Se l’euro ci divide

 

Marco D’Eramo
 

il manifesto, 17 maggio 2012

 

L’euro sta pagando il suo peccato originale: aver costruito una moneta comune senza fondarla su una politica economica comune. Né era possibile una politica comune senza un centro decisionale comune eletto democraticamente. L’unica soluzione sarebbe una vera unificazione politica: è una prospettiva realistica?

È sotto gli occhi di tutti: l’unione monetaria sta dividendo l’Europa. La sta dividendo politicamente, socialmente, soprattutto economicamente. L’euro era stato pensato come strumento per cementare l’unione politica europea e per ancorare la prosperità tedesca a quella del resto del continente. Invece non fa che esaltare il divario tra paese e paese, mandare a picco le economie, esasperare nazionalismi e xenofobie. Risultato collaterale, ma non meno devastante, l’euro sta abrogando la democrazia, vanifica il suffragio universale, cancella due secoli di conquiste popolari e cancella con un tratto di penna componenti essenziali di civiltà. In nome della moneta comune si scavano tra uno stato europeo e l’altro baratri incolmabili, erigendo frontiere più invalicabili del muro di Berlino: non a caso, nel primo turno delle presidenziali francesi ha ricevuto il 18% dei suffragi Marina le Pen, la cui campagna era centrata contro «l’Unione sovietica europea». Slogan azzeccato, anche se indigesto. È vero che la moneta comune funziona come un Patto di Varsavia e le rate del debito opprimono come le divisioni corazzate dei «paesi fratelli».

Né potrebbe essere altrimenti: sotto la cappa di una valuta unica sono state compresse economie diversissime senza dotarsi di nessuno strumento per armonizzarle. La Spagna deve sottostare agli stessi tassi d’interessi della Germania pur con il quadruplo dei disoccupati, senza poter svalutare per recuperare competitività nell’export e senza poter allentare il credito per alleviare un sistema bancario sull’orlo del crac. L’euro sta pagando il suo peccato originale: aver costruito una moneta comune senza fondarla su una politica economica comune. Né era possibile una politica comune senza un centro decisionale comune eletto democraticamente e democraticamente controllato. Risultato: ci siamo trovati in balia di uno sbilanciatissimo duumvirato franco-tedesco autoinsediatosi e spaccato al suo interno. Che la crisi economica dell’unione europea sia dovuta a un deficit politico di democrazia, l’unica a sostenerlo con lucidità all’infuori del manifesto è Barbara Spinelli, la cui voce risuona però nel deserto della stampa italiana.

In questa situazione è inutile (e ingiusto) chiedere ai contribuenti tedeschi di sborsare denaro per un’entità che non è la loro (come non è la nostra). L’unica soluzione sarebbe avviare un processo di unificazione politica, varare un organo di governo comune a cui sia devoluta buona parte delle sovranità nazionali in materia di politica economica, un governo responsabile di fronte a un vero parlamento federale (o confederale) eletto: non quella parodia di Banca centrale priva delle sue prerogative chiave, prima tra tutte quella di prestare alle banche della propria area e comprare i titoli di debito del proprio stato (come invece fanno la Federal Reserve Usa e la Banca centrale giapponese). Sarebbe l’unica soluzione per salvare l’euro e le economie europee. Ma esigerebbe una sinistra europea o, meglio, il delinearsi di una dimensione europea e sovranazionale della sinistra. Invece proprio i dieci anni di moneta unica hanno rinchiuso ogni sinistra nazionale nel proprio ristretto orizzonte territoriale, rendendo ognuno sordo e cieco di fronte ai patemi dei propri vicini.

Continuiamo a chiedere da mesi: quale leader della sinistra europea si è recato ad Atene o ha invitato a suo tempo George Papandreu (quando propose un referendum sull’austerità e fu minacciato di golpe militare) e ora Alexis Tsipras? In questi dieci anni di euro le sinistre europee si sono imbevute, senza accorgersene, dei nazionalismi e dell’antieuropeismo che la dittatura dello spread ha alimentato.
Magari sarebbe stato possibile nel 2001, ma allora nessuno era pronto a cedere una briciola della propria sovranità. Perciò oggi questa soluzione – l’unica ragionevolmente immaginabile – ci è preclusa. Non possiamo salvare insieme la moneta unica europea e le varie economie europee.

Ci rimane dunque una sola alternativa: salvare la moneta unica oppure salvare le nostre economie.
Che siamo ormai a questo punto lo riconoscono un po’ tutti: ieri un titolo del New York Times recitava: «Una logica allettante per abbandonare l’euro». Sappiamo che la scelta non è tra male e peggio, ma tra peggio e pessimo, e che cioè tutti e due i corni del dilemma ci promettono a breve un futuro da brivido. Va molto di moda in questi giorni ricordare il precedente dell’Argentina che nel 2001 abbandonò la parità del peso col dollaro (parità che aveva mantenuto con gran pena per dieci anni). Così facendo, spazzò via praticamente tutti i risparmi dei cittadini argentini, i salari reali crollarono e le spese sociali furono falcidiate: nel 2002 il Pil calò dell’11%.

Ma dopo di allora la crescita è stata fulminea e ininterrotta per un decennio. Mentre sappiamo con certezza che l’austerità
impostaci da Bruxelles e da Berlino ci promette solo un decennio di recessione, impoverimento, imbarbarimento.
Ps. Che memoria corta abbiamo: nessuno sembra ricordare che i diktat della Bce e della Commissione europea somigliano come gocce d’acqua alle ricette che il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale prescrivevano alle economie «malate» del Terzo mondo. E nessuno vuole ricordare gli esiti di quelle terapie, che guarivano le malattie, ma uccidevano i pazienti.