UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN COMUNICAZIONE E MEDIAZIONE CULTURALE

 

Anno Accademico 2003/04

 

IL VELO DENTRO LA TESTA

 

La figura femminile nelle religioni monoteiste

 

Prof.ssa F. Balsamo

Prof. F. Avanzini

 

Elisa Lupano

 

Indice

 

Introduzione ……………………………………………………………………………..     pag. 3

-         Il quadro di riferimento

-         I colloqui

Il ruolo della donna nell’ebraismo……………………………………………………... pag. 5

-         Alcuni cenni sui valori dell’ebraismo

-         Importanza della donna nella famiglia

o       I rapporti coniugali

o       Il divorzio

o       L’eredità

-         La donna e lo studio

-         La rilettura biblica femminile

-         Tre punti problematici

-         La preghiera delle donne

 

La donna nell’islam……………………………………………………………………... pag. 10

-         La donna nella shari’a islamica

o       La famiglia

o       Il matrimonio

o       Il divorzio

o       La contraccezione

o       L’aborto

o       Il velo islamico

-         La posizione della donna nelle leggi dello stato

-         Primi passi verso un cambiamento di prospettiva

 

La donna nel cristianesimo………………………………………………………………pag. 15

-         Premessa

-         La donna nelle scritture cristiane

-         Il ruolo della donna nelle istituzioni

 

Appendice: Quadri comparativi…………………………………………………………pag. 20

 

Conclusioni… e progetti per il futuro…………………………………………………...pag. 22

 

Bibliografia………………………………………………………………………………..pag. 23

 

Introduzione

 
Il quadro di riferimento

Il titolo di questa breve dissertazione, tratto da una frase pronunciata da una mediatrice durante un intervento nel corso di Mediazione culturale, mi è sembrato calzante per ciò che intendevo illustrare affrontando il tema della figura femminile nelle religioni.

La religione, infatti, costituisce un fatto intimo, privato, anche se socialmente condiviso, che coinvolge la sfera della fede, e quindi del non scientificamente dimostrabile, né confutabile, ma fa parte di una cultura di appartenenza nella quale difficilmente si riescono a separare gli elementi personali da quelli sociali, gli aspetti religiosi da quelli morali, le questioni teologiche dalle consuetudini.

L’argomento, ossia l’immagine che nelle varie religioni viene proposta della femminilità, della sessualità e della donna in genere, invece, è oggetto del mio interesse da un certo periodo, da quando cioè ho incominciato ad occuparmi di una rilettura dei testi a cui fa riferimento la religione cristiana (l’Antico e il Nuovo Testamento)  in senso storico-critico, atta a rimuovere aggiunte e affermazioni legate al contesto storico in cui questi testi sono stati scritti, ma che per anni sono state utilizzate a fondamento di una concezione sostanzialmente maschilista dell’organizzazione della società.

L’analisi non si è fermata alla religione appartenente al nostro contesto culturale, ma si è allargata, in un’ottica di confronto interreligioso, anche  alle religioni afferenti all’area delle religioni dette “del Libro”, ossia le religioni monoteiste che, assieme a quella cristiana, sono le religioni ebraica e musulmana.

Questa tesina costituisce un tassello, con tutti i limiti della sua strutturazione, che si colloca all’interno di un percorso teorico più ampio, volto a evidenziare come la religione non solo costituisca un quadro simbolico che affonda le radici in un patto sociale, ma anche ad interrogarsi sulle rigidità e autoreferenzialità che caratterizzano questo quadro simbolico, in situazioni in cui il patto sociale viene modificato dalle mutate condizioni socio culturali.

Incomincerò con l’indicare ciò che non ho scritto.

Il percorso teorico avrebbe potuto partire dalle rappresentazioni divine primordiali, di cui la Venere di Willendorf ne rappresenta l’emblema, per evidenziare il ruolo che hanno avuto i ruoli sessuali, funzionali  nell’organizzazione delle prime forme di  socializzazione umana,  nella personificazione della divinità. La donna preistorica non era sottomessa all’uomo, al contrario, la comunità dipendeva dalla sua triplice funzione di procreatrice, organizzatrice e produttrice.  Da questa società di tipo matriarcale il primo dio fu concepito come donna, e solo con lo sviluppo dell’agricoltura, tra il sesto e il terzo millennio a.C., e con il ribaltarsi dei ruoli di potere all’interno della struttura sociale delle prime comunità, si impose il modello di un dio maschio, che ebbe come corrispettivo la sottomissione della donna all’uomo.

Parallelamente, (la mancanza di una sezione in merito è anche dovuta ad onestà intellettuale, in quanto non è argomento da me adeguatamente padroneggiato) una rivisitazione della figura femminile all’interno delle diverse confessioni religiose non può escludere la conoscenza profonda e non banalizzata delle religioni orientali, dove la figura femminile trova espressioni che hanno origine dagli archetipi del nostro inconscio collettivo.

Mi sono quindi limitata alle religioni del Libro, che per origini comuni hanno più affinità di quelle che abitualmente siamo abituati a pensare.

L’approccio di indagine tra le diverse religioni è stato leggermente differente nei singoli capitoli: mentre per la religione cristiana, essendo questo un terreno sicuramente più battuto, ho privilegiato gli aspetti di criticità, le controversie, gli elementi innovativi che spesso con fatica dalla base, ma anche da fonti autorevoli, emergono, per l’islam e l’ebraismo ho cercato di  riportare le letture fatte in merito senza interpretarle attraverso i miei schemi abituali, evitando di darne una lettura connotata dal mio percorso personale.

Per evitare questo, ho pensato di integrare ciò che ho riportato con delle “chiacchierate” con donne appartenenti alle religioni prese in considerazione. Non si tratta di vere e proprie interviste, ma più che altro di un lavoro di “ripulitura”, di chiarimento riguardo agli elementi emersi nelle letture.

I tre capitoli non seguono una trattazione espositiva parallela, ma piuttosto un’organizzazione indipendente, strutturata sulla base del materiale che avevo a disposizione e dal “taglio” che si è potuto dare nei colloqui. Un tentativo di comparazione è stato fatto nei quadri riassuntivi in appendice, pur nella consapevolezza dei rischi di un’eccessiva schematizzazione, allo scopo di visualizzare anche le affinità e non solo le differenze. In questi quadri, la suddivisione del cristianesimo in confessioni diverse è stata funzionale per evidenziare alcune differenze con il cattolicesimo, anche se queste non sono supportate da ulteriori argomentazioni.

 

I colloqui

Le donne sono Nedelia Tedeschi, della sinagoga torinese, insegnante della scuola ebraica in pensione, figura attiva della sua comunità, impegnata nel gruppo di dialogo interreligioso “Insieme per la pace”, e Charifa Kbiri, mediatrice culturale, originaria del Marocco, di religione musulmana, impiegata presso i servizi socioassistenziali del comune di Torino e della sua collega di lavoro, Tunisina, presente durante l’incontro con Charifa, che è intervenuta portando contributi tratti dalla sua esperienza personale. Non mi è stato possibile incontrare, a causa dei suoi numerosi impegni, ma è rimasta aperta la disponibilità a farlo nell’arco dei prossimi mesi, la pastora valdese Daniela Di Carlo, della comunità Agape, di Ghigo di Prali.

Ciò che è stato detto in queste chiacchierate non risulta specificatamente riportato nel testo, anche se gli incontri sono stati registrati e sbobinati, ma ne costituisce il tessuto connettivo, l’elemento di vita religiosa concretamente vissuta.

Dai colloqui è emerso però un aspetto fondamentale, che fa da linea di confine tra due modi diversi di pensare la religione: la fede nel testo sacro come portatore di verità, e quindi non soggetto ad alcuna revisione storico critica, e la concezione del testo come frutto di una rielaborazione umana, non definitiva, modificata nel corso dei secoli nel quale può essere fatto un lavoro di decostruzione e ricostruzione del messaggio originario. 

La consapevolezza di avventurarmi in uno spazio privato, legato a convinzioni intime della propria fede, e il rispetto per questo spazio, mi hanno reso incapace di proporre domande dirette che mettessero in discussione le certezze, in favore di una lettura più critica dei testi, nei confronti di donne che si ritenevano soddisfatte della loro scelta religiosa, e fortemente radicate nella propria comunità di appartenenza, convinta di non essere portatrice di un metodo efficace per la liberazione della donna, ma semplicemente una persona in ricerca.

