ADISTA n° 4 del 21.1.2012
DOC-2406. BOGOTÀ-ADISTA. Che il dialogo interreligioso sia indispensabile ed urgente, sono gli stessi fatti a dimostrarlo. Ma certo non si può dire che sia un’impresa facile ed esente da rischi, come riconosce proprio uno dei massimi rappresentanti della Teologia del pluralismo religioso, il teologo statunitense Paul Knitter, docente dello Union Theological Seminary di New York, invitato dalla Pontificia Università Saveriana di Bogotà, alla fine dello scorso agosto, a illustrare il tema della necessità del dialogo e delle opportunità che esso offre ai cristiani.(…)
Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, ampi stralci delle prime due sessioni del laboratorio (rimandando, per il tema della terza sessione, quello del libro di Knitter Senza Buddha non potrei essere cristiano, alla recensione che di questo libro, pubblicato recentemente dalla casa editrice Fazi, Adista ha offerto sul n. 52/2011. Tutti i materiali della conferenza e del laboratorio possono in ogni caso essere letti in spagnolo, in versione integrale, all’indirizzo www.servicioskoinonia.org/relat/416.htm). (claudia fanti)
di Paul Knitter
LA SFIDA DEL DIALOGO: FEDELTÀ E APERTURA
(…). Il vero dialogo interreligioso non è facile. Può diventare persino pericoloso. Se intendiamo il dialogo come qualcosa di più di una semplice banale chiacchierata in cui parliamo soprattutto per essere gentili con gli altri e di più di un semplice scambio di informazioni perché ci si possa intendere meglio, se il dialogo è una vera conversazione in cui ciascuna delle parti cerca di persuadere l’altra della verità e del valore di ciò in cui crede e in cui allo stesso tempo è pronta ad essere persuasa da ciò che l’altra considera certo e valido, allora questo dialogo presenterà esigenze tanto difficili quanto rischiose. Il dialogo è un movimento complesso di “tanto-quanto”: tanto parlare quanto ascoltare, tanto insegnare quanto apprendere, tanto avere le idee chiare quanto mettere in discussione, tanto mostrare fermezza quanto rivelare flessibilità.
Tutti questi binomi possono essere riassunti nella polarità di impegno e apertura. In un vero dialogo religioso (in realtà, in qualunque conversazione in cui le persone esprimono punti di vista distinti), si deve essere saldi in ciò in cui si crede, convinti del fatto che ciò che è stato certo e buono per uno possa esserlo per altri: ciò permette che si abbia qualcosa con cui contribuire al dialogo. E tuttavia, se la conversazione è a doppio senso, se è garantita “uguaglianza di diritti” a tutti i partecipanti al dialogo, allora si deve anche essere aperti ad ascoltare e possibilmente ad apprendere dai nostri compagni di dialogo. E “apprendere” può significare cambiare il nostro punto di vista e ammettere gli errori.
Per i cristiani, ciò significa dover essere completamente impegnati con Cristo e con il suo Vangelo e, al tempo stesso, essere realmente aperti a ciò che Dio possa tentare di dirci attraverso altre religioni. Ciononostante, per la maggior parte dei cristiani questo rappresenta qualcosa di nuovo, qualcosa forse di sconcertante o minaccioso. (…). Non sarà come chiedere a una persona sposata di mantenere la fedeltà di coppia e allo stesso tempo di essere aperta ad altre potenziali relazioni? L’apertura verso altre religioni potrebbe condurre i cristiani in dialogo a sminuire o anche a perdere la propria lealtà nei confronti di Cristo e del Vangelo.
Se qualcosa è difficile o pericoloso non significa che non sia necessario. E per molti - sempre di più, pare - il dialogo con persone di altri credo, malgrado complessità e rischi, continua ad essere un imperativo etico. (…). Tale genere di dialogo richiede un complicato equilibrio tra fedeltà e apertura. Possono raggiungerlo i cristiani?
