzione) sulla propria moglie.
L’islam obbliga il padre al
mantenimento economico dei figli maschi fino alla pubertà e delle femmine fino
alla consumazione del matrimonio. La donna dunque “appartiene” da nubile al
gruppo paterno e con il matrimonio passa sotto l’autorità del gruppo
familiare di suo marito. Per questo il matrimonio endogamico è stato per tanto
tempo considerato la più felice delle unioni, mentre, soprattutto in situazione
di povertà, molte famiglie decidono di non investire per l’istruzione delle
proprie figlie, perché destinate da adulte a servire un’altra famiglia.
Il matrimonio, sinonimo di
relazione sessuale lecita, perché stabilita da un contratto che prevede
obblighi e doveri della coppia, è considerato un obbligo per tutti i musulmani,
ma non ha vincoli di durata.
La validità del contratto è
determinata da tre condizioni: il consenso della donna e dell’uomo, il
consenso del wali (tutore) della sposa e l’obbligo per lo sposo di versare la
dote alla sua partner.
Numerosi impedimenti sono
elencati nel Corano (unioni tra parenti, appartenenza religiosa non musulmana
della sposa); è lecita l’unione dei musulmani con donne che appartengono alle
religioni del Libro.
Per gli uomini il matrimonio
può essere poligamico: “Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate
allora di fra le donne che vi piacciono, duo o tre o quattro, e se temete di non
essere giusti con loro, una sola…” (Corano IV-3). Ma più avanti si parla
dell’impossibilità di essere equo “Anche se lo desiderate non potete agire
con equità con le vostre mogli” che secondo i modernisti è un divieto alla
poligamia.
Il matrimonio islamico non
contempla il regime della comunione dei beni, perché gli averi e le proprietà
della moglie (acquisiti per eredità o per il suo lavoro) non devono
assolutamente essere usati per il mantenimento della famiglia. Per qusto motivo
le donne ereditano la metà di ciò che spetta ai maschi, in quanto sono questi
ultimi che devono provvedere al loro mantenimento economico.
Il matrimonio può essere
sciolto per cause volontarie: unilateralmente per volontà del marito o con
sentenza del giudice, e bilateralmente per mutuo consenso.
Lo scioglimento unilaterale si
effettua con il ripudio (talaq) per il quale non è permesso né il consenso
della moglie ne il permesso del giudice. Può essere revocato fino alla seconda
volta: “il ripudio v’è concesso due volte: poi dovete o ritenerla con
gentilezza presso di voi, o rimandarla con dolcezza” (Corano, II-229). Il
marito deve pronunciare la formula del talaq in presenza di due testimoni.
La moglie può richiedere il
divorzio se il contratto non è stato rispettato. Mancanza al dovere del
mantenimento, mancanza al dovere di dividere il letto coniugale, richieste di
prestazioni sessuali illecite, sterilità non dichiarata al momento del
matrimonio. L’istanza deve essere presentata al giudice a cui spetta
l’emissione della sentenza di divorzio.
E’ anche prevista una
formula di divorzio bilaterale la cui istanza viene presentata dalla moglie,
seguita dal consenso del marito. In questo caso è previsto un risarcimento da
parte della moglie al marito. I modernisti ritengono che la dottrina islamica ha
ignorato certi principi contenuti nel Corano che, se osservati, avrebbero
migliorato la posizione della donna all’interno della famiglia e della società.
Relativamente al divorzio, per esempio, la clausola 4 del verso II-228 sembra
parlare di uguali diritti tra sposi quando dice: “Esse (le mogli) agiscano con
i mariti come i mariti agiscono con loro, con gentilezza”. Ma gli studiosi
della dottrina non ritennero che questa clausola avesse carattere normativo e
generale, cioè riferito a tutti gli aspetti del matrimonio.
L’atteggiamento
islamico nei confronti del controllo delle nascite si trova in una posizione
isolata rispetto alle altre religioni monoteiste. Infatti sia fondandosi sul
silenzio del Corano in questo campo, sia su alcuni hadith che rivelano un
giudizio indifferente o a volte favorevole del Profeta riguardo al coitus
interruptus, la maggioranza dei teologi islamici dichiarano la contraccezione
permessa, in particolare il grande imam Al Ghazali, che l’ha dichiarata lecita
se attuata secondo intenzioni onorevoli. In seguito la liceità è stata estesa
a tutti gli altri sistemi anticoncezionali che impediscono temporaneamente la
procreazione, mentre è rigorosamente proibita la sterilizzazione.