 

 

Il ruolo della donna nell’Ebraismo

 

Alcuni cenni sui valori dell’ebraismo

L’ebraismo poggia su un insegnamento scritto e un insegnamento orale: il primo (il Pentateuco, in ebraico Torà, e gli altri libri della Bibbia) racchiude i principi eterni dell’ebraismo e le sue leggi, il secondo (il Talmud), che raccoglie la saggezza di centinaia di generazioni, rappresenta l’insieme delle norme necessarie per attuare, in ogni epoca e in ogni luogo, le Leggi della Torà. Questo secondo Insegnamento è quello che ha permesso di rendere applicabili le leggi della Torà in contesti storico sociali in continuo mutamento.

Dopo la pubblicazione del Talmud intorno al 300 d.C. non è più possibile fissare norme, ma è sempre necessario discutere e analizzare quelle già stabilite, per osservare la Torà in epoche e società diverse da quelle in cui le norme sono state decise.

Va comunque considerato che la legge Orale ha avuto un ruolo fondamentale nel permettere il mantenimento dei valori fondamentali in un mondo che, ovviamente, ha continuato a cambiare  dall’epoca della promulgazione della Torà ai giorni nostri, ma nello stesso tempo, in considerazione delle differenze che si sono venute a creare nell’ambito delle varie comunità ebraiche dovute alle diversità delle società in cui gli ebrei si sono trovati a vivere, diversi possono essere alcuni atteggiamenti, anche nei riguardi del rapporto uomo/donna, che si sono di fatto consolidati nelle diverse comunità[1].

Il valore fondamentale per l’ebraismo è considerato lo zemiut, la riservatezza, la modestia, sia per l’uomo che per la donna, inoltre non esiste dicotomia tra corpo e anima e l’equilibrio sta nel trovare il giusto spazio per curare l’aspetto spirituale, ma senza trascurare le esigenze della “carne”.

Altro elemento è la non considerazione degli esseri umani come tutti uguali, nel senso che ci sono differenze nei compiti che Dio ha assegnato ad ogni gruppo, così come tra uomo e donna, e ognuno sarà valutato e premiato in base ai compiti che gli sono stati assegnati.

L’ultimo aspetto rilevante, ai fini di comprendere il ruolo della donna all’interno dell’ebraismo è l’importanza che si dà al hesed, parola di difficile traduzione, ma che indica la volontà di far sì che gli altri stiano bene, la dedizione che porta a preoccuparsi per gli altri per il piacere che si prova nel fatto che gli altri stiano bene. Il hesed è il valore più alto a cui dovrebbero essere improntati i rapporti con gli altri, e quindi, inizialmente, con i membri della propria famiglia.

 

Importanza della donna nella famiglia

Dio creò inizialmente l’uomo androgino, ma poi preferì distinguere uomo e donna, per evitare l’egoismo e l’egocentrismo che sarebbe derivato dal non avere una compagna con cui condividere sentimenti e decisioni.

La famiglia è certamente il nucleo più importante all’interno dell’ebraismo, e, all’interno della famiglia, un ruolo decisivo è sostenuto dalla donna. Si tratta di un ruolo vissuto in un ambito chiuso, ma, dato che un valore fondamentale è lo zemiut, questa caratteristica aumenta il valore del compito stesso affidato alla donna. Il ruolo della donna è quello di creare e mantenere una casa ebraica, occupandosi del cibo, della famiglia e ovviamente dell’educazione dei figli, compito che è stato affidato ad entrambi i coniugi, ognuno per la sua parte. Secondo i maestri il compito degli uomini è quello di insegnare il contenuto della rivelazione, la Torà e il Talmud, mentre quello della donna è di trasmettere l’esperienza della rivelazione, il senso del mistero della rivelazione divina, senza il quale i contenuti non avrebbero valore, il cui studio diverrebbe puro esercizio intellettuale, contrario alla concezione ebraica.

 

I rapporti coniugali

Nell’ebraismo il celibato non è visto di buon occhio, mentre è considerato precetto (mitzwà) per l’uomo il matrimonio. Si ritiene che i rapporti sessuali trovino la giusta collocazione nel matrimonio, non solo come dovere, ma anche come piacere per ambedue i coniugi. Sono proibiti i rapporti, nell’ambito del matrimonio, se fatti in condizioni di ubriachezza, o dopo un litigio, perché in questi casi si tratterebbe di un puro appagamento dei sensi. Il termine che la torà usa per indicare i rapporti sessuali è yedi’à, ed indica una conoscenza approfondita, che mal si collega con un atto in cui prevalga l’aspetto puramente fisico.

 

Il divorzio

 L’ebraismo considera il matrimonio un contratto e non un sacramento, quindi non c’è nessuna proibizione riguardo al divorzio, anche se la pratica non è certo incoraggiata. Il divorzio ebraico ha la forma del ripudio della moglie da parte del marito, ciò però non deriva da una forma di svalutazione del ruolo della donna, ma dalla peculiarità del modo di stipulare i contratti tipica del mondo ebraico. Secondo le leggi ebraiche, infatti, qualsiasi contratto (non solo quello matrimoniale), ha un solo contraente attivo, che stipula il contratto mentre la controparte ha solo la possibilità di accettare o rifiutare. Essendo uno solo quello che firma, può essere uno solo quello che rescinde il contratto, e ciò vale anche per il matrimonio.

Se dal testo della Torà non si ricavano particolari limitazioni alla possibilità dell’uomo di ripudiare la moglie, interviene la Legge Orale dove sono previste una serie di limitazioni che hanno lo scopo di favorire la donna: ad esempio in merito al suo sostentamento, al riconoscimento del suo patrimonio personale, costituito dalla dote e da quanto ha guadagnato con il suo lavoro.

Resta il fatto che l’unico che può ripudiare è l’uomo e, se egli non vuole farlo, la donna non ha la possibilità di rendere nullo il contratto. Esistono inoltre due forme di tutela della donna nella legislazione rabbinica: se il marito si ostina a non voler concedere il divorzio alla moglie nonostante le sue richieste e contro il parere dei rabbini a cui si è rivolta, il tribunale rabbinico ha il diritto di fare pressioni sul marito, arrivando addirittura a metterlo il marito in prigione (è prevista la collaborazione delle autorità giudiziarie degli stati in cui non viga la legge ebraica), anche a pane e acqua, fino a quando non deciderà di acconsentire alla richiesta della moglie (ma pare che attualmente, nello stato di Israele le autorità rabbiniche siano alquanto restie a obbligare gli uomini a concedere il divorzio).

 

L’eredità

Anche per quanto riguarda l’eredità, è importante non limitarsi alla lettura del testo della Torà, ma integrarla con l’analisi della complessa legislazione in materia che si può ricavare dallo studio della Legge Orale.

Secondo la Torà la donna non può ereditare: alla spartizione del patrimonio del defunto sono chiamati solo i figli maschi, nessun accenno alla moglie e alle figlie.

Ma per capire meglio è necessario spiegare alcuni elementi che differenziano la mentalità e la legislazione ebraica da quella attualmente più diffusa, almeno in Occidente.

Una prima differenza la troviamo sul valore da dare al testamento: finchè una persona è in vita può disporre dei suoi beni, e fare dono di parte  o tutto il suo patrimonio a chi meglio crede, maschio o femmina che sia; dopo la morte non si ha più “volontà” da far valere, e il patrimonio della famiglia viene diviso fra i figli maschi. Se il capofamiglia desidera che moglie e figlie ricevano parte delle sue sostanze non ha che da donarla loro, fintanto che è in vita.

Un secondo aspetto da prendere in considerazione è la ketubà, l’atto civile del matrimonio religioso.

E’ un contratto stipulato prima del matrimonio, nel quale si prevede la somma che l’uomo si impegna a versare alla moglie in caso di divorzio, la somma che verrà destinata alla donna in caso resti vedova (fino ad eventuali nuove nozze). L’esistenza della ketubà mette la donna in posizione di privilegio rispetto a chiunque vanti diritti sull’eredità del defunto. Infatti la moglie risulta in questo modo creditrice privilegiata del marito (e prima tra i creditori, in ordine temporale) e dato che, prima di procedere alla spartizione dell’eredità, si devono saldare i crediti in sospeso, si provvederà prima a fornire la moglie di quanto dovutole, poi si pagheranno eventuali altri creditori, e solo a questo punto si procederà alla spartizione dell’eredità fra i figli maschi.