Ebbene, noi cristiani, credo, non abbiamo i mezzi per realizzare tale equilibrio in un vero dialogo religioso. Non abbiamo, cioè, gli strumenti teologici. (…). Nelle parole di Jacques Dupuis, uno dei teologi cristiani delle religioni più esperti ed attenti, questo tipo di teologia nutrita dal dialogo richiederà un “cambiamento qualitativo” nel modo in cui i cristiani intendono altre religioni. Ma questo cambiamento non si è ancora verificato. Allora, una teologia cristiana delle religioni che possa sostenere un dialogo cristiano con le religioni è un “lavoro in corso”.
Così, vorrei presentare una breve e rapida rassegna delle teologie delle religioni contemporanee. Ciò rivelerà, spero, dove si è avanzato e dove è necessario avanzare.
Le attuali teologie cristiane delle religioni
Classificare è sempre rischioso. Far sì che le cose entrino in categorie ben definite a volte significa farle entrare a forza (o lasciare da parte quelle che non entrano). Malgrado ciò, in uno sforzo per dare un po’ d’ordine alla gamma degli attuali atteggiamenti cristiani nei confronti di altre religioni, mi si permetta di offrire una serie di categorie o modelli che coprono, credo, la maggior parte dell’ambito teologico. La maggioranza dei teologi cristiani che si occupano di altre religioni si muovono tra questi modelli ma ciascuno passa più tempo all’interno di uno che all’interno degli altri. (…).
Il Modello di Sostituzione
Per i cristiani che seguono questo modello, il miglior modo di relazionarsi con le persone di altre religioni è quello di condividere con esse la Buona Novella di Gesù e sperare che ciò le conduca a diventare parte della comunità di seguaci di Gesù. Questo atteggiamento può essere individuato soprattutto nelle Chiese fondamentaliste ed evangeliche, per quanto buona parte della loro teologia sia stata elaborata, potentemente e profeticamente, da Karl Barth. Per questi cristiani, esistono certi punti, dati a conoscere dalla rivelazione di Dio attraverso Gesù, che semplicemente non sono negoziabili. Tra questi, l’annuncio a tutto il mondo che Dio ha offerto la speranza e la possibilità di benessere (salvezza) attraverso la vita, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Lì e in nessun’altra parte. Come è enunciato chiaramente in 1 Tim 2,4-5, Dio realmente non discrimina nel suo amore e «vuole che tutti si salvino», ma questo Dio offre tale amore salvifico attraverso l’«unico mediatore tra Dio e gli esseri umani: Cristo Gesù». Ciò significa che in altre religioni potremmo incontrare molte domande valide, anche necessarie, su come gli esseri umani possano organizzarsi, ma la vera, effettiva e unica risposta è data nel messaggio e nella persona di Gesù. Per quanto i cristiani possano amare le persone di altre religioni e cercare di parlare con loro, essi riveleranno il loro amore nel tentativo di sostituire la fede e le pratiche religiose precedenti con il battesimo alla vita e alla pratica cristiane. (…).
Ma come si può essere aperti alla possibilità di apprendere da altri quando già si possiede la totalità della verità di Dio? Come si può cooperare realmente con altre religioni cercando di risolvere i problemi etici globali del presente quando si è convinti che l’unica soluzione sia stata già data in Gesù? Senza dubbio, i cristiani legati a questo modello di sostituzione non vedono la necessità del dialogo e non provano inquietudine ad annunciare ai buddisti o ai musulmani che non possono essere salvati senza abbracciare Gesù.