Più
di una volta il Corano condanna nettamente l’infanticidio, ritenuto frutto di
un’epoca di ignoranza e degradazione, praticato nell’era preislamica in
particolare per le figlie femmine. Sulla base di un hadith del Profeta, è
proibito l’aborto dopo i quattro mesi di gravidanza e per motivi strettamente
economici. In molti stati islamici sono le strutture sanitarie pubbliche che ne
hanno la competenza, proprio per limitare il ricorso ai metodi tradizionali.
Due versi del Corano, rivelati
quindici anni dopo l’inizio della predica del Profeta, parlano di velo.
(p.74 di Le figlie di Abramo).
Anche su questo argomento le
interpretazioni sono diversificate, in particolare sulla parte “ciò che è
visibile”. La più diffusa interpretazione nel mondo islamico raccomanda alle
musulmane di vestirsi castamente quando escono, senza ostentare il loro corpo,
e/o raccomandando di portare il hijab, lungo foulard che lascia visibili solo il
viso e le mani.
Uomini e donne vengono
esortati a essere casti e pudichi per testimoniare la loro fede. Tuttavia alle
donne viene richiesto di uscire velate per imporre allo sguardo degli estranei e
dei non musulmani la loro inviolabilità e la loro sottomissione a Dio.
Mentre le monarchie arabe
traggono una parte della loro legittimità dal loro carattere tradizionale e
garante degli usi e costumi del paese, i dirigenti di molti altri paesi hanno
esercitato il potere, dalle indipendenze nazionali,legittimati come protagonisti
del cambiamento rivoluzionario mirato ad una società di progresso che deve
combattere tutte le forme di regressione e di sfruttamento. Molte dichiarazioni
ufficiali delle nuove repubbliche stabiliscono pari diritti, pari doveri e pari
opportunità in tutti i settori a entrambi i sessi. Tuttavia la correlazione tra
valori universali e articoli che dichiarano l’islam religione di stato,
rappresenta il nodo problematico dello statuto giuridico delle donne del mondo
musulmano.
Ricordiamo che nell’islam
non esistono istituzioni clericali ma è colui che dirige politicamente la
comunità che ha la competenza in materia di affari religiosi.
Alcuni elementi dello statuto personale (spesso
chiamato Diritto di famiglia) di quattro stati islamici.
|
TUNISIA |
ALGERIA |
MAROCCO |
EGITTO |
Parità di diritti e doveri
tra uomini e donne sanciti dalla costituzione e da altre leggi dello stato |
SI |
SI |
SI |
SI |
Poligamia |
NO |
SI |
NO |
SI |
Matrimonio valido solo con
il consenso del tutore della sposa anche maggiorenne |
NO |
SI |
NO |
SI |
Obbligo del versamento della
dote (da parte dello sposo) per la validità del matrimonio |
SI |
SI |
SI |
SI |
Patria potestà ad entrambi
i genitori durante il matrimonio |
SI |
NO |
SI |
NO |
Ripudio verbale o con
semplice segnalazione al giudice riconosciuto come diritto del marito |
NO |
NO |
NO |
SI |
Affidamento dei figli minori
fino a età prestabilita dalla legge (variano da |
SI |
SI |
SI |
SI |
Risarcimento pagato dalla
moglie al marito per sciogliere il matrimonio |
NO |
SI |
NO |
SI |
Obbligo del consenso del
tutore o del marito per esercitare attività lavorativa non domestica |
NO |
SI |
NO |
SI |
L’islam attribuisce alla
donna una posizione subalterna a colui che la mantiene e solo nell’ambito
familiare. Questa specifica subalternità è strumentalizzata e richiamata,
interpretata e rimodellata secondo le correnti di pensiero e i progetti di
società mirati o avviati. La disparità fra uomini e donne che si verifica nei
sistemi socio culturali dei paesi islamici è stata riproposta e
istituzionalizzata dalle elite al potere, per salvaguardare le tradizioni e
acquisire il consenso di tutta la popolazione in contrapposizione con
l’Occidente.
Inoltre la specificità del
Corano e degli hadith, che si occupano in modo dettagliato del rapporto tra
donne e uomini (la sessualità, il matrimonio, il rapporto di coppia, il
divorzio, la dote ecc.) hanno sicuramente contribuito a ostacolare i tentativi
di modifiche visti e vissuti come trasgressioni e violazione del sacro. Ciò non
ha impedito a molti stati islamici di ricorrere alle fetwa
(responsi giuridici) quando l’esercizio del potere lo richiedeva : è
emblematico come questo strumento è stato usato e “favore” delle donne per
tollerare le sterilizzazioni (Kuwait, Arabia Saudita, Egitto, Algeria, Yemen),
affidare loro massime cariche istituzionali (diversi paesi islamici hanno avuto
e hanno ministre e primi ministre) affidare loro compiti di dirigenza militare,
tuttavia lo strumento della fetwa non è mai stato usato per riconoscere alle
madri la potestà sui figli e soprattutto mai per modificare il sistema
del serraglio all’interno della famiglia.