 

La donna e lo studio

L’ebraismo dà una grandissima importanza allo studio della Torà, ed affida questo compito agli uomini, sottolineando che lo studio non deve essere attività intellettuale fine a se stessa, ma studio della Torà con fini religiosi. Tale compito degli uomini ha lo stesso valore del compito della donna di creare una casa ebraica.

Riguardo allo studio della Torà da parte delle donne, ci sono opinioni discordi. Da un’affermazione del Talmud di Rabbi Elietzer l’insegnamento della Torà alle figlie è considerato tiflut, immorale, superfluo, ma ci si è posti il problema se questa affermazione debba essere interpretata come Alachà (norma a cui è obbligatorio attenersi) o come un semplice consiglio. L’analisi di altre fonti mostra che la seconda ipotesi è quella attendibile, come dimostra una figura femminile, Beruià, moglie di Rabbi Meir e figlia di Rabbi Haninà, donna di grande cultura. L’affermazione di Rabbi Elietzer non può essere una proibizione allo studio della Torà, per il fatto che ogni ebreo/a è tenuto a conoscere in maniera approfondita tutte le regole che riguardano gli obblighi che deve compiere, quindi da questo non possono essere escluse le donne. Ma per queste ultime, lo studio della Torà è ristretto a ciò che è di loro competenza, perché lo studio di regole che non riguardano i loro compiti specifici si riduce a puro esercizio intellettuale, quindi condannabile.

La situazione odierna è però notevolmente cambiata, almeno nel mondo cosiddetto occidentalizzato. Spesso la donna di oggi, pur continuando a formarsi una famiglia, svolge attività lavorative anche di grande livello culturale. Le università sono aperte a uomini e donne, e la presenza femminile è rilevante. Di fronte a questa situazione, alcuni maestri contemporanei hanno addirittura capovolto la frase di Rabbi Elietzer, sostenendo che, nelle condizioni attuali, colui che proibisse a sua figlia di studiare la Torà , facendo di lei una donna più colta in campi estranei all’ebraismo che nei valori ebraici,le insegnerebbe tiflut, perché le impedirebbe di conoscere e approfondire la Torà allo stesso livello in cui conosce le altre discipline.

 

La rilettura biblica al femminile

Negli anni ’60 del XX secolo, il nascere dei movimenti femministi negli Stati Uniti, porta le donne ebree ad aprire il dibattito sulla posizione della donna nella religione ebraica, partendo da una lettura femminista dei testi che riconsidera le figure femminili che si sono confrontate con gli uomini su un piano di parità, con pari responsabilità nei riguardi della comunità. L’accusa principale nei confronti dei rabbini è che nei loro commenti, avrebbero sempre privilegiato il classico modello femminile, ponendo in secondo piano il ruolo pubblico delle donne.

Un midrash dell’Esodo (cap. 38, 8), nel quale le donne sono protagoniste, ci fa entrare nella logica dell’interpretazione: La Conca di rame nel Tabernacolo è stata fatta anche “servendosi degli specchi delle donne che si assembravano alla porta della tenda della radunanza”. E’ Dio stesso che riprende Mosè, il quale non avrebbe voluto accettare il dono anzi avrebbe voluto allontanare le donne, ricordandogli che sono stati gli specchi a dar vita al popolo di Israele. Infatti durante la schiavitù in Egitto, le donne utilizzavano gli specchi come strumento di seduzione per i loro mariti dai quali erano state separate per ordine del Faraone per ridurne la prolificità (Es.12,41)[2].

Lo stesso vale per la figura di Ester  (Libro di Ester, cap. 8), che affronta il re, suo marito, Haman, pur di salvare il suo popolo che sta per essere sterminato, che rappresenta un modello di donna attiva, indipendente che prende decisioni autonome[3].

Un altro esempio di donne coraggiose e determinate viene sempre dall’Esodo (cap. 1) quando le levatrici, intimate dal faraone ad uccidere tutti i maschi appena nati, disobbedirono, giustificandosi davanti al faraone: “Le donne ebree non sono come le egiziane, sono forti e vigorose e prima che la levatrice arrivi, esse hanno già partorito”, oppure nei Proverbi (n. 31) dove si descrive come donna virtuosa quella che si occupa della casa e del vitto, organizza la servitù, e generosa e caritatevole, ma anche vende ciò che produce, compra ciò che è meglio per la sua famiglia (pensa a un podere e lo compra), sa parlare con sapienza, è istruita.

 

Tre punti problematici

Interessandosi della posizione della donna nell’ebraismo è necessario chiarire tre punti che vengono spesso sollevati da donne non ebree: i riti di purificazione mediante il bagno rituale (la tevilah), il ripudio, la separazione delle donne dagli uomini nei momenti di preghiera, evidente con la struttura del matroneo nelle sinagoghe.

  1. La purificazione è un precetto che riguarda tutte le donne sposate in età fertile, dopo la fine del periodo mestruale, ma riguarda anche gli uomini che presentino escrescenze o sanguinamenti dal loro corpo. Non si tratta di un rito, prima del quale bisogna fare un bagno di pulizia. Si tratta di un particolare rapporto che le donne ebree hanno con il proprio corpo in relazione all’attività sessuale, che non ha una connotazione negativa, ma è santificata nell’ambito dei precetti come momento di particolare significato: la sessualità nel matrimonio è fortemente positiva, legata alla sacralità della coppia e del procreare. C’è tuttavia un aspetto fortemente discriminatorio: l’impurità post partum è di quaranta giorni per la nascita di un maschio, e ben di ottanta se è nata una bambina![4]
  2. Il tema dei figli è centrale e si pone il problema del ripudio/divorzio, il get, quando non nascono figli ed è la donna ad essere ritenuta responsabile della sterilità matrimoniale (V. a questo proposito il film Kaddosh, di Amos Gitai). Benché sia il marito a rivolgersi al tribunale rabbinico, la legislazione matrimoniale è molto protettiva nei riguardi della moglie. Ma per la moglie ripudiata, anche su sua richiesta, la cerimonia del get rimane estremamente umiliante. Permangono inoltre altri problemi, legati ai casi di scomparsa del marito di cui si ignora la sorte, e ancor di più tutta la problematica della violenza fisica e morale sulle donne. Molte donne osservanti, in qualità di avvocato o laureate in diritto matrimoniale, operano in difesa delle donne nei tribunali rabbinici.
  3. La giustificazione tradizionale della divisione fra maschi e femmine nel momento della pubblica preghiera è che tutti devono pregare con il massimo di intenzionalità, tendente all’unità fra il mondo terreno e i mondi superiori. Le grate divisorie del matroneo hanno la funzione di rendere difficile agli uomini la distrazione, nel tempo della preghiera, alla vista delle donne.

 

La preghiera delle donne

E’ davvero una posizione di secondo piano quella delle donne nei riguardi della preghiera? Una precisa norma esenta la donna da tutti i precetti positivi, i riti e le preghiere che prevedono un tempo preciso per il loro espletamento. Si tratta di un’attenzione per i ritmi biologici a cui è legata, e per le incombenze della cura della casa che è connessa alla santità stessa della famiglia, e perciò esalta qualcosa di prezioso. Essa deve recitare una volta al giorno le Diciotto benedizioni, anziché tre volte come gli uomini. Può entrare e uscire dal tempio secondo gli orari che più si adeguano alle sue necessità, entrando e uscendo dalla sinagoga anche durante le celebrazioni. Per questo è stato riservato un posto per le donne, in modo da permettere maggior libertà di movimento.

La donna non è accettata alla guida della comunità ortodossa, proprio in quanto non è tenuta all’osservanza di tutti i precetti: su questo da qualche decennio si è aperto un serrato dibattito, soprattutto negli Stati Uniti ma oggi anche esteso in Europa e in Israele. Da alcuni anni le donne rabbino sono accettate nelle comunità cosiddette riformate, che prendono le mosse dall’illuminismo ebraico tedesco del XVIII secolo che si richiama a Moses Mendelssohn.


 

La donna nell’Islam

 

Ha fatto scendere su di te il Libro per la verità

E il buon diritto confermando ciò che fu prima;

Egli fece scendere la Torà e il Vangelo.