Il Modello di Compimento
Questo modello ha assunto chiara visibilità, soprattutto per i cattolici, ma anche per i protestanti, quando il Concilio Vaticano II ha cercato di preparare il terreno teologico per un atteggiamento più positivo nei confronti dei membri di altre religioni e, per questo, verso un vero dialogo con essi. Per la prima volta nella sua storia, la Chiesa cattolica, in annunci formali e ufficiali, ha riconosciuto pubblicamente che esistono molte cose «certe e sacre» in altre religioni, che queste religioni contengono «preziosi elementi religiosi e umani... elementi di verità e grazia» che Dio sta rivelando e forse offrendo per la salvezza attraverso di esse, e che di conseguenza i cristiani sono «esortati... con prudenza e carità... a dialogare e a collaborare» con queste religioni. Ciò che ha fatto irruzione nel Vaticano II è stato in gran misura appoggiato e sviluppato dalle Chiese protestanti denominate “di linea tradizionale”, diventando un elemento di consenso: che, cioè, il Dio rivelato da Gesù non può essere confinato nelle Chiese cristiane.
Ma, per questo modello, qual è lo scopo definitivo del dialogo? La risposta è determinata dallo stesso punto non negoziabile che guida il modello di sostituzione: Gesù come unico e vero Salvatore. Per quanto i rappresentanti di questo modello di compimento riconoscano che gli effetti della morte e della resurrezione di Gesù operano realmente al di fuori della Chiesa, all’interno e attraverso altre religioni (in maniera cosmica o anonima), essi insistono sul fatto che (…) è solo in Gesù che la verità di Dio è completamente, finalmente e insuperabilmente rivelata. (…). In Gesù e nella sua Chiesa, tutta la verità, il valore e la bellezza di altre religioni possono trovare il loro compimento. Come esprime il Concilio Vaticano II, «quello che c’è di buono e di vero in esse, la Chiesa lo considera come una preparazione al Vangelo».
Con questo modello, come possono equilibrarsi fedeltà e apertura? Come avviene con il modello di sostituzione, tale atteggiamento si inclina pesantemente verso la fedeltà e, allo stesso tempo, offre possibilità per una maggiore apertura affermando enfaticamente la presenza attiva di Dio in altre religioni. Tuttavia, è sufficiente questa apertura ai fini di una conversazione in cui entrambe le parti possano realmente non solo parlare ma anche apprendere? Se il valore di Buddha è possibile solo attraverso Gesù, se noi cristiani disponiamo della Parola di Dio completa e definitiva, se pertanto qualunque verità che possa essere trovata nell’induismo deve essere già presente nella rivelazione cristiana... quanto possono i cristiani realmente apprendere dal dialogo? Quanto si può aggiungere a ciò che è già «completo e definitivo»?
Il Modello di Reciprocità
I portavoce di questo modello cercano di colmare le lacune in termini di apertura presenti negli altri modelli. A loro giudizio, quello che non è negoziabile è aperto ancora a nuove interpretazioni. E così essi argomentano che, in questa era segnata dall’urgenza di un dialogo, si può intendere la testimonianza del Nuovo Testamento e della tradizione cristiana in modo tale che i cristiani possano proclamare Gesù come vero Salvatore del mondo (punto non negoziabile), ma non come unico Salvatore del mondo.
In altre parole, il ruolo salvifico di Gesù continua ad essere universale, cioè diretto a tutte le persone, non solo ai cristiani; ma questo ruolo non è esaustivo rispetto al disegno di Dio nel mondo. Pertanto, allo stesso modo in cui i cristiani devono continuare ad annunciare che Gesù e il suo messaggio sono necessari perché l’umanità comprenda e viva ciò che Dio vuole per il bene della creazione, anche altre figure o rivelazioni religiose potrebbero essere ugualmente necessarie (“potrebbero”, perché è solo attraverso il dialogo che essi possono scoprirlo). Ciò non vuol dire che non esistano differenze tra le religioni o che tutte stiano essenzialmente esprimendo le stesse cose, o che ogni fede religiosa sia ugualmente valida o efficace per rivelare la verità di Dio. Le differenze tra le religioni sono reali, spesso radicali, ed hanno sì importanza. Le differenze costituiscono la materia del dialogo.