Tuttavia esistono spazi di
riflessione anche all’interno dell’islam per affrontare questioni e temi
fondamentali. In particolare questo è stato possibile da parte di chi, ha avuto
l’opportunità di risiedere al di fuori dei paesi islamici per studio o per
lavoro ed è venuto a contatto con le tradizioni intellettuali occidentali. E’
il caso di Ghazala Anwar, nata e cresciuta in Pakistan, che vive in esilio negli
Stati Uniti, dove ha studiato religione all’Università di Chicago, Illinois e
alla Temple University di Philadelphia; attualmente è docente alla Colgate
University di Hamilton e fa parte del comitato direttivo della sezione “Donne
e religione” dell’American Accademy of Religion. Il metodo da lei seguito
negli studi islamici è ermeneutico e letterario, volto ad indagare quale
impatto i testi classici islamici abbiano sull’esistenza attuale dei
musulmani.
In particolare, già da alcuni
decenni si incomincia a considerare con il metodo storico critico gli ahadith,
fondando le argomentazioni teologiche solamente sul Corano, ma esistono spazi di
cambiamento anche nei metodi usati per lo studio del Corano.
Tra le questioni dibattute dal
femminismo musulmano contemporaneo, hanno grande importanza alcune leggi che i
giuristi classici sostengono di poter basare su certi versetti coranici. Molto
dibattute sono le leggi riguardanti lo statuto personale, tra cui il diritto
dell’uomo di avere più di una moglie, di infliggerle punizioni fisiche, di
ripudiarla con un’iniziativa extragiudiziale e unilaterale; quelle riguardanti
gli alimenti, la custodia e il mantenimento dei figli, il diritto di
successione, il codice di abbigliamento e l’accesso delle donne agli spazi
pubblici e ai pubblici uffici, in particolare a quello di capo di stato. Più
recentemente alcune comunità hanno cominciato a porre la questione della
funzione di guida della liturgia, e in particolare quella della funzione
comunitaria del venerdi.
Si fanno strada in questo
contesto diverse posizioni tra cui quelle riformiste, che ritengono che la
parola di Dio è stata compresa in modo inadeguato o male interpretata.
Una posizione particolarmente
interessante è quella trasformazionista, che si serve di strategie ermeneutiche
classiche per creare uno spazio interpretativo e per riconciliare apparenti
contraddizioni, perplessità o tensioni nel testo.
Ad esempio un moderno studioso
indonesiano, Muhammad Koesnoe, si serve della distinzione classica tra versetti muhkamat
(chiari, certi) e versetti mutashabihat
(metaforici, elusivi, oscuri): questa distinzione, indicata nel versetto
7 della terza sura, non specifica quali versetti appartengano all’una o
all’altra categoria, e tradizionalmente sono sempre stati considerati certi
quelli che sembravano avere una valenza legale, mentre secondo Koesnoe sono
proprio questi a dover essere considerati metaforici , rovesciando una
tradizione esegetica di molti secoli, e fornendo un potente strumento con cui
affrontare tutti i versetti “sessisti” del Corano.
(Simone de Beauvoir)
Incominciare a scrivere questo
capitolo è stato più difficile degli altri per due ordini di motivi.
Il primo è che il
cristianesimo fa parte integrante della nostra cultura e indipendentemente dalle
nostre scelte adulte la cultura cattolica fa parte del patrimonio di conoscenze
e consuetudini, è fonte di dibattiti e controversie che nascono
proprio dalla peculiarità del
vivere in Italia, in un contesto culturale, sociale e politico così vicino al
Vaticano; quindi parlare di cristianesimo, delle posizioni prese dalla chiesa
cattolica in merito a divorzio, aborto, contraccezione, rischia di essere una
ripetizione di conoscenze scontate, riguardo alle quali tutti siamo al corrente.
Il
secondo è che questa “vicinanza” in qualche modo mi è un po’ troppo
pesante, rende più difficile uno sguardo obiettivo e non solo profondamente
critico, che lasci spazio a quello che di positivo ci sia nel messaggio
cristiano in merito alla figura femminile; per fare questo, è necessario
ritornare alle origini di questo messaggio,
individuando tutto ciò che è stato interpretazione successiva, e
ovviamente di matrice maschile, che lo ha modificato a supporto di un ordine
delle cose che incardinava nella sottomissione della donna e nel suo ruolo
sociale di moglie e di madre uno degli elementi essenziali di stabilità.
Per quanto riguarda il primo
punto, mi limiterò a rimandare il lettore alla tabella in appendice, dove sono
indicate le posizioni delle diverse confessioni religiose relative ai grandi
temi legati alla sessualità e alla procreazione.