Il Corano, III-3

 

L’islam e la shari’à (le leggi islamiche), contrariamente alle visioni riduttive al riguardo diffuse in Occidente, non hanno conferito alla donna una posizione più precaria o peggiorativa rispetto alle altre religioni monoteiste. La questione fondamentale da porsi nell’approcciarsi al mondo musulmano è perché siano sopravvissuti modelli e comportamenti sociali tipici delle cosiddette società premoderne, caratterizzate da una forte gerarchia tra clan, tribù, caste, uomini e donne.

La problematica è complessa, e la lettura unicamente religiosa è insufficiente[5].

La dottrina islamica è interpretata, da diversi secoli, in modo estremamente diverso dalle varie correnti che caratterizzano il pensiero musulmano, a questo si aggiungono le differenze tra sunniti e sciiti, la distinzione tra le diverse scuole giuridiche. Inoltre sono notevoli le differenze in campo socioculturale e di applicazione della shari’à: tra il Medio Oriente e la penisola araba, e il resto del mondo, le leggi coraniche sono state gradualmente adottate secondo sistemi socioculturali e sistemi di valori del tutto differenti e che non sono scomparsi con l’avvento dell’islam, anzi ne hanno fornito gli elementi per interpretazioni diversificate.

In questo contesto lo status, il ruolo e i diritti della donna variano a seconda della scuola di pensiero, della nazione, della cultura locale. E’ importante partire dal fatto che non esiste UNA unica donna musulmana: questo concetto molto diffuso semplifica una realtà molto articolata, in cui però le donne hanno spesso un denominatore comune: lo status di minorenni a vita, in paesi tutt’altro che laici e democratici, che a loro è stato imposto da leggi che rivendicano la loro legittimità nei valori sacri della religione.

 

La donna nella shari’à islamica 

Io non permetto che il bene, da chiunque di voi,

maschio o femmina, sia stato fatto vada perduto.

Tutti voi siete uguali.

Il Corano, III-195

 

L’islam riconosce la parità ontologica ed escatologica tra uomo e donna e riconosce al femminile un ruolo fondamentale nell’armonia dell’universo. Tuttavia diverse disposizioni contenute nei versi del Corano assegnano all’uomo una preferenza: gli “uomini sono un gradino più in alto” delle donne (II-228).

Si racconta che alcune donne appartenenti alla prima comunità musulmana furono grandi femministe (come la grande guerrigliera Nusaybah) e chiesero al profeta Muhammad per quale ragione, nel Corano, Dio si rivolgeva solo agli uomini e mai alle donne. La leggenda dice che Dio riconobbe la validità della rivendicazione perché in seguito tutta la rivelazione parlerà ai credenti e alle credenti.

Secondo l’interpretazione tradizionalista la diversità biologica determina i diversi ruoli e le responsabilità all’interno della società: l’uomo, dotato di forza lavora fuori casa, si occupa di affari e politica e in famiglia è il capo assoluto, mentre il ruolo della donna, dotata di sensibilità, si svolge esclusivamente all’interno della famiglia in qualità di moglie e madre. Secondo l’interpretazione modernista, nell’islam gli uomini e le donne hanno uguali diritti e doveri e la reclusione femminile raccomandata nei versi coranici si riferiva esclusivamente alle mogli del profeta.

 Già al tempo di Muhammad, le donne non solo avevano contatti sociali con gli uomini, sia in pubblico che in privato, ma molte (tra le quali Khadigia, datrice di lavoro del Profeta prima di diventare sua moglie) si occupavano di affari economici e politici.

 

La famiglia

Nell’islam la differenza fra uomini e donne sta esclusivamente nel modello di famiglia delineato, che ripropone, consolida e regolamenta la struttura familiare patriarcale e patrilineare che caratterizza la cultura arabo-semita dove l’islam è nato e gran parte delle cultura dove si è diffuso. Il modello patriarcale garantisce lo sviluppo e il crescere del gruppo paterno di appartenenza e in particolare del suo sistema di valori.

In tale modello l’autorità è assunta dal capo famiglia ed ereditata sempre da un uomo dello stesso lignaggio, mentre il ruolo assegnato alla donna è la subalternità a colui che ha l’obbligo di mantenerla, la maternità e la hadana (cure relative all’allevamento dei bambini, compito strettamente femminile).

La patria potestà è esclusiva del padre che gode anche del cosiddetto “diritto di ta’dib” (correzione) sulla propria moglie.

L’islam obbliga il padre al mantenimento economico dei figli maschi fino alla pubertà e delle femmine fino alla consumazione del matrimonio. La donna dunque “appartiene” da nubile al gruppo paterno e con il matrimonio passa sotto l’autorità del gruppo familiare di suo marito. Per questo il matrimonio endogamico è stato per tanto tempo considerato la più felice delle unioni, mentre, soprattutto in situazione di povertà, molte famiglie decidono di non investire per l’istruzione delle proprie figlie, perché destinate da adulte a servire un’altra famiglia.

 

Il matrimonio

Il matrimonio, sinonimo di relazione sessuale lecita, perché stabilita da un contratto che prevede obblighi e doveri della coppia, è considerato un obbligo per tutti i musulmani, ma non ha vincoli di durata.

La validità del contratto è determinata da tre condizioni: il consenso della donna e dell’uomo, il consenso del wali (tutore) della sposa e l’obbligo per lo sposo di versare la dote alla sua partner.

Numerosi impedimenti sono elencati nel Corano (unioni tra parenti, appartenenza religiosa non musulmana della sposa); è lecita l’unione dei musulmani con donne che appartengono alle religioni del Libro.

Per gli uomini il matrimonio può essere poligamico: “Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate allora di fra le donne che vi piacciono, duo o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola…” (Corano IV-3). Ma più avanti si parla dell’impossibilità di essere equo “Anche se lo desiderate non potete agire con equità con le vostre mogli” che secondo i modernisti è un divieto alla poligamia.

Il matrimonio islamico non contempla il regime della comunione dei beni, perché gli averi e le proprietà della moglie (acquisiti per eredità o per il suo lavoro) non devono assolutamente essere usati per il mantenimento della famiglia. Per qusto motivo le donne ereditano la metà di ciò che spetta ai maschi, in quanto sono questi ultimi che devono provvedere al loro mantenimento economico.

 

Il divorzio

Il matrimonio può essere sciolto per cause volontarie: unilateralmente per volontà del marito o con sentenza del giudice, e bilateralmente per mutuo consenso.

Lo scioglimento unilaterale si effettua con il ripudio (talaq) per il quale non è permesso né il consenso della moglie ne il permesso del giudice. Può essere revocato fino alla seconda volta: “il ripudio v’è concesso due volte: poi dovete o ritenerla con gentilezza presso di voi, o rimandarla con dolcezza” (Corano, II-229). Il marito deve pronunciare la formula del talaq in presenza di due testimoni.

La moglie può richiedere il divorzio se il contratto non è stato rispettato. Mancanza al dovere del mantenimento, mancanza al dovere di dividere il letto coniugale, richieste di prestazioni sessuali illecite, sterilità non dichiarata al momento del matrimonio. L’istanza deve essere presentata al giudice a cui spetta l’emissione della sentenza di divorzio.

E’ anche prevista una formula di divorzio bilaterale la cui istanza viene presentata dalla moglie, seguita dal consenso del marito. In questo caso è previsto un risarcimento da parte della moglie al marito. I modernisti ritengono che la dottrina islamica ha ignorato certi principi contenuti nel Corano che, se osservati, avrebbero migliorato la posizione della donna all’interno della famiglia e della società. Relativamente al divorzio, per esempio, la clausola 4 del verso II-228 sembra parlare di uguali diritti tra sposi quando dice: “Esse (le mogli) agiscano con i mariti come i mariti agiscono con loro, con gentilezza”. Ma gli studiosi della dottrina non ritennero che questa clausola avesse carattere normativo e generale, cioè riferito a tutti gli aspetti del matrimonio.

