Facciamo economia Come costruire una nuova società dell'abbondanza

 

di Serge Latouche

 

la Repubblica” del 14 settembre 2012

 

Il filosofo francese Serge Latouche è tra gli ospiti internazionali del Festivalfilosofia” che si svolge tra Modena, Carpi e Sassuolo da oggi al 16 settembre e che ha come tema le “Cose” (direzione scientifica di Michelina Borsari). In programma oltre 200 incontri e 50 lectio magistralis alle quali partecipano tra gli altri Enzo Bianchi, Cacciari, Augé e Bauman. Qui anticipiamo parte della lectio che Latouche terrà il 16 alle 18 in Piazza Grande a Modena  Co lo studioso torna sulle sue tesi più celebri come quella della “decrescita felice”.

 

Viviamo in una società della crescita. Ci in una società dominata da un’economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del consumo è l’esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni – e dunque di prodotti superflui e rifiuti – e nellemissione di scorie e inquinamento (dell’aria, della terra e dell’acqua).

Il cuore antropologico della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo. Il fenomeno si spiega da una parte con la logica stessa del sistema e dallaltra con uno strumento privilegiato della colonizzazione dellimmaginario, la pubblicità. E trova una spiegazione psicologica nel gioco del bisogno e del desiderio.

Per usare una metafora siamo diventati dei «tossicodipendenti » della crescita. Che ha molte forme, visto che alla bulimia dellacquisto – siamo tutti «turboconsumatori » – corrisponde il workaholism, la dipendenza dal lavoro.

Un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. Senza poter trovare il «significante perduto», si fissa sul potere, la ricchezza, il sesso o lamore, tutte cose la cui sete non conosce limiti. (...)

Anche per questo ci serve immaginare un nuovo modello. Economico ed esistenziale. Co la ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l’egoismo risultante da un individualismo di massa.

Uscire dalla società del consumo è dunque una necessità, ma il progetto iconoclasta di costruire una società di «frugale abbondanza» non può che suscitare obiezioni e scontrarsi con delle forme di resistenza, qualunque siano i corsi e i percorsi della decrescita. Innanzitutto, ci si chiederà, l’espressione stessa abbondanza frugale non è forse un ossimoro peggiore di quello giustamente denunciato dello sviluppo sostenibile?

Si può al massimo concepire ed accettare una «prosperità senza crescita», secondo la proposta dell’ex consigliere per lambiente del governo laburista, Tim Jackson, ma un’abbondanza nella frugalità è davvero eccessivo! In effetti, fintanto che si rimane chiusi nellimmaginario della crescita, non si può che vedervi un’insopportabile provocazione. Diversamente invece, se usciamo

da certe logiche, può risultare evidente che la frugalità è una condizione preliminare rispetto ad ogni forma di abbondanza. L’abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest’ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere allimmensa maggioranza di coprire le spese

di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all’opposto di questa logica, la società della descrescita si propone di fare la felicità dellumanità attraverso l’autolimitazione per poter raggiungere labbondanza frugale”.

Come ogni società umana, una società della decrescita dovrà sicuramente organizzare la produzione

della sua vita, cioè utilizzare in modo ragionevole le risorse del suo ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi. Ma lo farà un po’ come quelle «società dell’abbondanza » descritte dall’antropologo Marshall Salhins, che ignorano la logica viziosa della rarità, dei bisogni, del calcolo economico. Questi fondamenti immaginari dellistituzione dell’economia devono essere rimessi in discussione.

Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che «una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una depauperizzazione psicologica», uno stato d’insoddisfazione generalizzata, che definisce, egli afferma, «la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza». La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dellautonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: «Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi». Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La ritrovata frugalità permette precisamente di ricostruire una società dellabbondanza sulla base di ciò che Ivan Illich chiamava

«sussistenza moderna». Ovvero «il modo di vivere in un’economia post-industriale, allinterno della quale le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato, e ci sono arrivate proteggendo – attraverso strumenti politici – un’infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare valori d’uso non quantificati e non quantificabili da parte dei fabbricanti di bisogni professionisti ». La crescita del benessere è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio.

Molte di queste opzioni implicano un cambiamento della nostra attitudine anche rispetto alla natura. Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d’estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dellingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità suscettibile

di sviluppare un’attitudine di fedeltà e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un’obsolescenza programmata dellumanità.

(traduzione di Tessa Marzotto Caotorta)