Per quanto riguarda il
secondo, riconoscendo la vastità del tema, mi limiterò a proporre alcune
problematiche, certa di non poter esaurire l’argomento e neanche di arrivare a
delle soluzioni, ma con l’intento almeno di aprire delle porte per
l’approfondimento e lo scambio non pregiudiziale.
All’interno di questo,
occorrerà tener presente le differenze che si possono riscontrare nelle diverse
confessioni religiose che fanno riferimento alla religione cristiana:
cattolicesimo, protestantesimo, chiesa anglicana e molte altre. Nel corso della
trattazione sarà sempre specificato a quale confessione si fa riferimento.
Per quel che riguarda la
figura femminile nella chiesa cattolica, più che da una dissertazione
preferirei partire da un fatto, evidenziato con una certa durezza sul quotidiano
“Il Manifesto”, del 18 maggio 2004, dalla giornalista Roberta Carlini:
“In
tempi di religioni di guerra, occorre fare attenzione a quel che fanno le
religioni. Quella che abbiamo in casa domenica ha canonizzato la prima “santa
sposata”. La storia tragica di Gianna Beretta Molla è questa: madre di tre
figli, scopre di avere un tumore all’utero quando è incinta del quarto
figlio. Sceglie di non farsi curare per non compromettere il feto. La quarta
figlia nasce, lei muore. Quarantatre anni dopo Wojtila la canonizza. I
sopravvissuti – il marito novantaduenne, i figli – partecipano alla “festa
della mamma”.
Con
tutto il rispetto per il dolore, l’affetto e la fede di quell’anziano
signore, di quelle figlie e di quei figli, quelle immagini domenicali non
avevano niente di festoso. Non è in discussione la scelta che allora fece
Gianna Beretta Molla – muoio, pur di far crescere il feto e di far nascere la
bambina. Una scelta privata – ma qualche mese fa, di fronte alla privata
decisione di una donna di morire pur di non farsi amputare un piede, si scatenò
il finimondo. Né è in discussione la presenza di altre sensibilità e
opinioni, come quella di chi, cattolico o laico che sia, pensa che una nascita
in meno con una madre viva sia preferibile di una nascita in più con quattro
orfani. No, quello che è in discussione è il modello che, santificando quel
suicidio, ci propone la chiesa di Wojtila. Un modello che riguarda tutti, anche
i non cattolici, e sul quale tutti possiamo interrogarci così come ci
interroghiamo - e ci indignamo –
su quelle religioni che partono dal corano e arrivano al burqa. Secondo il
modello che si è visto domenica in piazza San Pietro, la donna è madre e
gestante, serve finchè fa questo e di questo può morire – anzi, è santa se
muore. E’ questa la cultura della vita e dell’amore della religione
cattolica e dei vangeli? E’ questa l’interpretazione diffusa oggi, tra le
donne e gli uomini cattolici nel nostro paese?”
E’ significativo che le
affermazioni contenute nel Nuovo Testamento che rispecchiano l’antifemminismo
di quel tempo non siano mai state fatte da Cristo. I vangeli non tramandano
nessun discorso di Gesù che riguardi le donne “in quanto tali”: colpisce
invece il suo comportamento verso di loro. Nei passi che descrivono i rapporti
di Gesù con varie donne emerge chiaramente una caratteristica: esse appaiono
come persone, perché sono trattate come persone, spesso in contrasto così
netto con le usanze di allora da meravigliare gli astanti[7].
Il comportamento di Gesù con
Certo il Nuovo Testamento non
mancò di rispecchiare l’inferiorità sociale delle donne di quel tempo. E
benché nel messaggio cristiano fossero contenuti i germi dell’emancipazione,
tuttavia le loro piene applicazioni non apparivano evidenti a chi ebbe il
compito di riportare per iscritto l’esperienza diretta di questo messaggio. I
passi più pesantemente antifemministi si trovano, come è noto, nei testi
paolini. Essi rispecchiano la preoccupazione di Paolo a preservare
l’”ordine” nella società e in particolar modo nelle assemblee cristiane,
come se volesse dare all’esterno una buona immagine delle prime comunità:
perciò gli sembrava importante che le donne non avessero un ruolo di troppo
rilievo nelle assemblee cristiane, , che non parlassero troppo, che non stessero
a capo scoperto, perché tutto ciò avrebbe suscitato pettegolezzi e critiche, e
avrebbe attirato il ridicolo sulla nuova setta, che già doveva affrontare
accuse di immoralità. Nell’antica Corinto, l’andare a capo scoperto
equivaleva per una donna ad un comportamento da prostituta. A paolo premeva
salvaguardare la giovane chiesa da accuse di immoralità, e perciò insistette
su un comportamento sessuale “corretto”, che comprendeva un atteggiamento
sottomesso delle mogli durante le assemblee. I testi paolini dovrebbero essere
interpretati nel loro contesto sociale, e non utilizzati a giustificazione di
una condizione subalterna della donna nella società odierna, che è
completamente diversa.
Il repentino processo di
patriarcalizzazione, che significò per le comunità strutturarsi
gerarchicamente, aveva dunque portato ad una crescente marginalità femminile,
sottolineata dal divieto per la donna di ogni parola autorevole: dalla
predicazione alla scrittura. All’esperienza di fede femminile si concederà di
essere vissuta e non pensata, ogni dottrina elaborata e scritta da donna sarà
ritenuta sospetta.
Relativamente alle
responsabilità o alle cause di tale emarginazione, si è scritto molto negli
ultimi anni e gli studi delle teologhe sono stati determinanti per la
comprensione dei fattori, molteplici e complessi, che non hanno permesso
l’attuazione pratica di quel principio di uguaglianza tra uomo e donna pur
vigorosamente indicato nella teoria.
L’oppressione della donna ha
trovato il suo fondamento nella convinzione, per secoli sostenuta,
sull’inferiorità naturale della donna, nella sua triplice articolazione di
inferiorità fisiologica, morale e giuridica[8].
L’inferiorità
fisiologica considerava la donna secondaria (tratta
dall’uomo), subordinata (creata in sua funzione), passiva (riceve e nutre il
seme senza alcun ruolo attivo), debole (per mancanza di vigore razionale e di
forza decisionale), impura (a causa del ciclo mestruale); la riteneva sesso
imperfetto, un “maschio mancato” come ribadiva S. Tommaso, riprendendo e
avvalorando l’antropologia asimmetrica di Aristotele.
L’inferiorità
morale
sottolineava in lei l’incapacità di operare un efficace agire etico, la sua
non rilevanza come soggetto autonomo: il suo essere luogo di solo consenso.
L’inferiorità
giuridica,
infine, discendeva da tali presupposti, e poggiava su un fondamento teologico
che ha attraversato il pensiero cristiano, costituendo l’esclusione della
donna da ogni ambito di autorità e
di responsabilità: “L’immagine di Dio è nel maschio… che ha ricevuto da
Dio il potere di governare come suo sostituto… Ed è per questo che la donna
non è stata fatta ad immagine di Dio” (Graziano q. 5, c. 33). Questo ritenere
che la mascolinità meglio si presti a descrivere, analogicamente, gli attributi
divini ha significato quindi la svalutazione della femminilità e delle sue
specificità, così come ha portato all’emarginazione della donna in ogni
ambito di gestione del potere (nella famiglia il capo è l’uomo, nei tribunali
la donna non può giudicare, nella chiesa non può governare…).
La parità nella fede e nella grazia tra i due sessi, non si è tradotta
in una pari dignità negli ambiti familiari, sociali, culturali e religiosi,
sfere che, paradossalmente, hanno registrato
da una parte una presenza significativa e irrinunciabile della donna,
dall’altra il non riconoscimento istituzionale e politico dei suoi ruoli,
relegandola ad una posizione di “non visibilità” che ha bisogno, per
esistere, della mediazione maschile che controlla, approva, giudica, dirige.
Non mancano, attualmente
messaggi di revisione critica di queste posizioni, anche dalla chiesa ufficiale.
A partire dal Concilio Vaticano II, nella chiesa cattolica si è sviluppata una
sensibilità per la questione della donna, inizialmente orientata alla
problematica del sacerdozio femminile, ma a questo si aggiunge il movimento
delle donne che negli anni settanta indusse la chiesa ad interrogarsi su
questioni coinvolgenti gli ambiti della vita familiare e sociale[9].
Per quanto molto si sia mosso
e alcuni obiettivi siano stati raggiunti, l’apparenza tuttavia inganna su come
continui ad essere difficoltoso far valere dal punto di vista dei contenuti le
posizioni della teologia femminista e su quanto siano fragili le garanzie
materiali e personali in merito. Pur
essendo diventata un fattore difficilmente ignorabile nel dibattito teologico ed
ecclesiastico odierno, la teologia femminista continua ad essere una
“ribellione di frontiera”.
Nel quadro dei nuovi spazi che
le donne hanno ottenuto nella società contemporanea (e delle lotte per
conservarli), si pone anche la questione del posto delle donne nelle chiese
cristiane[10].