È chiaro che esiste una grande apertura in questo modello. (…). Sembrerebbe che l’apertura abbia superato la fedeltà. Se molte figure religiose possono esprimere messaggi universalmente rilevanti e ugualmente validi, Gesù non finisce per essere “uno del mucchio”, uno dei tanti salvatori? È ciò realmente congruente con tutto il messaggio del Nuovo Testamento che attribuisce a Gesù una qualità speciale che non si può incontrare in nessun altro? È coerente con la fede espressa dal Nuovo Testamento e nel corso della storia cristiana che Gesù è “Figlio di Dio” in un modo diverso da quello in cui lo siamo tutti e tutte? E, se Dio salva in molti modi, perché dovrei sceglierne uno anziché un altro? (…).
Potremmo anche chiedere ai rappresentanti del modello di reciprocità se sono tanto aperti nei confronti delle altre religioni come essi ritengono. Se realmente crediamo che qualcosa è vero, se questa verità influisce su tutta la nostra vita, non influirà anche su quello che vediamo in altre religioni? (…). Giudicheremo che qualcosa è vero e buono in un’altra religione perché riflette o si relaziona con la nostra stessa verità e bontà. Se non lo fa, riterremo che è falso o maligno. Quanta apertura c’è, realmente?
Il Modello di Accettazione
(…) Influenzati dalla cosiddetta coscienza postmoderna (…), i rappresentanti di questo modello accettano il fatto che tutti viviamo nei nostri mondi culturali, che questi mondi influenzano il modo in cui vediamo tutto il resto e che i molti mondi culturali-religiosi che conformano l’umanità sono molto, molto diversi tra loro. Di fatto, sono così diversi che in realtà non è possibile “misurarne” uno a partire dalla prospettiva di un altro: ogni mondo o religione è incommensurabile rispetto agli altri. (…). Le religioni stanno cercando non la salvezza ma le salvezze, ciascuna seguendo il proprio cammino verso la propria destinazione finale, tanto in questo mondo come nel prossimo. Ciò significa, detto più chiaramente, che praticamente tutti abbiamo i nostri punti “non negoziabili”: tutti abbiamo i nostri assoluti o verità complete e finali, e non possiamo giudicarne una alla luce delle altre. Tentare di farlo ci porterà a distorcere l’altra per conformarla alla nostra o a ridurre la propria per lasciare spazio all’altra.
Allora, questo modello invita i cristiani e tutte le persone religiose ad accettare semplicemente le altre religioni. A lasciarle in pace. Ad essere buoni vicini, ma restandosene ciascuno nel proprio orticello. (…). Il dialogo è, e deve essere, una sorta di santa competizione, in cui tutti presentano le proprie verità non negoziabili nel modo più chiaro e cordiale possibile, con la speranza che prevalga la verità più profonda o superiore.
Sembrerebbe che questo modello di accettazione raggiunga un equilibrio preciso tra fedeltà e apertura, riconoscendo che tutte le religioni hanno le proprie affermazioni di verità assolute o non negoziabili ed esortandole a rispettarsi mutuamente. Ma ci si potrebbe domandare: questa comprensione del pluralismo religioso (…) arriva da qualche parte? Sembra che le religioni siano in realtà confinate nei propri orticelli, ciascuna saldamente impegnata con la propria verità. Ma, forse, troppo saldamente. (…). Per quanto ogni religione sia aperta e accetti le differenze e le affermazioni assolute di altre religioni, questa accettazione non finisce per diventare semplice tolleranza anziché un dialogo in cui entrambe le parti siano pronte non solo a difendere ma anche a criticare la propria posizione? Possono le religioni realmente cercare insieme la verità e la cooperazione quando avanzano in diverse direzioni, verso diverse “salvezze”?