 

La contraccezione

L’atteggiamento islamico nei confronti del controllo delle nascite si trova in una posizione isolata rispetto alle altre religioni monoteiste. Infatti sia fondandosi sul silenzio del Corano in questo campo, sia su alcuni hadith che rivelano un giudizio indifferente o a volte favorevole del Profeta riguardo al coitus interruptus, la maggioranza dei teologi islamici dichiarano la contraccezione permessa, in particolare il grande imam Al Ghazali, che l’ha dichiarata lecita se attuata secondo intenzioni onorevoli. In seguito la liceità è stata estesa a tutti gli altri sistemi anticoncezionali che impediscono temporaneamente la procreazione, mentre è rigorosamente proibita la sterilizzazione.

 

L’aborto

Più di una volta il Corano condanna nettamente l’infanticidio, ritenuto frutto di un’epoca di ignoranza e degradazione, praticato nell’era preislamica in particolare per le figlie femmine. Sulla base di un hadith del Profeta, è proibito l’aborto dopo i quattro mesi di gravidanza e per motivi strettamente economici. In molti stati islamici sono le strutture sanitarie pubbliche che ne hanno la competenza, proprio per limitare il ricorso ai metodi tradizionali.

 

Il velo islamico

Due versi del Corano, rivelati quindici anni dopo l’inizio della predica del Profeta, parlano di velo.

(p.74 di Le figlie di Abramo).

Anche su questo argomento le interpretazioni sono diversificate, in particolare sulla parte “ciò che è visibile”. La più diffusa interpretazione nel mondo islamico raccomanda alle musulmane di vestirsi castamente quando escono, senza ostentare il loro corpo, e/o raccomandando di portare il hijab, lungo foulard che lascia visibili solo il viso e le mani.

Uomini e donne vengono esortati a essere casti e pudichi per testimoniare la loro fede. Tuttavia alle donne viene richiesto di uscire velate per imporre allo sguardo degli estranei e dei non musulmani la loro inviolabilità e la loro sottomissione a Dio.

 

La posizione della donna nelle leggi dello stato

Mentre le monarchie arabe traggono una parte della loro legittimità dal loro carattere tradizionale e garante degli usi e costumi del paese, i dirigenti di molti altri paesi hanno esercitato il potere, dalle indipendenze nazionali,legittimati come protagonisti del cambiamento rivoluzionario mirato ad una società di progresso che deve combattere tutte le forme di regressione e di sfruttamento. Molte dichiarazioni ufficiali delle nuove repubbliche stabiliscono pari diritti, pari doveri e pari opportunità in tutti i settori a entrambi i sessi. Tuttavia la correlazione tra valori universali e articoli che dichiarano l’islam religione di stato, rappresenta il nodo problematico dello statuto giuridico delle donne del mondo musulmano.

Ricordiamo che nell’islam non esistono istituzioni clericali ma è colui che dirige politicamente la comunità che ha la competenza in materia di affari religiosi.

 

Alcuni elementi dello statuto personale (spesso chiamato Diritto di famiglia) di quattro stati islamici.

 

 

 

 

 

 

 

TUNISIA

ALGERIA

MAROCCO

EGITTO

Parità di diritti e doveri tra uomini e donne sanciti dalla costituzione e da altre leggi dello stato

SI

SI

SI

SI

Poligamia

 

NO

SI

NO

SI

Matrimonio valido solo con il consenso del tutore della sposa anche maggiorenne

NO

SI

NO

SI

Obbligo del versamento della dote (da parte dello sposo) per la validità del matrimonio

SI

SI

SI

SI

Patria potestà ad entrambi i genitori durante il matrimonio

 

SI

NO

SI

NO

Ripudio verbale o con semplice segnalazione al giudice riconosciuto come diritto del marito

NO

NO

NO

SI

Affidamento dei figli minori fino a età prestabilita dalla legge (variano da 10 a 15 anni secondo il sesso del figlio) alla madre se li vuole e se non si risposa

SI

SI

SI

SI

Risarcimento pagato dalla moglie al marito per sciogliere il matrimonio

NO

SI

NO

SI

Obbligo del consenso del tutore o del marito per esercitare attività lavorativa non domestica

NO

SI

NO

SI

 

 

Primi passi verso un cambiamento di prospettiva

L’islam attribuisce alla donna una posizione subalterna a colui che la mantiene e solo nell’ambito familiare. Questa specifica subalternità è strumentalizzata e richiamata, interpretata e rimodellata secondo le correnti di pensiero e i progetti di società mirati o avviati. La disparità fra uomini e donne che si verifica nei sistemi socio culturali dei paesi islamici è stata riproposta e istituzionalizzata dalle elite al potere, per salvaguardare le tradizioni e acquisire il consenso di tutta la popolazione in contrapposizione con l’Occidente.

Inoltre la specificità del Corano e degli hadith, che si occupano in modo dettagliato del rapporto tra donne e uomini (la sessualità, il matrimonio, il rapporto di coppia, il divorzio, la dote ecc.) hanno sicuramente contribuito a ostacolare i tentativi di modifiche visti e vissuti come trasgressioni e violazione del sacro. Ciò non ha impedito a molti stati islamici di ricorrere alle fetwa (responsi giuridici) quando l’esercizio del potere lo richiedeva : è emblematico come questo strumento è stato usato e “favore” delle donne per tollerare le sterilizzazioni (Kuwait, Arabia Saudita, Egitto, Algeria, Yemen), affidare loro massime cariche istituzionali (diversi paesi islamici hanno avuto e hanno ministre e primi ministre) affidare loro compiti di dirigenza militare, tuttavia lo strumento della fetwa non è mai stato usato per riconoscere alle madri la potestà sui figli e soprattutto mai per modificare il sistema del serraglio all’interno della famiglia.

Tuttavia esistono spazi di riflessione anche all’interno dell’islam per affrontare questioni e temi fondamentali. In particolare questo è stato possibile da parte di chi, ha avuto l’opportunità di risiedere al di fuori dei paesi islamici per studio o per lavoro ed è venuto a contatto con le tradizioni intellettuali occidentali. E’ il caso di Ghazala Anwar, nata e cresciuta in Pakistan, che vive in esilio negli Stati Uniti, dove ha studiato religione all’Università di Chicago, Illinois e alla Temple University di Philadelphia; attualmente è docente alla Colgate University di Hamilton e fa parte del comitato direttivo della sezione “Donne e religione” dell’American Accademy of Religion. Il metodo da lei seguito negli studi islamici è ermeneutico e letterario, volto ad indagare quale impatto i testi classici islamici abbiano sull’esistenza attuale dei musulmani.

La Anwar afferma che il metodo storico-critico verso lo studio del Corano e degli ahadith ha trovato per lo più esitanti (e sospettosi) gli studiosi musulmani, però c’è stato qualche cauto passo in questa direzione[6].

In particolare, già da alcuni decenni si incomincia a considerare con il metodo storico critico gli ahadith, fondando le argomentazioni teologiche solamente sul Corano, ma esistono spazi di cambiamento anche nei metodi usati per lo studio del Corano.

Tra le questioni dibattute dal femminismo musulmano contemporaneo, hanno grande importanza alcune leggi che i giuristi classici sostengono di poter basare su certi versetti coranici. Molto dibattute sono le leggi riguardanti lo statuto personale, tra cui il diritto dell’uomo di avere più di una moglie, di infliggerle punizioni fisiche, di ripudiarla con un’iniziativa extragiudiziale e unilaterale; quelle riguardanti gli alimenti, la custodia e il mantenimento dei figli, il diritto di successione, il codice di abbigliamento e l’accesso delle donne agli spazi pubblici e ai pubblici uffici, in particolare a quello di capo di stato. Più recentemente alcune comunità hanno cominciato a porre la questione della funzione di guida della liturgia, e in particolare quella della funzione comunitaria del venerdi.

Si fanno strada in questo contesto diverse posizioni tra cui quelle riformiste, che ritengono che la parola di Dio è stata compresa in modo inadeguato o male interpretata.

Una posizione particolarmente interessante è quella trasformazionista, che si serve di strategie ermeneutiche classiche per creare uno spazio interpretativo e per riconciliare apparenti contraddizioni, perplessità o tensioni nel testo.

Ad esempio un moderno studioso indonesiano, Muhammad Koesnoe, si serve della distinzione classica tra versetti muhkamat (chiari, certi) e versetti mutashabihat  (metaforici, elusivi, oscuri): questa distinzione, indicata nel versetto 7 della terza sura, non specifica quali versetti appartengano all’una o all’altra categoria, e tradizionalmente sono sempre stati considerati certi quelli che sembravano avere una valenza legale, mentre secondo Koesnoe sono proprio questi a dover essere considerati metaforici , rovesciando una tradizione esegetica di molti secoli, e fornendo un potente strumento con cui affrontare tutti i versetti “sessisti” del Corano.  

 

La donna nel Cristianesimo

 

L’ideologia cristiana ha contribuito non poco all’oppressione delle donne.

(Simone de Beauvoir)

 

Premessa

Incominciare a scrivere questo capitolo è stato più difficile degli altri per due ordini di motivi.

Il primo è che il cristianesimo fa parte integrante della nostra cultura e indipendentemente dalle nostre scelte adulte la cultura cattolica fa parte del patrimonio di conoscenze e consuetudini, è fonte di dibattiti e controversie che nascono  proprio dalla peculiarità  del vivere in Italia, in un contesto culturale, sociale e politico così vicino al Vaticano; quindi parlare di cristianesimo, delle posizioni prese dalla chiesa cattolica in merito a divorzio, aborto, contraccezione, rischia di essere una ripetizione di conoscenze scontate, riguardo alle quali tutti siamo al corrente.

Il secondo è che questa “vicinanza” in qualche modo mi è un po’ troppo pesante, rende più difficile uno sguardo obiettivo e non solo profondamente critico, che lasci spazio a quello che di positivo ci sia nel messaggio cristiano in merito alla figura femminile; per fare questo, è necessario ritornare alle origini di questo messaggio,  individuando tutto ciò che è stato interpretazione successiva, e ovviamente di matrice maschile, che lo ha modificato a supporto di un ordine delle cose che incardinava nella sottomissione della donna e nel suo ruolo sociale di moglie e di madre uno degli elementi essenziali di stabilità.

Per quanto riguarda il primo punto, mi limiterò a rimandare il lettore alla tabella in appendice, dove sono indicate le posizioni delle diverse confessioni religiose relative ai grandi temi legati alla sessualità e alla procreazione.

Per quanto riguarda il secondo, riconoscendo la vastità del tema, mi limiterò a proporre alcune problematiche, certa di non poter esaurire l’argomento e neanche di arrivare a delle soluzioni, ma con l’intento almeno di aprire delle porte per l’approfondimento e lo scambio non pregiudiziale.

All’interno di questo, occorrerà tener presente le differenze che si possono riscontrare nelle diverse confessioni religiose che fanno riferimento alla religione cristiana: cattolicesimo, protestantesimo, chiesa anglicana e molte altre. Nel corso della trattazione sarà sempre specificato a quale confessione si fa riferimento. 

Per quel che riguarda la figura femminile nella chiesa cattolica, più che da una dissertazione preferirei partire da un fatto, evidenziato con una certa durezza sul quotidiano “Il Manifesto”, del 18 maggio 2004, dalla giornalista Roberta Carlini:

“In tempi di religioni di guerra, occorre fare attenzione a quel che fanno le religioni. Quella che abbiamo in casa domenica ha canonizzato la prima “santa sposata”. La storia tragica di Gianna Beretta Molla è questa: madre di tre figli, scopre di avere un tumore all’utero quando è incinta del quarto figlio. Sceglie di non farsi curare per non compromettere il feto. La quarta figlia nasce, lei muore. Quarantatre anni dopo Wojtila la canonizza. I sopravvissuti – il marito novantaduenne, i figli – partecipano alla “festa della mamma”.

Con tutto il rispetto per il dolore, l’affetto e la fede di quell’anziano signore, di quelle figlie e di quei figli, quelle immagini domenicali non avevano niente di festoso. Non è in discussione la scelta che allora fece Gianna Beretta Molla – muoio, pur di far crescere il feto e di far nascere la bambina. Una scelta privata – ma qualche mese fa, di fronte alla privata decisione di una donna di morire pur di non farsi amputare un piede, si scatenò il finimondo. Né è in discussione la presenza di altre sensibilità e opinioni, come quella di chi, cattolico o laico che sia, pensa che una nascita in meno con una madre viva sia preferibile di una nascita in più con quattro orfani. No, quello che è in discussione è il modello che, santificando quel suicidio, ci propone la chiesa di Wojtila. Un modello che riguarda tutti, anche i non cattolici, e sul quale tutti possiamo interrogarci così come ci interroghiamo  - e ci indignamo – su quelle religioni che partono dal corano e arrivano al burqa. Secondo il modello che si è visto domenica in piazza San Pietro, la donna è madre e gestante, serve finchè fa questo e di questo può morire – anzi, è santa se muore. E’ questa la cultura della vita e dell’amore della religione cattolica e dei vangeli? E’ questa l’interpretazione diffusa oggi, tra le donne e gli uomini cattolici nel nostro paese?”

 

La donna nelle scritture cristiane

E’ significativo che le affermazioni contenute nel Nuovo Testamento che rispecchiano l’antifemminismo di quel tempo non siano mai state fatte da Cristo. I vangeli non tramandano nessun discorso di Gesù che riguardi le donne “in quanto tali”: colpisce invece il suo comportamento verso di loro. Nei passi che descrivono i rapporti di Gesù con varie donne emerge chiaramente una caratteristica: esse appaiono come persone, perché sono trattate come persone, spesso in contrasto così netto con le usanze di allora da meravigliare gli astanti[7].

Il comportamento di Gesù con la Samaritana lasciò perplessi perfino i discepoli, meravigliati che egli le rivolgesse la parola in pubblico (Gv. 4, 27). Poi ci fu la difesa dell’adultera, che avrebbe dovuto essere lapidata secondo la legge di Mosè (Gv. 8,1-11). Ci fu poi il caso della prostituta cui egli perdonò i molti peccati, perché aveva molto amato (Lc. 7 36-50). Nel contesto della crocifissione infine, risultano evidenti gli stretti rapporti  di amicizia che Gesù aveva con alcune donne.

Certo il Nuovo Testamento non mancò di rispecchiare l’inferiorità sociale delle donne di quel tempo. E benché nel messaggio cristiano fossero contenuti i germi dell’emancipazione, tuttavia le loro piene applicazioni non apparivano evidenti a chi ebbe il compito di riportare per iscritto l’esperienza diretta di questo messaggio. I passi più pesantemente antifemministi si trovano, come è noto, nei testi paolini. Essi rispecchiano la preoccupazione di Paolo a preservare l’”ordine” nella società e in particolar modo nelle assemblee cristiane, come se volesse dare all’esterno una buona immagine delle prime comunità: perciò gli sembrava importante che le donne non avessero un ruolo di troppo rilievo nelle assemblee cristiane, , che non parlassero troppo, che non stessero a capo scoperto, perché tutto ciò avrebbe suscitato pettegolezzi e critiche, e avrebbe attirato il ridicolo sulla nuova setta, che già doveva affrontare accuse di immoralità. Nell’antica Corinto, l’andare a capo scoperto equivaleva per una donna ad un comportamento da prostituta. A paolo premeva salvaguardare la giovane chiesa da accuse di immoralità, e perciò insistette su un comportamento sessuale “corretto”, che comprendeva un atteggiamento sottomesso delle mogli durante le assemblee. I testi paolini dovrebbero essere interpretati nel loro contesto sociale, e non utilizzati a giustificazione di una condizione subalterna della donna nella società odierna, che è completamente diversa.

Il repentino processo di patriarcalizzazione, che significò per le comunità strutturarsi gerarchicamente, aveva dunque portato ad una crescente marginalità femminile, sottolineata dal divieto per la donna di ogni parola autorevole: dalla predicazione alla scrittura. All’esperienza di fede femminile si concederà di essere vissuta e non pensata, ogni dottrina elaborata e scritta da donna sarà ritenuta sospetta.

Relativamente alle responsabilità o alle cause di tale emarginazione, si è scritto molto negli ultimi anni e gli studi delle teologhe sono stati determinanti per la comprensione dei fattori, molteplici e complessi, che non hanno permesso l’attuazione pratica di quel principio di uguaglianza tra uomo e donna pur vigorosamente indicato nella teoria.

L’oppressione della donna ha trovato il suo fondamento nella convinzione, per secoli sostenuta, sull’inferiorità naturale della donna, nella sua triplice articolazione di inferiorità fisiologica, morale e giuridica[8].