Non sarebbe tuttavia corretto
pensare che l’interesse per questo tema derivi semplicemente da circostanze
contingenti come i mutamenti sociali. Si potrebbe anzi dire che la “questione
femminile” è sempre stata presente nel cristianesimo, come le donne sono
sempre state presenti nella chiesa. La discussione sul ruolo delle donne nella
chiesa, e più specificatamente sul loro ministero, ha accompagnato le chiese
lungo la loro storia e non sempre a causa di circostanze esterne. Si potrebbe
sostenere che la questione dell’accesso alle donne al ministero nasce dalla
dinamica intrinseca di una fede per la quale donne e uomini sono fatti ad
immagine e somiglianza di Dio. In altre parole, a mettere ripetutamente e con
insistenza sul tappeto la questione è il messaggio cristiano nella sua
peculiarità.
Nel
1996 la chiesa anglicana d’Inghilterra ha deciso l’ammissione delle donne al
ministero di prete in piena parità con gli uomini. Ciò è avvenuto due decenni
dopo le prime ordinazioni di donne nella chiesa anglicana in Canada e Nuova
Zelanda, dandoci un’idea del travaglio che ha accompagnato la decisione della
chiesa inglese. Infatti, la questione non è solo molto complessa per ragioni di
principio, di opportunità e per il rispetto di una tradizione millenaria, ma
suscita anche forti reazioni emotive, talvolta sproporzionate e legate ad
immagini arcaiche della donna radicate nella nostra cultura e nella nostra
psiche. La stampa italiana ha dato ampio spazio al dissenso cattolico in
materia. Perché?
La chiesa anglicana, anche se
formulata in base a principi comuni al protestantesimo, grazie al suo
ordinamento gerarchico, alla sua liturgia, e al riconoscimento che attribuisce
ai vescovi e alla loro successione apostolica si avvicina molto alla chiesa di
Roma. Ed è proprio per questa vicinanza che la chiesa cattolica ha ritenuto
necessario ribadire nella sua lettera apostolica Ordinatio
sacerdotalis, il suo no al sacerdozio femminile. Ma c’è da chiedersi
perché la chiesa cattolica è così intransigente su questo punto.
Contro l’ordinazione delle
donne, le argomentazioni che troviamo già presenti nella dichiarazione Inter
insigniores (1977), sono sostanzialmente tre.
La prima si richiama alla
prassi di Gesù, degli apostoli e della chiesa lungo i secoli. Secondo questa
tesi Gesù non chiamò nessuna donna a far parte dei dodici apostoli, e gli
stessi apostoli, come del resto la chiesa dei tempi successivi non ordinarono
mai donne al sacerdozio.
La seconda parte da una
riflessione sulla funzione rappresentativa del sacerdote. Egli, durante la
consacrazione dell’eucarestia, non agisce in nome proprio ma “nella persona
di Cristo”, che rappresenta. Dato che, secondo questa teoria, tra Cristo e il
suo rappresentante deve intercorrere una somiglianza fisica e Gesù di Nazaret
era un uomo, anche il sacerdote deve essere un maschio.
Il terzo argomento insiste
sulla natura sovrannaturale della chiesa, la cui organizzazione è di
“istituzione divina”, cioè le è data da Dio. Questo significa che non è
lecito trasferire alla chiesa nozioni modellate nella società civile come
democrazia e diritti umani. L’ordinamento della chiesa non è elettivo, ma è
stato rivelato da Dio, e tale rivelazione non prevede che le donne possano
essere sacerdoti.
Tutto questo va inquadrato in
una particolare visione antropologica, per la quale donne e uomini, pur godendo
di pari dignità, hanno una funzione diversa e complementare: essi, cioè, per
la chiesa cattolica, sono uguali ma diversi e quella diversità, almeno per ciò
che riguarda la donna, è intesa a partire dalla biologia, cioè è inscritta
nell’ordine naturale delle cose.
Forse varrebbe la pena
prendere in considerazione alcune domande che si pongono alcuni settori della
stessa chiesa cattolica, e che stanno alla base di un certo malessere che si
manifesta nei confronti della gerarchia ecclesiastica[11]
(nota a pag 12).
Sia i fedeli che i teologi si
chiedono, per esempio, se le donne furono escluse dal gruppo dei dodici per
semplici motivi simbolici (il richiamo alle dodici tribù di Israele) o perché
Gesù ritenesse inopportuno, data la condizione subalterna della donna
all’epoca, un ministero pubblico femminile. Se si comprende il significato dei
“dodici” e si riconosce il cambiamento avvenuto nella posizione sociale
della donna, si può fare spazio all’ordinazione delle donne al sacerdozio.
Inoltre, sarà opportuno
domandarsi, se Dio si è fatto carne
in Cristo per salvare l’umanità intera – uomini e donne – perché è solo
la maschilità a fornire la somiglianza tra sacerdote e Cristo? Non sarebbe più
corretto vedere il punto di somiglianza proprio in quella umanità che è senza
dubbio condivisa anche dalle donne?
