LA DECRESCITA: LE RAGIONI DELLA QUALITÀ

 

di Maurizio Pallante

 

ADISTA documenti n°39 del 3/11

 

Innanzitutto, sgombriamo il campo da un equivoco: decrescita non significa sobrietà. Cercherò di spiegare più avanti perché e come vada intesa, in termini più rigorosi, la decrescita. Per il momento, vorrei rimarcare che il dibattito attuale attorno alla crisi parte dalla convinzione – lo dicono tutti – che bisogna rilanciare la crescita per far aumentare l’occupazione. A me piacerebbe sapere sulla base di quali dati si ritiene che la crescita economica comporti una crescita dell’occupazione. Dal 1960 in avanti il numero degli occupati in Italia è stato intorno ai 22 milioni di unità. Il prodotto interno lordo, dal 1960 alla fine del secolo, è cresciuto del 360%. Quindi la crescita del Pil non ha portato nessun aumento dell’occupazione e anzi, poiché la popolazione è aumentata da 48 a 60 milioni di abitanti, il numero degli occupati, rispetto alla popolazione totale, è diminuito.

Perché? La risposta è abbastanza semplice: in un’economia finalizzata alla crescita del prodotto interno lordo, le aziende devono farsi concorrenza investendo in tecnologie sempre più performanti che consentono, in una data unità di tempo, a sempre meno persone di produrre sempre più cose. Pertanto noi abbiamo avuto, contestualmente, un aumento della produzione, un aumento della produttività e una diminuzione dell’occupazione. Ora, considerando che la crescita non crea occupazione, qualcuno potrebbe supporre che la decrescita abbia effetti ancora peggiori, cioè che provochi un vero e proprio disastro dal punto di vista occupazionale. Noi riteniamo, al contrario, che la decrescita sia l’unica maniera di creare occupazione. Ma per chiarire in che modo riesca a farlo, è necessario prima capire cos’è la decrescita. E per capire cos’è la decrescita bisogna prima capire cos’è la crescita.

DISTINGUERE LE MERCI DAI BENI

Tutti quanti ci dicono che la crescita misura la quantità dei beni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da un dato sistema economico e produttivo nel corso di un anno. In realtà, l’indicatore della crescita, il Prodotto Interno Lordo, è un indicatore monetario e, come tale, può prendere in considerazione soltanto gli oggetti e i servizi che vengono scambiati con denaro. Ma gli oggetti e i servizi che vengono scambiati con denaro non sono i beni, sono le merci. Occorre quindi, innanzitutto, ripristinare la distinzione concettuale fra bene e merce. Le merci sono oggetti e servizi che si comprano e si vendono. I beni sono oggetti o servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio. Non tutte le merci sono beni, cioè non tutte le cose che compriamo rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio, né tutti i beni devono necessariamente passare sotto la forma di merci, cioè non tutti gli oggetti e servizi che rispondono a un bisogno e soddisfano un desiderio devono essere necessariamente comprati. Diciamo che ci sono in realtà almeno quattro possibilità, che enumererò per completezza di discussione.

Ci sono innanzitutto delle merci che non hanno nessuna utilità, cioè che non rispondono ad alcun bisogno. E ciò in base a criteri oggettivi, non soggettivi. Il 2% del nostro Pil, ad esempio, è cibo che si butta. Il cibo che si butta non è sicuramente un bene perché non risponde ad alcun bisogno. Va semplicemente ad aggravare il problema dei rifiuti e, anzi, di quella parte dei rifiuti che implica una gestione più complicata, la parte putrescibile. Se noi diventassimo saggi come i nostri nonni e non buttassimo più del cibo, il nostro Pil diminuirebbe del 2%. Immaginate cosa significherebbe per le coronarie del presidente della Repubblica, del presidente del Consiglio, dell’ex presidente del Consiglio e di tutti quanti i rappresentanti politici della destra e della sinistra...

Un altro esempio possibile è quello del riscaldamento delle case. In Italia, per riscaldare, consumiamo mediamente 20 litri di gasolio, 20 metri cubi di metano, 200 chilowattora al metro quadrato all’anno. In Germania, invece, non viene data la licenza di abitabilità alle case che consumano più di 7 litri, 7 metri cubi, 70 chilowattora al metro quadrato all’anno. E le case che hanno questo tipo di consumo energetico lì sono le peggiori. Le case migliori consumano un litro e mezzo al metro quadrato all’anno, un metro cubo e mezzo al metro quadrato all’anno, quindici chilowattora al metro quadrato all’anno. Se si può imporre per legge che un edificio non consumi più di sette litri al metro quadrato all’anno, cosa vuol dire che un edificio ne consuma venti? L’unica spiegazione è che è talmente mal costruito che disperde, dalle finestre, dalle pareti e dal sottotetto, i due terzi dell’energia che viene immessa al suo interno, cioè tredici litri su venti. Questi tredici litri su venti sono una merce che si compra, che si paga, ma non rappresentano un bene perché non servono a scaldare la casa. Una casa mal costruita, che consuma venti litri al metro quadrato all’anno, fa crescere il Prodotto interno lordo più di una casa ben costruita che ne consuma solo sette. Se una casa mal costruita venisse ristrutturata e il suo consumo scendesse da venti a sette litri questa casa farebbe decrescere il prodotto interno lordo, perché farebbe diminuire la quantità di una merce che non è un bene.

RICONQUISTARE LE ABILITÀ MANUALI

Abbiamo appena focalizzato un primo aspetto della nozione di decrescita. Quest’ultima consiste innanzitutto nella diminuzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni. E una scelta di questo genere comporta, in primo luogo, una crescita dell’occupazione, perché per fare in modo che una casa che consuma venti litri arrivi a consumarne sette, o cinque, o tre, bisogna lavorare molto. Questo lavoro è però un lavoro utile, in quanto riduce l’effetto serra, il consumo di fonti fossili, sempre più scarse, e le tensioni geopolitiche a livello internazionale. È questo un punto molto importante, perché chiarisce come il nostro interesse non sia quello di lavorare perché cresca l’occupazione. Se l’obiettivo fosse la crescita dell’occupazione, noi dovremmo essere contenti ogni volta che vediamo in televisione un bambino che in una zona di guerra è rimasto senza gambe perché è saltato su una mina. Quella mina, infatti, qualche occupato l’avrà anche prodotto… In realtà, a noi interessa creare occupazione utile. L’aggettivo qualificativo “utile” è fondamentale nella nostra concezione, e lo ritroveremo anche nel discorso sugli indicatori di benessere.

Quindi, ricapitolando, si crea occupazione, si crea occupazione utile e, terzo aspetto, si crea occupazione che si paga da sé. Perché se, a seguito di una ristrutturazione, il consumo della casa scenderà da venti a sette litri, vuol dire che diminuirà il costo di gestione annuale di questa casa e che quindi, in un certo numero di anni, i risparmi sui costi di gestione ammortizzeranno il costo di investimento. Questo è il primo aspetto fondamentale sul quale a noi interessa lavorare.

Poi c’è una seconda possibilità. Così come ci sono delle merci che non sono beni, ci sono dei beni che non necessariamente assumono la forma di merci. Qui entriamo in un campo un po’ diverso a cui accennerò soltanto, perché meriterebbe ben altra trattazione. Stiamo parlando della nostra capacità di autoprodurre beni, che attualmente abbiamo quasi completamente perso. Nel giro di due generazioni, ci hanno messo in condizione di non saper fare nulla. E, soprattutto, ci hanno messo in condizione di credere che non saper fare nulla sia un progresso rispetto alla situazione precedente, quando le persone producevano una serie di beni senza essere costretti a comprarli. Mi raccontava un giornalista di Report che, negli anni ’60, le donne pugliesi si vergognavano di far sapere che facevano in casa le orecchiette. Per quale motivo, infatti, uno dovrebbe farsi le orecchiette in casa? È chiaro: perché non ha i soldi per comprarle! Perché è povero! E quelle stesse donne, la domenica, per far vedere che avevano raggiunto il benessere, misurato ovviamente in denaro, ostentavano il fatto di andare a comprare la pasta prodotta industrialmente al posto di quella che producevano in casa… Quando uno non sa fare nulla, deve comprare tutto. E chi deve comprare tutto fa crescere il Prodotto interno lordo più di chi sa fare qualche cosa e può evitare di comprarla. Ma chi deve comprare tutto non ha nessuna autonomia nei confronti del mercato.

Io amo ripetere che chi abita in città appartiene alla categoria meno evoluta della specie umana, perché, nel caso in cui chiudessero negozi e supermercati, nel giro di tre o quattro giorni, dal momento che è incapace di tutto, morirebbe di fame. Al contrario, le persone che sono capaci di fare delle cose hanno una maggiore autonomia rispetto al mercato. C’è un filosofo americano, Richard Sennett, un allievo di Hannah Arendt, il quale sostiene che la caratteristica che distingue gli esseri umani da tutti gli altri esseri viventi è la capacità di usare le mani sotto la guida dell’intelligenza progettuale. La specie umana è l’unica che sa fare queste cose. Anzi, Sennett sostiene un’altra cosa ancora, e cioè che non soltanto è importante saper muovere le mani sotto la guida dell’intelligenza progettuale, ma che lavorare con le mani, attraverso le loro due funzioni fondamentali, la prensione e il tatto, manda al cervello una serie di input molto più precisi di quelli trasmessi dalla vista, e che pertanto la persona che è in grado di utilizzare le mani sviluppa delle capacità intellettive superiori a chi non sa fare nulla.

Il secondo aspetto della decrescita felice consiste esattamente nella capacità di riconquistare quelle abilità manuali che consentono di non essere completamente dipendenti dal mercato. Nella Grecia della crisi, cioè in una condizione di difficoltà economica generalizzata, si sta verificando uno spostamento della popolazione da Atene alle isole, dove molte persone che non hanno più accesso al mercato, ricominciano da capo autoproducendo ciò di cui hanno bisogno.

DARE SPAZIO AGLI AFFETTI E ALLA CREATIVITÀ

Seguendo la distinzione fra la nozione di bene e quella di merce, abbiamo quindi individuato innanzitutto due possibilità che ci hanno aiutato a fornire un primo abbozzo del concetto di decrescita. Quest’ultima consiste, in effetti, in una diminuzione delle merci che non sono beni e in un aumento dei beni che non sono merci. Ma di possibilità ce ne sono almeno altre due, alle quali accennerò ora brevemente. Ci sono infatti, ed è la terza combinazione possibile, dei beni che si possono ottenere solo sotto forma di merci. Ad esempio, se abbiamo bisogno di un computer o di una risonanza magnetica, non possiamo far altro che comprarli. A noi sostenitori della decrescita felice non interessa una riduzione dei beni che si possono avere solo sotto forma di merci.

Infine, quarta ed ultima possibilità, esistono dei beni che non si possono ottenere sotto forma di merci. Si tratta dei cosiddetti beni relazionali quali, ad esempio, la capacità di avere rapporti positivi con gli altri, la propria creatività, l’amore, la solidarietà, ecc. Qui viene spontaneo pensare al famoso discorso di Robert Kennedy nel quale diceva che tutte le cose che danno un senso alla vita non fanno crescere il Pil. Eppure, fatalmente, in una società fondata sulla crescita del Pil le persone, invece di dedicare tempo ai propri affetti e alla propria creatività, preferiscono dedicare tempo al lavoro per produrre delle cose inutili e per avere dei soldi che servono a comprare cose inutili. Questa situazione ha degli effetti negativi ben precisi. Avendo fatto in passato il preside, posso testimoniare, ad esempio, che tutti i bambini più problematici che ho incontrato avevano dei genitori che, magari in assoluta buona fede e pensando di fare in questo modo il bene dei propri figli, passavano la maggior parte del proprio tempo a lavorare e a fare gli straordinari in modo da non far loro mancare nulla in termini di oggetti materiali, senza rendersi conto che l’esigenza di fondo di questi bambini era il tempo dei loro genitori, il poter parlare insieme e il poter fare delle esperienze insieme.

IL PROBLEMA È LA CRESCITA

Dovrebbe essere ormai chiaro che la decrescita non ha niente a che fare né con la sobrietà né con l’austerità. Ha a che fare invece con l’intelligenza umana e con uno sviluppo tecnologico finalizzato a ottenere ciò di cui abbiamo bisogno consumando meno risorse della terra. Fatta questa precisazione, va detto che è la crescita la principale responsabile della crisi che stiamo vivendo. Per cui non è vero, come tutti dicono, che per uscire dalla crisi bisogna rilanciare la crescita. Al contrario, secondo la nostra analisi, lavorare per la crescita equivale a rafforzare la crisi, non a risolverla. Perché diciamo che la crescita è la causa della crisi? Quest’ultima si manifesta oggi principalmente in due forme: come riduzione del Prodotto interno lordo, e come aumento del debito pubblico. Tutti non fanno che ripeterci quanto è grande il debito pubblico, ma nessuno prova a spiegarci perché ci sono questi debiti così alti. Sommando i debiti pubblici con i debiti privati, si ha una quantità di debiti pari, grossomodo, al 200% del Pil. Ma perché ci sono questi debiti?

Il fatto è che, in una società fondata sulla crescita della produzione di merci, l’uso di tecnologie sempre più performanti, che consentono, nell’unità di tempo, a sempre meno persone di produrre sempre più cose, determina da una parte un aumento dell’offerta di merci (si producono più cose nell’unità di tempo) e, dall’altra, una riduzione della domanda di merci, perché, se si lavora con meno persone, sono meno numerose le persone che hanno un reddito. Per cui questa società fondata sulla crescita crea sistematicamente un eccesso di offerta sulla domanda. Come si fa a rialzare la domanda in modo da assorbire l’offerta? Indebitandosi, in una fraintesa politica keynesiana. Nella provincia in cui abito, quella di Asti, la cassa di risparmio ha una linea di credito al consumo per le famiglie che si chiama l’“erbavoglio”! Ma l’erbavoglio, si sa, non cresce nemmeno nel giardino del re… L’idea è semplice: non hai i soldi per comprare ma hai desiderio di qualche cosa? Non c’è nessun problema: i soldi te li diamo noi, basta che tu faccia dei debiti. Il debito non è altro che l’altra faccia della crescita dell’economia. Non nasce adesso, nasce negli anni ’60, quando l’economia ha fatto un “salto di qualità”. Mentre prima si produceva per rispondere a dei bisogni, dagli anni ’60 in poi la crescita della produzione, il boom economico, ha fatto in modo di creare dei bisogni per poter assorbire tutto quello che veniva prodotto. