Il Cantiere del Cipax: dal “diritto di rapina” al principio della destinazione universale dei beni
DOC-2420. ROMA-ADISTA. Non c’è strada più accidentata di quella che porta alla condivisione universale dei beni comuni: a descriverne gli innumerevoli ostacoli ci ha pensato Giovanni Franzoni, nell’ambito del Cantiere di Pace 2011-2012 promosso dal Cipax e da altre associazioni proprio sul tema “I beni comuni, via alla pace giusta”. Nell’incontro del 9 febbraio scorso, dedicato al principio della destinazione universale dei beni, Franzoni ha evidenziato come la titolarità dell'umanità nei confronti dei global common goods - quei beni cioè che non sono (ancora) oggetto di proprietà privata né ricadono sotto la sovranità di alcun soggetto, dall’Antartide ai fondali marini fino allo spazio intersatellitare e interplanetario - sia «appesa a un chiodo dipinto su una parete», dal momento che l’umanità come soggetto di diritto internazionale non esiste. Cosicché, ha spiegato Franzoni, nel vuoto lasciato dal diritto internazionale trova ancora spazio il principio del diritto romano “res nullius est primi occupantis”, la cosa che non è di alcuno è del primo che la occupa. Ed è in contrasto radicale con questa legge del primo arrivato, questo diritto fondato sulla rapina, che occorre, dal punto di vista religioso, riaffermare che «tutto il creato è di Dio ed è offerto a beneficio dell'umanità» e, dal punto di vista laico, rivendicare quell’eredità comune ricevuta dalla società nel campo della conoscenza: quell’insieme di saperi e di applicazioni scientifiche di altissimo livello derivante da un’evoluzione del pensiero il cui merito non può che essere dell’umanità tutta. Di seguito alcuni stralci dell’intervento di Franzoni, tratto da registrazione e non rivisto dall’autore. (c. f.)
L’EREDITÀ COMUNE DELLA CONOSCENZA UMANA
di Giovanni Franzoni
ADISTA n° 10 del 17.3.2012
La nostra riflessione sulla destinazione universale dei beni comuni prende avvio nel ’73, in occasione della preparazione del giubileo del ’75, che Paolo VI aveva annunciato citando lo shabat, il sabato dei sabati. Il sabato è un'obbligazione derivante da un patto sovrano, il berif, che vede il sovrano sottomettersi per primo agli obblighi imposti al popolo, perché Dio per primo osserva lo shabat, dal momento che, nel racconto della creazione, anche lui di sabato si riposò. Tale riposo ha un significato profondo: che il patto, l'alleanza tra Dio e il suo popolo (o, se vogliamo, tra Dio e l’umanità intera) non è un'imposizione unilaterale. (…). La sovranità di Dio si esprime in una forma in cui non ci si limita a chiedere fiducia ma la si offre.
Non intendo fare altro, in questa relazione, che ricordare, nel percorso che parte da quegli anni e arriva ad oggi, le evidenze su cui è possibile trovare consonanza e gli inciampi, le difficoltà, le contraddizioni presenti tanto in ambito ecclesiastico e religioso quanto in quello etico e in quello del diritto internazionale. (…).
Il primo inciampo è venuto da Paolo VI, il papa che mi ha punito, ma anche quello che ho amato di più, perché nei suoi tentennamenti, nelle sue contraddizioni, mostrava talvolta intuizioni illuminanti, come quando, nella Ecclesiam Suam, parlando del dialogo interreligioso o ecumenico, affermò che in un dialogo si ha, sì, qualcosa da dire, ma si ha anche molto da ascoltare: un’osservazione che a quel tempo schiudeva davvero orizzonti inediti. O come quando dichiarò che non esiste alcuna possibilità di pace se non si opera per la giustizia, perché altrimenti si scatenerebbe «la giusta ira dei popoli».
Però, nell’occasione a cui faccio ora riferimento, Paolo VI fece uno scivolone spaventoso: parlando dell'anno sabbatico nella Bibbia, disse: «tutto questo noi lo vivremo spiritualmente». Io sobbalzai: come, “spiritualmente”? La liberazione degli schiavi, il condono dei debiti, il riposo della terra non sono semplicemente metafore per dire che le nostre anime riposeranno, ci libereremo dai peccati, andremo a procacciarci indulgenze visitando le tombe degli apostoli.
Dopo il riferimento alla pratica sabbatica di Israele, con tutti i significati relativi ai valori profondi di questa magnanima sovranità di Dio, si ricadeva così nella pratica dei pellegrinaggi turistici, delle indulgenze, della remissione delle pene e via dicendo. Fu allora, nel 1973, che scrivemmo la lettera pastorale “La terra è di Dio”, documento che ebbe una certa risonanza e venne tradotto in molti Paesi. A Roma, all’epoca, c'era la speculazione edilizia e c’erano i baraccati (e ci sono ancora): il significato della parola “terra” era molto riduttivo, tant'è che, a trent’anni da quel documento, fu necessario fare un salto in avanti. Nel frattempo, infatti, si era svolto il Vertice della Terra di Rio de Janeiro e, da allora, “terra”, heretz, non era più solo il suolo da coltivare o al quale saremmo ritornati («polvere sei e polvere ritornerai»), il suolo per la vita, per la nascita, per la crescita, per la ricchezza, per la condivisione del dono, per la fiducia, per l’abbondanza, ma anche la biosfera, cioè l’aria, l'acqua, quell'insieme in cui la vita nasce, cresce, si sviluppa, comunica, si mette in relazione, si esprime nella fiducia e nel dono.
Ma nel ‘73 i cieli non comparivano ancora. È stato dopo l'ultimo giubileo, quello del 2000, che mi sono interessato alla scalata al potere nello spazio, quello che in inglese si chiama outer space: non lo spazio aereo o nazionale, ma quello intersatellitare in cui vengono collocati i satelliti per le telecomunicazioni, oppure i geostazionari, quelli fissi a 36.000 km con la stessa velocità angolare di rotazione del pianeta. Il conflitto sull’appartenenza di questa ricchezza ci spinse a scrivere che non solo “La terra è di Dio”, ma che “Anche il cielo è di Dio” (EdUP, 2000). Si tratta ovviamente di una metafora, perché i cieli di per sé non esistono: è quello che noi, dal punto di vista religioso, chiamiamo il “creato”. Tutto il creato è di Dio ed è offerto a beneficio dell'umanità.
In vari discorsi dei papi (forse in qualche momento di distrazione) ritorna ogni tanto l’espressione “destinazione universale dei beni” (un concetto presente anche nell’islam). Il destinatario è un'immagine mitica, adam, al quale Dio affida l’amministrazione di questi beni. Nella teologia scolastica cattolica, San Tommaso dice che i beni hanno una destinazione universale, ma che in statu naturae lapsae, cioè dopo il peccato originale, si è creata la divisione tra ricchi e poveri. I ricchi, tuttavia, devono essere consapevoli del fatto che non sono proprietari in senso assoluto, ma solo amministratori dei beni dei poveri. Quindi in teologia si studiava che, in presenza di uno stato di necessità (in occasione di un cataclisma o di una guerra, o in caso di fame), i beni tornano ad avere una destinazione universale.
Lutero traduce adam in tedesco con menschem, uomini: è tutta l'umanità ad essere rappresentata da Adamo. E nel Corano Adamo è califa, il vicario della sovranità di Dio nell'amministrazione dei beni. Dio ha amato tutti gli uomini, si dice nel Corano: se è vero che alcuni li ha amati di più e li ha resi ricchi, è anche vero che questi devono sapere di dover amministrare la ricchezza anche per i poveri. E quindi lo zaccat, l'elemosina, non è un beneficio, ma una tassa, qualcosa di dovuto.
In realtà, rispetto al patto, al berif, con il grande donatore, con Dio, ricchi e poveri continuano ad essere, rispettivamente, di serie A e di serie B. Questo è l’inciampo in cui mi sono continuamente imbattuto.