Infine,
molti considerano contraddittoria una chiesa che, da un lato si pronuncia a
favore dell’uguaglianza e dell’emancipazione della donna nella società,
mentre dall’altro nega alle donne l’accesso al sacerdozio, in
contrapposizione a quanto di fatto sta già avvenendo in parrocchie e comunità
di tutti i continenti, spesso in condizioni di estreme difficoltà, dove molte
donne, religiose e non, stanno già esercitando il ministero pastorale.
Per quanto riguarda le chiese
che fanno capo alla Riforma protestante, a partire dalla metà dell’ottocento
negli Stati Uniti le prime donne cominciarono ad accedere al ministero
pastorale. Non è un caso che furono chiese prive di ordinamento gerarchico ad
ammettere le prime donne al pastorato. In Europa furono anche i
congregazionalisti i primi che, nel 1919, ordinarono donne al ministero;
seguirono poi le chiese riformate e luterane. Tuttavia fu solo a partire dagli
anni ’50 del nostro secolo che le maggiori chiese protestanti (luterana,
metodista, presbiteriana, battista) in Europa e in America, cominciarono ad
ordinare donne al pastorato.
Per quanto riguarda
l’Italia, l’ammissione delle donne al pastorato fu approvata dal Sinodo
valdese nel 1962 e le prime donne pastore furono consacrate nel 1967 nella
chiesa valdese, che dal 1967 comprende anche i metodisti; dodici anni più tardi
il loro esempio fu seguito dalle chiese battiste italiane. Attualmente in Italia
nelle chiede valdesi e metodiste ci sono 16 donne che esercitano il ministero
pastorale su un totale di poco più di 100 pastori in attività, e nelle chiese
battiste ci sono 6 donne pastore su un totale di 44.
Vita
personale
|
|||||
|
Ebraismo
|
Islam
|
Cristianesimo
|
||
Cattolici
|
Protestanti
|
Anglicani
|
|||
Matrimonio
|
E’ considerato
un contratto
|
E’ considerato
un contratto
|
E’ considerato
un sacramento indissolubile
|
|
|
Divorzio
|
E’ previsto,
sotto forma di scioglimento del contratto di matrimonio da parte
dell’uomo
|
Previsto per la
donna in caso di non rispetto del contratto.
Prevista e ancora
diffusa la pratica del ripudio da parte dell’uomo.
|
Non ammesso.
Previsto
l’annullamento del matrimonio in condizioni particolari |
|
Ammesso
|
Contraccezione
|
Ammessa dopo la
nascita di due figli
|
Ammesse le forme
di contraccezione temporanee
|
Ammesse solo
alcune forme di controllo delle nascite
|
|
|
Sterilizzazione
|
Non ammessa
|
Non ammessa
|
Non ammessa
|
|
|
Aborto
|
Ammesso solo a
fini terapeutici
|
Ammesso entro il
quarto mese di gravidanza ma limitazioni sulle motivazioni
|
Ammesso solo a
fini terapeutici
|
Ammesso
|
|
Procreazione
Medicalmente Assistita
|
Non ammessa.
Ammesse
cure contro la sterilità |
Non ammessa.