L’inferiorità fisiologica considerava la donna secondaria (tratta dall’uomo), subordinata (creata in sua funzione), passiva (riceve e nutre il seme senza alcun ruolo attivo), debole (per mancanza di vigore razionale e di forza decisionale), impura (a causa del ciclo mestruale); la riteneva sesso imperfetto, un “maschio mancato” come ribadiva S. Tommaso, riprendendo e avvalorando l’antropologia asimmetrica di Aristotele.

L’inferiorità morale sottolineava in lei l’incapacità di operare un efficace agire etico, la sua non rilevanza come soggetto autonomo: il suo essere luogo di solo consenso.

L’inferiorità giuridica, infine, discendeva da tali presupposti, e poggiava su un fondamento teologico che ha attraversato il pensiero cristiano, costituendo l’esclusione della donna da ogni ambito di autorità  e di responsabilità: “L’immagine di Dio è nel maschio… che ha ricevuto da Dio il potere di governare come suo sostituto… Ed è per questo che la donna non è stata fatta ad immagine di Dio” (Graziano q. 5, c. 33). Questo ritenere che la mascolinità meglio si presti a descrivere, analogicamente, gli attributi divini ha significato quindi la svalutazione della femminilità e delle sue specificità, così come ha portato all’emarginazione della donna in ogni ambito di gestione del potere (nella famiglia il capo è l’uomo, nei tribunali la donna non può giudicare, nella chiesa non può governare…).  La parità nella fede e nella grazia tra i due sessi, non si è tradotta in una pari dignità negli ambiti familiari, sociali, culturali e religiosi, sfere che, paradossalmente, hanno registrato  da una parte una presenza significativa e irrinunciabile della donna, dall’altra il non riconoscimento istituzionale e politico dei suoi ruoli, relegandola ad una posizione di “non visibilità” che ha bisogno, per esistere, della mediazione maschile che controlla, approva, giudica, dirige.

Non mancano, attualmente messaggi di revisione critica di queste posizioni, anche dalla chiesa ufficiale. A partire dal Concilio Vaticano II, nella chiesa cattolica si è sviluppata una sensibilità per la questione della donna, inizialmente orientata alla problematica del sacerdozio femminile, ma a questo si aggiunge il movimento delle donne che negli anni settanta indusse la chiesa ad interrogarsi su questioni coinvolgenti gli ambiti della vita familiare e sociale[9].

Per quanto molto si sia mosso e alcuni obiettivi siano stati raggiunti, l’apparenza tuttavia inganna su come continui ad essere difficoltoso far valere dal punto di vista dei contenuti le posizioni della teologia femminista e su quanto siano fragili le garanzie materiali e personali in merito.  Pur essendo diventata un fattore difficilmente ignorabile nel dibattito teologico ed ecclesiastico odierno, la teologia femminista continua ad essere una “ribellione di frontiera”. 

 

Il ruolo della donna nelle istituzioni

Nel quadro dei nuovi spazi che le donne hanno ottenuto nella società contemporanea (e delle lotte per conservarli), si pone anche la questione del posto delle donne nelle chiese cristiane[10].

Non sarebbe tuttavia corretto pensare che l’interesse per questo tema derivi semplicemente da circostanze contingenti come i mutamenti sociali. Si potrebbe anzi dire che la “questione femminile” è sempre stata presente nel cristianesimo, come le donne sono sempre state presenti nella chiesa. La discussione sul ruolo delle donne nella chiesa, e più specificatamente sul loro ministero, ha accompagnato le chiese lungo la loro storia e non sempre a causa di circostanze esterne. Si potrebbe sostenere che la questione dell’accesso alle donne al ministero nasce dalla dinamica intrinseca di una fede per la quale donne e uomini sono fatti ad immagine e somiglianza di Dio. In altre parole, a mettere ripetutamente e con insistenza sul tappeto la questione è il messaggio cristiano nella sua peculiarità.

Nel 1996 la chiesa anglicana d’Inghilterra ha deciso l’ammissione delle donne al ministero di prete in piena parità con gli uomini. Ciò è avvenuto due decenni dopo le prime ordinazioni di donne nella chiesa anglicana in Canada e Nuova Zelanda, dandoci un’idea del travaglio che ha accompagnato la decisione della chiesa inglese. Infatti, la questione non è solo molto complessa per ragioni di principio, di opportunità e per il rispetto di una tradizione millenaria, ma suscita anche forti reazioni emotive, talvolta sproporzionate e legate ad immagini arcaiche della donna radicate nella nostra cultura e nella nostra psiche. La stampa italiana ha dato ampio spazio al dissenso cattolico in materia. Perché?

La chiesa anglicana, anche se formulata in base a principi comuni al protestantesimo, grazie al suo ordinamento gerarchico, alla sua liturgia, e al riconoscimento che attribuisce ai vescovi e alla loro successione apostolica si avvicina molto alla chiesa di Roma. Ed è proprio per questa vicinanza che la chiesa cattolica ha ritenuto necessario ribadire nella sua lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, il suo no al sacerdozio femminile. Ma c’è da chiedersi perché la chiesa cattolica è così intransigente su questo punto.

Contro l’ordinazione delle donne, le argomentazioni che troviamo già presenti nella dichiarazione Inter insigniores (1977), sono sostanzialmente tre.

La prima si richiama alla prassi di Gesù, degli apostoli e della chiesa lungo i secoli. Secondo questa tesi Gesù non chiamò nessuna donna a far parte dei dodici apostoli, e gli stessi apostoli, come del resto la chiesa dei tempi successivi non ordinarono mai donne al sacerdozio.

La seconda parte da una riflessione sulla funzione rappresentativa del sacerdote. Egli, durante la consacrazione dell’eucarestia, non agisce in nome proprio ma “nella persona di Cristo”, che rappresenta. Dato che, secondo questa teoria, tra Cristo e il suo rappresentante deve intercorrere una somiglianza fisica e Gesù di Nazaret era un uomo, anche il sacerdote deve essere un maschio.

Il terzo argomento insiste sulla natura sovrannaturale della chiesa, la cui organizzazione è di “istituzione divina”, cioè le è data da Dio. Questo significa che non è lecito trasferire alla chiesa nozioni modellate nella società civile come democrazia e diritti umani. L’ordinamento della chiesa non è elettivo, ma è stato rivelato da Dio, e tale rivelazione non prevede che le donne possano essere sacerdoti.

Tutto questo va inquadrato in una particolare visione antropologica, per la quale donne e uomini, pur godendo di pari dignità, hanno una funzione diversa e complementare: essi, cioè, per la chiesa cattolica, sono uguali ma diversi e quella diversità, almeno per ciò che riguarda la donna, è intesa a partire dalla biologia, cioè è inscritta nell’ordine naturale delle cose.

Forse varrebbe la pena prendere in considerazione alcune domande che si pongono alcuni settori della stessa chiesa cattolica, e che stanno alla base di un certo malessere che si manifesta nei confronti della gerarchia ecclesiastica[11] (nota a pag 12).

Sia i fedeli che i teologi si chiedono, per esempio, se le donne furono escluse dal gruppo dei dodici per semplici motivi simbolici (il richiamo alle dodici tribù di Israele) o perché Gesù ritenesse inopportuno, data la condizione subalterna della donna all’epoca, un ministero pubblico femminile. Se si comprende il significato dei “dodici” e si riconosce il cambiamento avvenuto nella posizione sociale della donna, si può fare spazio all’ordinazione delle donne al sacerdozio.

Inoltre, sarà opportuno domandarsi, se  Dio si è fatto carne in Cristo per salvare l’umanità intera – uomini e donne – perché è solo la maschilità a fornire la somiglianza tra sacerdote e Cristo? Non sarebbe più corretto vedere il punto di somiglianza proprio in quella umanità che è senza dubbio condivisa anche dalle donne?

Infine, molti considerano contraddittoria una chiesa che, da un lato si pronuncia a favore dell’uguaglianza e dell’emancipazione della donna nella società, mentre dall’altro nega alle donne l’accesso al sacerdozio, in contrapposizione a quanto di fatto sta già avvenendo in parrocchie e comunità di tutti i continenti, spesso in condizioni di estreme difficoltà, dove molte donne, religiose e non, stanno già esercitando il ministero pastorale.