La teologia cristiana delle religioni: un lavoro in corso
Verso dove ci volgiamo partendo da qui? Sembrerebbe che nessuno di questi modelli, per sé soli, realizzi il lavoro perfetto di aiutare i cristiani a raggiungere la convergenza necessaria tra fedeltà e apertura per rispondere all’imperativo del dialogo. Come già espresso, la teologia delle religioni e il dialogo rappresentano un lavoro in corso. I teologi cristiani, a partire da non importa quale “modello”, devono continuare a conversare con tutti. E se possono farlo impiegando queste due “lanterne ermeneutiche” – mirando a una teologia delle religioni che possa promuovere tanto la fedeltà a Cristo quanto l’apertura agli altri – confido nel fatto che potranno realizzare una teologia che dia luogo a una spiritualità cristiana più soddisfacente, a un dialogo più effettivo con gli altri e ad un più avanzato processo di guarigione per il nostro mondo.
VERSO UNA NUOVA TEOLOGIA CRISTIANA DELLE RELIGIONI CHE SIA PLURALISTA E LIBERATRICE
(…) Bene, se nessuno di questi modelli è perfetto, mi piacerebbe esporre (…) la ragione per cui uno di essi realizza un lavoro migliore degli altri per ciò che riguarda il dialogo. Sto parlando del “Modello di Reciprocità” o, come è generalmente chiamato, del “Modello Pluralista”.
Una delle più forti critiche a questo modello - una critica che viene specialmente da Benedetto XVI – è che esso non può essere considerato come un’opzione valida per un cristiano. Come cattolico praticante e come teologo cattolico che cerca di restare fedele alle proprie responsabilità, mi piacerebbe stabilire rispettosamente un dialogo con il papa e con altri teologi cristiani sulla ragione per cui credo che si possa essere buoni cristiani e buono cattolici e, al tempo stesso, buoni pluralisti.
Ma vorrei anche mostrare come questa compatibilità tra l’essere buoni cristiani e l’essere buoni pluralisti possa intendersi e realizzarsi meglio quando teniamo presente che per essere l’una e l’altra cosa si debba anche essere impegnati a favore della liberazione socio-economica. Per essere un cristiano fedele e un seguace di Gesù, bisogna anche essere coinvolti in un processo di liberazione. E per portare avanti un dialogo veramente pluralista tra le religioni, un dialogo che risulti significativo per il mondo attuale, è necessario anche l’impegno per la liberazione. (…).
Definendo i termini della questione
(…) La mia tesi è semplice: si può essere al tempo stesso cristiani e pluralisti. (…). Essenzialmente, i termini della mia tesi sono due: “cristiano” e “pluralista”.
A. Cosa è necessario per essere cristiani/e?
Vorrei suggerire che esistono almeno quattro caratteristiche che devono segnare la vita di qualunque persona che si definisca cristiana:
1. Orto-prassica: La prima - anche se certamente non l’unica - caratteristica determinante di un modo di vita cristiano ha a che vedere con l’ortoprassi. L’identità cristiana è, prima di tutto, una questione di “agire correttamente”. Esistono altri tratti necessari in un cristiano, ma questo li precede. La realtà della fede cristiana si mantiene o collassa a causa principalmente del modo in cui operiamo, non di qualunque cosa si possa dire o credere (per quanto la fede sia anch’essa essenziale). “Sapranno che siamo cristiani” non dal nostro credo ma dal nostro amore. Quello che è più importante per l’identità e l’integrità cristiana non è la confessione, ma il discepolato, non il sapere ma il fare.
Malgrado ciò, voglio che sia chiaro che la conoscenza, per quanto il suo compito sia subordinato all’azione, svolge un ruolo assolutamente essenziale nell’identità cristiana. Ciò conduce alla seconda caratteristica dell’essere cristiani.
2. Cristomorfica: Una prassi, o una maniera di agire e di essere nel mondo, è cristiana se è cristomorfica, formata, modellata, guidata dalla visione del Vangelo e dalla presenza reale di Gesù Cristo risuscitato. Ciò che Gesù ha predicato, chi è stato Gesù – così come è stato compreso dalla prima comunità dei suoi seguaci e documentato nel Nuovo Testamento – fornisce le norme per il modo in cui i cristiani cercano di agire e di trasformare questo mondo.
Questa prassi cristomorfica è basata sulle affermazioni di verità cristologiche, affermazioni plasmate nella dottrina cristiana riguardo a Gesù come Figlio di Dio e Salvatore del mondo. La fede cristiana relativa al fatto che condurre una vita simile a quella di Cristo in questo mondo risulti significativo e imperativo è basata sull’affermazione che Gesù è realmente Figlio di Dio e Salvatore del mondo: realtà e rivelazione stessa del modo in cui Dio vuole essere presente nel mondo e condurlo alla salvezza. Pertanto, i cristiani sono persone che non solo agiscono come Cristo, ma fanno anche abbondanti affermazioni su chi Egli è stato ed è.
3. Biblica: Per essere cristiani, c’è bisogno che la nostra comprensione di chi sia questo Gesù di Nazareth provenga dalla testimonianza della prima comunità di seguaci contenuta nel canone del Nuovo Testamento. I cristiani sono essenzialmente persone bibliche. Credere in qualcosa che contraddice chiaramente la testimonianza del Nuovo Testamento annullerebbe la nostra appartenenza alla comunità cristiana. Ma devo aggiungere che per seguire il messaggio di Gesù nel Nuovo Testamento, è necessario chiedersi non solo “ciò che il testo ha significato”, ma anche “ciò che il testo significa nel presente/nell’attualità”. La parola biblica di Dio, a mio parere, non deve essere solo letta; deve essere interpretata. (…).
4. Kerigmatica: (…) La verità e la presenza salvifica di Gesù Cristo non possono mai essere una verità “per me” o “per noi”. Sono anche una verità per gli altri, per tutte le persone di tutte le epoche. Una verità che deve essere condivisa, comunicata, proclamata. I cristiani, in altre parole, sono essenzialmente missionari. (…).
B. Che significa “essere pluralisti”?
Permettetemi di menzionare tre caratteristiche che definiscono il punto di vista di chi possiede quella che viene chiamata una prospettiva pluralista della diversità religiosa:
1. I pluralisti affermano che la diversità delle religioni non è semplicemente de facto (il modo di essere delle cose), ma de jure (il modo in cui devono essere). Un pluralista è chi è giunto alla conclusione che la pluralità o diversità delle religioni non scomparirà. (…). Teologicamente parlando, i pluralisti affermano che la molteplicità delle religioni è “volontà di Dio”, cioè qualcosa che fa parte dell’economia della salvezza.
2. (…) La principale preoccupazione dei pluralisti non è il pluralismo. Non si tratta semplicemente di riconoscere e preservare la diversità delle religioni. Si tratta di promuovere la reciprocità delle religioni (…). Ciò significa che i pluralisti sono impegnati non semplicemente con la diversità delle religioni, ma con il dialogo tra di esse. Riconoscono il pluralismo per promuovere così il dialogo. Il dialogo è il frutto atteso e cercato del pluralismo. I pluralisti, si potrebbe dire, ritengono che il dialogo sia un imperativo etico. Un dialogo autentico, che dà vita e costruisce giustizia tra le religioni (e tra le nazioni), è una forma di summum bonum etico, un “bene maggiore” che deve essere perseguito. Qualunque cosa impedisca questo dialogo è sospetta.
3. I pluralisti riconoscono il carattere relativo di tutte le affermazioni di verità. (…). Ciò non significa che, ontologicamente, neghino la realtà della “verità assoluta”. Semplicemente nutrono dubbi inestricabili riguardo al fatto che la verità assoluta possa essere articolata e intesa in maniera assoluta dagli esseri umani. Teniamo presente che la relatività delle affermazioni di verità non significa relativismo. Solo perché risulta impossibile conoscere “la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità”, non significa che non si possa affermare la “vera verità, la verità vincolante, la verità per cui siamo pronti a dare la nostra vita”. O, affrontando la stessa questione da un’altra angolatura, proporre che molte religioni siano vere non significa che tutte le religioni siano vere. “Molte” non significa “tutte”. E aggiungo che, per molti pluralisti (come John Hick ed io), il criterio per discriminare “molte” da “tutte” è principalmente (anche se non esclusivamente) questione di ortoprassi e non di ortodossia, di etica e non di dottrina.
Ragioni per cui i cristiani possono essere pluralisti
(…) L’ortoprassi richiede che Gesù sia veramente Figlio di Dio e Salvatore, ma non l’unico Figlio di Dio e Salvatore
(…). Usando l’analogia del matrimonio, per prendere la decisione di sposarci con qualcuno dobbiamo avere la certezza che possieda veramente le virtù dell’onestà, dell’integrità, della bontà, ecc. che sentiamo essenziali per una relazione impegnativa, ma non dobbiamo credere che lui o lei siano l’unico uomo o l’unica donna a possedere tali virtù, l’unica possibile persona con cui potremmo sposarci.
Ritengo possibile – credo che questa sia oggi una sfida centrale per l’identità cristiana – che noi cristiani si sia completamente impegnati con Gesù e con il Vangelo e allo stesso tempo veramente aperti a ciò che lo Spirito possa rivelarci mediante le altre comunità religiose del mondo. Dobbiamo capire come un’apertura genuina allo Spirito universale non ponga in rischio il nostro impegno personale totale con il Verbo incarnato in Gesù (allo stesso modo in cui la completa divinità dello Spirito non mina la completa divinità del Figlio nella vita della Trinità).
Uno degli strumenti più promettenti per sviluppare questa comprensione di Gesù Cristo come vero ma non necessariamente unico Salvatore può essere individuato in quella che è stata chiamata “teologia pneumatologica delle religioni”. (…). Una teologia dello Spirito, che opera in altre religioni in un modo genuinamente distinto dall’attività del Verbo Incarnato nel cristianesimo, è il punto di partenza e la base su cui, come passo successivo, il ruolo di Gesù Cristo può essere inteso. (…). Tale sforzo, considero, può liberare la teologia cristiana dall’antica subordinazione dell’attività universale dello Spirito all’attività particolare del Verbo incarnato in Gesù Cristo.
Gesù è regnocentrico, non cristocentrico
Tra gli studiosi contemporanei del Nuovo Testamento, si accetta in generale il fatto che il centro del messaggio di Gesù, il nucleo del suo impegno e il fine da lui perseguito sia stato il Regno di Dio, Basileia tou Theou. In altre parole, una cristologia biblica non necessariamente colloca Gesù al centro di tutto, perché Gesù stesso non si è collocato al centro. Come afferma Jon Sobrino, Gesù non fu ecclesiocentrico, né cristocentrico. Potrebbe persino dirsi, strettamente parlando, che neppure fu teocentrico. Egli fu “basileiocentrico” .
Ciò che più gli importava non era che tutti si unissero alla sua comunità o che tutti cantassero le sue lodi, neppure che tutti riconoscessero il Padre. Per quanto queste cose siano di grande importanza, per Gesù quello che contava di più era che le persone credessero nel Regno di Dio e lavorassero per esso. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21), cioè coloro che alimentano l’affamato, vestono l’ignudo, visitano il progioniero..., per quanto non conoscano Gesù, faranno parte della Basileia (Mt 25,31-46).
Allora, credo che i cristiani, con Gesù, possano riconoscere la validità di qualunque persona o di qualunque religione che contribuiscano a quello che per Gesù era il Regno di Dio, un mondo di reciprocità, dignità e giustizia per tutti. (…).