In un documento del Tom Paine Institute, che si occupa di beni comuni, si cita un brano del “Secondo trattato del governo” di John Locke, in cui si afferma che, quando un bene è incolto, quando non è praticamente di nessuno, è legittimo impadronirsene, “purché ne resti altrettanto e di uguale qualità per gli altri”. Chi sono gli altri? I sioux? Gli algonchini? Gli irochesi? E come si determinano la qualità e la quantità di terra restante?
(…) Se la ricchezza si va spostando sullo spazio e le grandi corporations che esercitano il controllo sulle orbite hanno il potere nelle proprie mani, che cosa resta agli altri?
Recentemente, è apparso, edito da Caracciolo, un fascicolo dal titolo accattivante: “Le mani sullo spazio”. Mi sono precipitato a leggerlo, mi ricordava “Le mani sulla città” di Rosi. Il sottotitolo era: “Di chi è la luna?”. Secondo tale documento, che cita una grande quantità di riviste statunitensi, sia militari che economiche, l’epicentro della ricchezza e del potere non si trova più sulla terra, ma si è trasferito nello spazio. Inoltre, si afferma che la Cina non intende lasciare l'egemonia dello spazio agli Stati Uniti e che l’Europa si farà vindice dei diritti dell’umanità in quanto tale. Si tratta, insomma, di una spartizione. (…). È il principio “primo arrivato, primo servito”, che riprende un antico principio del diritto romano, contenuto nelle Institutiones di Gaio: res nullius est primi occupantis, la cosa che non è di nessuno è del primo che la occupa. Un principio che era abbastanza legittimo, dal momento che il diritto romano non aveva la pretesa di essere un diritto universale e tantomeno il riflesso del diritto divino: quando Gaio lo esponeva, non pensava al berif, all'alleanza tra Dio e l'umanità. Quindi lo ius romanum era lo ius romanorum, un diritto che peraltro già aveva fatto grandi passi in avanti. In base allo ius romanum, infatti, un cittadino qualsiasi, di scarso potere e di scarsa pecunia, poteva anche vincere una causa contro un senatore. Magari non era facile, ma poteva farcela. Non era, però, un diritto universale: quando Roma invadeva un territorio e ne traeva schiavi, non riteneva di ledere un diritto.
SE L’UMANITÀ NON È SOGGETTO DI DIRITTO
Riccardo Petrella mi ha detto che a Bruxelles, quando si pone la questione di chi è la luna, di chi è lo spazio intersatellitare o interplanetario, di chi è l'Antartide e così via, ci si richiama a convenzioni che vietano magari di assumere la sovranità, ma non di fornire servizi e di farli pagare. Ho chiesto allora a Luigi Ferrajoli, che è titolare della cattedra di Filosofia del Diritto: «Ma l'umanità come soggetto di diritto internazionale che titolo ha nei confronti dei beni comuni?». E la sua risposta è stata: «L'umanità come soggetto di diritto internazionale non esiste, l’umanità non è un soggetto di diritto». (...).
Si vedrà quindi che la titolarità dell'umanità nei confronti dei beni del creato è appesa a un chiodo dipinto su una parete, perché non è rivendicabile. Non esiste nessun diritto se non esiste una corte presso cui fare ricorso e non esistono strumenti giuridici riconosciuti ed efficaci.
Quando ho telefonato a “Radio tre mondo”, dove era ospite proprio Caracciolo, chiedendo di intervenire, ho sentito che in sottofondo dicevano “Ah, quelli dei beni comuni!”, nel senso di “quegli illusi dei beni comuni”. E mi sono sentito deriso quando, a proposito della domanda “di chi è la luna?”, ho sostenuto che la luna è dell'umanità e che pertanto chi oggi è impegnato in progetti di turismo spaziale, di produzione di medicinali in particolari condizioni di microgravità, ecc. sta sfruttando dei beni comuni a scopo di lucro, sulle spalle di un'umanità che soffre ancora per malattie come la malaria, l’Aids e così via (non ho detto “la luna è di Dio” perché Caracciolo e l’Espresso non sono sensibili a questo discorso).