Per quanto riguarda le chiese che fanno capo alla Riforma protestante, a partire dalla metà dell’ottocento negli Stati Uniti le prime donne cominciarono ad accedere al ministero pastorale. Non è un caso che furono chiese prive di ordinamento gerarchico ad ammettere le prime donne al pastorato. In Europa furono anche i congregazionalisti i primi che, nel 1919, ordinarono donne al ministero; seguirono poi le chiese riformate e luterane. Tuttavia fu solo a partire dagli anni ’50 del nostro secolo che le maggiori chiese protestanti (luterana, metodista, presbiteriana, battista) in Europa e in America, cominciarono ad ordinare donne al pastorato.

Per quanto riguarda l’Italia, l’ammissione delle donne al pastorato fu approvata dal Sinodo valdese nel 1962 e le prime donne pastore furono consacrate nel 1967 nella chiesa valdese, che dal 1967 comprende anche i metodisti; dodici anni più tardi il loro esempio fu seguito dalle chiese battiste italiane. Attualmente in Italia nelle chiede valdesi e metodiste ci sono 16 donne che esercitano il ministero pastorale su un totale di poco più di 100 pastori in attività, e nelle chiese battiste ci sono 6 donne pastore su un totale di 44.

 


 

Appendice: Quadri comparativi delle posizioni delle diverse chiese in relazione alla vita personale delle donne:

 

Vita personale

 

Ebraismo

Islam

Cristianesimo

Cattolici

Protestanti

Anglicani

Matrimonio

E’ considerato un contratto

E’ considerato un contratto

E’ considerato un sacramento indissolubile

 

 

Divorzio

E’ previsto, sotto forma di scioglimento del contratto di matrimonio da parte dell’uomo

Previsto per la donna in caso di non rispetto del contratto.

Prevista e ancora diffusa la pratica del ripudio da parte dell’uomo.

Non ammesso.

Previsto l’annullamento del matrimonio in condizioni particolari

 

Ammesso

Contraccezione

Ammessa dopo la nascita di due figli

Ammesse le forme di contraccezione temporanee

Ammesse solo alcune forme di controllo delle nascite

 

 

Sterilizzazione

Non ammessa

Non ammessa

Non ammessa

 

 

Aborto

Ammesso solo a fini terapeutici

Ammesso entro il quarto mese di gravidanza ma limitazioni sulle motivazioni

Ammesso solo a fini terapeutici

Ammesso

 

Procreazione Medicalmente Assistita

Non ammessa.

Ammesse cure contro la sterilità

Non ammessa.

Ammesse cure contro la sterilità

Ammessa ma oggetto di precise regolazioni (es. no fecondazione eterologa)

 

 

Castità

Non è considerata positivamente

Non ammessa

Considerata un valore

 

 

 

Vita istituzionale

 

Ebraismo

Islam

Cristianesimo

Cattolici

Protestanti

Anglicani

Studio dei testi sacri

Ammesso, ma solo dal puntodi vista religioso

Ammesso lo studio mnemonico del Corano

Ammesso con alcune limitazioni riguardanti lo studio teologico ad alto livello

 

 

Partecipazione al culto

In forme diverse dagli uomini, in zone del tempio separate

In forme uguali agli uomini, in zone del tempio separate

Senza distinzione

 

 

Vita religiosa (es. monastica)

Non prevista

Non prevista

Prevista e valorizzata

Non prevista

 

Possibilità per le donne di celebrare i riti

Non prevista nelle comunità ortodosse, prevista nelle comunità riformate negli Stati Uniti

Ammessa la donna imam alla guida della preghiera di sole donne

Non ammessa per il sacerdozio, prevista per la figura di diacona

Prevista

Prevista

                 

BIBLIOGRAFIA

 

M.A. Sozzi Manci, (a cura di) Le figlie di Abramo, Donne, sessualità e religione,  Guerini e Associati, 1998 Milano

 

S.Allievi (a cura di), Donne e religione, Il valore delle differenze, Ed. Emi Bologna, 2002

 

Eva Renate Schmidt, Mieke Korenhof e Renate Jost (a cura di), Riletture bibliche al femminile, 27 saggi di interpretazione biblica femminista, Claudiana, Torino, 1994

 

N.Tedeschi, A domanda rispondo, Ed. Giuntina

 

Elizabeth E. Green, Perché la donna Pastore?, Ed Claudiana, Torino, 1996

 

Mary Daly, La chiesa e il secondo sesso, Rizzoli, Milano, 1982

 

Fiorenza Taricone (a cura di), Maschio e femmina li creò. L’immagine femminile nelle religioni e nelle scritture, Gabrielli Editori, Verona, 1998

 

Dalla Rivista Concilium Rivista internazionale di teologia, edizioni Queriniana, Brescia

 

-         Le donne nel cristianesimo primitivo, di Elizabeth Fiorenza, Concilium, n.1, 1976

 

-         Teologia femminista in Europa. Tra movimento e istituzionalizzazione accademica,di Monika Jakobs, n.1 1996

 

Approfondimenti:

I testi che seguono non sono stati direttamente utilizzati per la stesura della tesina, ma ne hanno costituito l’orizzonte di riferimento, il sottofondo culturale, determinandone l’orientamento della ricerca.

 

Pepe Rodriguez, Dio è nato donna. I ruoli sessuali alle origini della rappresentazione divina, Editori Riuniti, Roma, 2000

 

Dispensa: I quaderni dell’amicizia ebraico cristiana N°9 – Temi a due voci, di N. Tedeschi e Pastore Eugenio Rivoir e Don Stefano Rosso, Torino 1995

 

Fatima Mernissi, La terrazza proibita, Ed. Giunti

 

Stefano Allievi, L’islam italiano,  Einaudi, Torino, 2003

 

Elizabeth Green, Lacrime amare.Cristianesimo e violenza contro le donne, Ed. Claudiana, Torino, 2000

 

Elizabeth Green, Dal silenzio alla parola. Storia di donne nella Bibbia, Ed. Claudiana, Torino, 1992

 

 

 



[1] Da La donna nell’Alachà, di Ester Kopciowski Korbman in Le figlie di Abramo, Donne, sessualità e religione, a cura di M.A. Sozzi Manci, , Guerini e Associati, 1998 Milano

 

[2] Cfr. L.Voghera Luzzatto, La donna nella storia e nella tradizione ebraica, in Donne e religione, Il valore delle differenze, a cura di S.Allievi, Ed. Emi Bologna, 2002

 

[3] Da Ester per gli ebrei e per i cristiani, di Pnina Navè-Levinson e Martin Stohr, in Riletture bibliche al femminile, 27 saggi di interpretazione biblica femminista, a cura di Eva Renate Schmidt, Mieke Korenhof e Renate Jost, Claudiana 1994 Torino

 

[4] V. Levitico, 12, Purificazione della puerpera. Il parto, come le mestruazioni e l’emissione seminale dell’uomo, è considerato una perdita di vitalità per l’individuo, che deve ristabilire la sua integrità e così l’unione con Dio, fonte della vita. Il periodo di impurità si suddivide in totale impurità (7 e 14 giorni rispettivamente se la donna ha partorito un maschio o una femmina) e minore impurità (33 e 66 giorni), relativa quest’ultima solo al contatto con le cose sacre e le visite al santuario  

[5] Cfr. Samia Kouider,La donna nell’islam, in Le figlie di Abramo cit.

 

[6] Cfr. Ghazala Anwar, Riflessioni femministe musulmane, in Concilium, Rivista Internazionale di teologia, n. 1, anno 1996

[7] Da Mary Daly, La chiesa e il secondo sesso, Rizzoli, Milano, 1982

 

[8] Il femminile nelle religioni e nelle chiese,  Introduzione di Adriana Valerio, in Fiorenza Taricone (a cura di), Maschio e Femmina li creò. L’immagine femminile nelle religioni e nelle scritture, Editori Gabrielli, Verona, 1998

 

[9] Da Monika Jakobs, Teologia femminista in Europa. Tra movimento e istituzionalizzazione accademica, in Riv. Concilium, Anno 1996, n. 1

 

[10] Da Elizabeth E. Green, Perché la donna Pastore?, Ed Claudiana, Torino, 1996

 

[11] Si veda ad esempio il movimento di base “Noi siamo chiesa” sorto in Austria nel 1995 e che si sta diffondendo largamente in Germania, Svizzera, Belgio e ora anche in Italia