Ammesse
cure contro la sterilità |
Ammessa ma
oggetto di precise regolazioni (es. no fecondazione eterologa)
|
|
|
Castità
|
Non è
considerata positivamente
|
Non ammessa
|
Considerata un
valore
|
|
|
Vita
istituzionale
|
||||||||
|
Ebraismo
|
Islam
|
Cristianesimo
|
|||||
Cattolici
|
Protestanti
|
Anglicani
|
||||||
Studio
dei testi sacri
|
Ammesso, ma solo
dal puntodi vista religioso
|
Ammesso lo studio
mnemonico del Corano
|
Ammesso con
alcune limitazioni riguardanti lo studio teologico ad alto livello
|
|
|
|||
Partecipazione
al culto
|
In forme diverse
dagli uomini, in zone del tempio separate
|
In forme uguali
agli uomini, in zone del tempio separate
|
Senza distinzione
|
|
|
|||
Vita
religiosa (es. monastica)
|
Non prevista
|
Non prevista
|
Prevista e
valorizzata
|
Non prevista
|
|
|||
Possibilità
per le donne di celebrare i riti
|
Non prevista
nelle comunità ortodosse, prevista nelle comunità riformate negli Stati
Uniti
|
Ammessa la donna
imam alla guida della preghiera di sole donne
|
Non ammessa per
il sacerdozio, prevista per la figura di diacona
|
Prevista
|
Prevista
|
|||
M.A. Sozzi Manci, (a cura di) Le
figlie di Abramo, Donne, sessualità e religione,
Guerini e Associati, 1998 Milano
S.Allievi (a cura di), Donne
e religione, Il valore delle differenze, Ed. Emi Bologna, 2002
Eva Renate Schmidt, Mieke
Korenhof e Renate Jost (a cura di),
Riletture bibliche al femminile, 27 saggi di interpretazione biblica femminista,
Claudiana, Torino, 1994
N.Tedeschi, A domanda rispondo, Ed. Giuntina
Elizabeth E. Green, Perché
la donna Pastore?, Ed Claudiana, Torino, 1996
Mary Daly, La chiesa e il secondo sesso, Rizzoli, Milano, 1982
Fiorenza Taricone (a cura di),
Maschio e femmina li creò. L’immagine
femminile nelle religioni e nelle scritture, Gabrielli Editori, Verona, 1998
Dalla Rivista Concilium Rivista internazionale di teologia, edizioni Queriniana,
Brescia
-
Le
donne nel cristianesimo primitivo, di Elizabeth Fiorenza, Concilium, n.1, 1976
-
Teologia
femminista in Europa. Tra movimento e istituzionalizzazione accademica,di
Monika Jakobs, n.1 1996
Approfondimenti:
I testi che seguono non sono
stati direttamente utilizzati per la stesura della tesina, ma ne hanno
costituito l’orizzonte di riferimento, il sottofondo culturale, determinandone
l’orientamento della ricerca.
Pepe Rodriguez, Dio è nato donna. I ruoli sessuali alle origini della rappresentazione
divina, Editori Riuniti, Roma, 2000
Dispensa: I quaderni dell’amicizia ebraico cristiana N°9 – Temi a due voci,
di N. Tedeschi e Pastore Eugenio Rivoir e Don Stefano Rosso, Torino 1995
Fatima Mernissi, La terrazza proibita, Ed. Giunti
Stefano Allievi, L’islam italiano, Einaudi,
Torino, 2003
Elizabeth Green, Lacrime amare.Cristianesimo e violenza contro le donne, Ed.
Claudiana, Torino, 2000
Elizabeth Green, Dal silenzio alla parola. Storia di donne nella Bibbia, Ed.
Claudiana, Torino, 1992
[1] Da La donna nell’Alachà, di Ester Kopciowski Korbman in Le figlie di Abramo, Donne, sessualità e religione, a cura di M.A. Sozzi Manci, , Guerini e Associati, 1998 Milano
[2] Cfr. L.Voghera Luzzatto, La donna nella storia e nella tradizione ebraica, in Donne e religione, Il valore delle differenze, a cura di S.Allievi, Ed. Emi Bologna, 2002
[3] Da Ester per gli ebrei e per i cristiani, di Pnina Navè-Levinson e Martin Stohr, in Riletture bibliche al femminile, 27 saggi di interpretazione biblica femminista, a cura di Eva Renate Schmidt, Mieke Korenhof e Renate Jost, Claudiana 1994 Torino
[4] V. Levitico, 12, Purificazione della puerpera. Il parto, come le mestruazioni e l’emissione seminale dell’uomo, è considerato una perdita di vitalità per l’individuo, che deve ristabilire la sua integrità e così l’unione con Dio, fonte della vita. Il periodo di impurità si suddivide in totale impurità (7 e 14 giorni rispettivamente se la donna ha partorito un maschio o una femmina) e minore impurità (33 e 66 giorni), relativa quest’ultima solo al contatto con le cose sacre e le visite al santuario
[5] Cfr. Samia Kouider,La donna nell’islam, in Le figlie di Abramo cit.
[6] Cfr. Ghazala Anwar, Riflessioni femministe musulmane, in Concilium, Rivista Internazionale di teologia, n. 1, anno 1996
[7] Da Mary Daly, La chiesa e il secondo sesso, Rizzoli, Milano, 1982
[8] Il femminile nelle religioni e nelle chiese, Introduzione di Adriana Valerio, in Fiorenza Taricone (a cura di), Maschio e Femmina li creò. L’immagine femminile nelle religioni e nelle scritture, Editori Gabrielli, Verona, 1998
[9]
Da Monika Jakobs, Teologia
femminista in Europa. Tra movimento e istituzionalizzazione accademica,
in Riv. Concilium, Anno 1996, n. 1
[10] Da Elizabeth E. Green, Perché la donna Pastore?, Ed Claudiana, Torino, 1996
[11] Si veda ad esempio il movimento di base “Noi siamo chiesa” sorto in Austria nel 1995 e che si sta diffondendo largamente in Germania, Svizzera, Belgio e ora anche in Italia