Il linguaggio esclusivista del Nuovo Testamento è confessionale, non ontologico
Ma che succede con tutto quel linguaggio della Bibbia che pone Gesù al centro, con l’apparente esclusione di tutti gli altri: «Non c’è altro nome» (At 4,12)... «uno solo il mediatore» (1Tim 2,5)... «il Figlio unigenito» (Gv 1,18)... «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6)? (...). Dobbiamo prendere sul serio questo linguaggio. Il che significa, come ho suggerito prima, che dobbiamo interrogarci non solo su “quello che ha voluto dire” ma anche su “quello che vuole dire”.
L’erudito del Nuovo Testamento che più mi ha aiutato a chiarire ciò che tutto il linguaggio esclusivista biblico esprime per noi oggi è Krister Stendahl, il quale ha indicato che questo discorso su Gesù come “l’unico” è essenzialmente confessionale, non filosofico o ontologico. Egli lo ha definito, in modo più personale, «linguaggio d’amore». I primi seguaci di Gesù parlavano del Gesù di cui erano innamorati, che aveva trasformato le loro vite, che essi volevano fosse conosciuto da altri. Le persone innamorate (…) impiegano naturalmente un linguaggio superlativo: «sei il più bello, il più adorabile, l’unico».
Questo tipo di linguaggio è esclusivista per il fatto di essere superlativo! L’intenzione (…) di questo tipo di linguaggio è di dire qualcosa di positivo su Gesù, non qualcosa di negativo su Buddha. Facciamo un uso scorretto di questo linguaggio quando lo usiamo per ridimensionare o escludere Buddha o Maometto. (…).
Il kerigma è universale, non escludente
Il kerigma che noi missionari cristiani dobbiamo annunciare al mondo è necessariamente universale, ma non necessariamente escludente. (…).
Di fatto, oltre a proclamare, dobbiamo anche ascoltare. Ascoltare è un compito essenziale del lavoro del missionario. I missionari sono quelle persone della comunità cristiana che partono per insegnare ad altri riguardo a Gesù e al Regno e così convertirli a questo Regno (non necessariamente alla comunità cristiana). Ma i missionari sono anche persone che partono per ascoltare e apprendere in modo da arricchire la comunità cristiana.
In ciò che sto suggerendo è implicita l’idea che in realtà esistono due tipi di kerigma con cui i missionari si relazionano: il kerigma del Logos incarnato e il kerigma dello Pneuma universale (…). I missionari proclamano il primo e ricevono il secondo. I due tipi di kerigma, allo stesso modo che la seconda e la terza persona della Trinità, sono realmente diversi l’uno dall’altro, ma sono essenzialmente relazionati tra loro. Nelle loro differenze e nelle loro coincidenze sono complementari. Gli antichi teologi cristiani chiamarono questo arricchimento mutuo perichoresis - ballare insieme -. I missionari “ballano” tra le loro responsabilità duali di proclamare e di ascoltare. E attraverso questo ballo, tanto la Basileia dello Spirito come l’Ekklesia di Cristo si trasformano in grandi realtà del nostro mondo.
Un cristiano non solo può, ma deve essere pluralista
La mia conclusione, pertanto, è che i cristiani non soltanto possono essere pluralisti, ma devono esserlo. Per essere fedeli al Vangelo, alla testimonianza del Nuovo Testamento, alle implicazioni della nostra fede cristiana in un Dio che è trinitario, noi cristiani abbiamo una sfida e una missione duali: essere impegnati con Gesù particolare ed essere aperti allo Spirito universale.
Questa è la ragione per cui la definizione di Gesù data da John Cobb ha influito su di me in modo tanto potente, intellettualmente come teologo e spiritualmente come credente cristiano: Gesù è il cammino aperto ad altri cammini.
Quando Gesù disse «Io sono la via… Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14, 5-7), credo che volesse dire questo.