Se nella visione religiosa esiste la sovranità di Dio ed esiste una vicarìa umana (è l'organizzazione pratica che zoppica), dal punto di vista puramente laico, può valere la legge del primo arrivato? Ricorderò sempre l'ultima frase con cui Emmanuele Kant concluse il suo prezioso libretto Per la pace perpetua del 1795, al termine della sua carriera di filosofo logico, gnoseologico ed etico: «La giustizia è rappresentata come una nobile donna che tiene in mano una bilancia e una spada, ma ancora non sappiamo se quella spada sta lì per difendere la giustizia o per essere gettata su un piatto della bilancia che non si decide a scendere». Ricorderete tutti Brenno, il capo dei galli che getta la spada sulla bilancia (la leggenda narra che i romani, al momento di pagare il tributo di mille libbre d’oro imposto dai galli come condizione per togliere l’assedio a Roma, si accorsero che le bilance erano truccate e, alle loro rimostranze, Brenno, in gesto di sfida, aggiunse la sua spada alla bilancia pretendendo un maggiore peso d'oro e pronunciando la frase «Vae victis!», guai ai vinti!; ndr).
Alcuni giuristi americani si sono chiesti: dal momento che un cittadino che trova una vena aurifera o una falda di acqua minerale o un giacimento di petrolio è tenuto a versare il 3,75% allo Stato per lo sfruttamento di queste risorse, se noi sfruttassimo le orbite intersatellitari, se utilizzassimo i minerali estratti dalla luna, se trovassimo beni commercializzabili sul nostro satellite, a chi dovremmo pagare il 3,75%?
Una volta abbiamo discusso con uno di questi giuristi statunitensi che era venuto in Italia sul diritto dell'umanità in quanto tale nei confronti di questi global common goods: non solo, cioè, quei beni comuni sotto amministrazione nazionale o regionale - le acque lacustri, le spiagge, ecc. – ma quei beni che ancora non sono oggetto di proprietà privata né ricadono sotto la sovranità di alcun soggetto. Abbiamo discusso per un pomeriggio intero, in modo appassionato. E alla fine lui ha concluso: “Non vi illudete, non abbiamo alcun potere, abbiamo soltanto chiacchierato”. (…).
OLTRE IL CONCETTO DI SALVAGUARDIA
Ci sarebbe anche qualcosa da dire al Consiglio Ecumenico delle Chiese rispetto allo slogan “Giustizia, pace e salvaguardia del creato”. Il concetto di “salvaguardia del creato” mi sta bene in quanto cristiano, rimandando al concetto, proprio del mondo ebraico-cristiano-islamico, della sovranità di Dio. Ma tale concetto non è condiviso da tutte le religioni. Non appartiene per esempio a un buddista del Hinayana, per il quale le divinità, i Deva, sono inclusi nel samsara, il ciclo di nascite e morti ripetute da cui si aspira a liberarsi, attraverso la consapevolezza e la compassione, per disperdersi nel nirvana. E anche nell'induismo è difficile concepire l’idea che Brahma sia fuori dal mondo e che lo abbia creato affidandolo agli uomini. A Graz, all’Assemblea ecumenica europea nel 1997, riguardo alla proposta di una “Giornata della Creazione”, sottolineai come tale nozione di creato non sia così evidente e condivisa da tutti e come sia meglio parlare della vita nell'universo.
Ma, al di là di questo, il concetto di custodia del creato contenuto in questo slogan è conservativo, non dinamico: occorre andare oltre la salvaguardia, oltre la conservazione. Occorre ritornare a considerare che le risorse dell'universo hanno per titolari l'umanità e tutti gli esseri viventi in quanto tali, in modo che questa ricchezza venga fruita e si attui l'economia del dare e del far circolare. Deve quindi risultare che il peccato non consiste tanto nel mettere le mani nelle tasche di una persona per rubarle qualcosa, quanto nell'arrestare la circolazione dei beni. Il comandamento che nel canone buddista corrisponde al nostro “non rubare” prescrive di “non prendere il non dato”, supponendo cioè che i beni circolino. Ed è un concetto presente anche nel Vangelo, basti pensare alla parabola dell’uomo che, dopo un grande raccolto, progettava di ampliare i suoi magazzini non sapendo che sarebbe morto proprio quella notte. È una parabola un po' crudele, ma perfettamente buddista: se tu accumuli beni non fai che accumulare macerie sulla tua vita stessa.
I beni devono circolare per corrispondere in questo modo alla fiducia, all’obbedienza nei confronti di chi, se siamo credenti, chiamiamo Dio, ma che possiamo anche definire come il fuoco dell'universo o come le particelle elementari che oggi stiamo studiando o in molti altri modi ancora. L'anima del mondo, che sia immanente o che sia trascendente, deve per così dire essere anima, cioè dinamica. L'idea aristotelica di motore immobile è sublime ma impossibile: un motore non può essere immobile, deve muoversi per forza.
Vorrei concludere (…) riproponendo quello che già dicemmo in un convegno nel 2002 a proposito del credito delle popolazioni povere. Anziché limitarci a fare donazioni a queste popolazioni, restituiamo quello che abbiamo loro rubato con la scusa che in cambio offrivamo la democrazia, la libertà, la vera religione. (…).
Non dimentichiamo che è sorta anche un’Università del Bene Comune, guidata da Riccardo Petrella, il quale oggi sta portando avanti anche il discorso sulla conoscenza come bene comune e sulla questione dei brevetti. Anni fa, a proposito della titolarità dell'umanità sui global common goods, Susan George mi disse che le frequenze e le posizioni in orbita sono prodotti del genio umano, invenzioni, beni immateriali e quindi soggetti a brevetti. Io non sono d’accordo, perché le posizioni in orbita sono su campi gravitazionali: se non ci fosse un campo gravitazionale fra la terra e la luna, non ci sarebbe neanche la possibilità di creare l'orbita. La rotta in mare c’è perché c'è il mare, l'orbita nello spazio c'è perché c'è il campo gravitazionale. Quindi le “res” non sono “nullius”.
Occorre però sviluppare il versante laico, perché, quando diciamo “la terra è di Dio”, “lo spazio è di Dio”, “l’universo è di Dio”, ci viene fatto notare che mettiamo “sempre Dio di mezzo”. Bisogna esprimere lo stesso concetto in un linguaggio laico. Ed è possibile. Certi giuristi statunitensi parlano di “eredità comune”, in riferimento alla conoscenza. L'umanità nel corso dei secoli e dei millenni ha prodotto una quantità di conoscenze. Pensiamo ad esempio al passaggio dall’attività del raccogliere a quella del seminare. Chi ha inventato la seminagione? È stata una innovazione prodigiosa quella di prendere del cibo (perché le sementi sono cibo) e sotterrarlo e poi scavare un solco, coprirlo e difenderlo… Si tratta di grandi scoperte dell'umanità che nessuno - a parte i cinesi riguardo al baco da seta - ha brevettato. Un archeologo dell'agricoltura, Costantini, mi ha detto che nelle tavolette di Ebla in carattere cuneiforme sono catalogati oltre 100 tipi di cereali col tipo di terreno adatto per ciascuno. Questa è scienza, ed è un bene comune dell'umanità.
Quindi il brevetto dovrebbe essere discusso non soltanto dalle autorità che governano i brevetti e dalle ditte farmaceutiche o ingegneristiche che producono un determinato prodotto e poi lo vincolano per 20 anni. Bisognerebbe che anche l'umanità avesse voce in capitolo sulla durata di un brevetto. È giusto che una ditta farmaceutica rientri delle spese per la ricerca, ma non è giusto che trattenga il principio attivo di un medicinale per oltre 20 anni a spese dell'umanità, la quale avrebbe titolo per accedere all'utilizzo di questo bene comune che è la scienza.
Occorre quindi smetterla di chiacchierare sui poveri, sulla miseria, sulle guere che dividono il mondo e cominciare a lavorare sul serio: chi è credente perché al servizio del Creatore, chi è laico per la vita dell'umanità e di tutti gli altri esseri viventi.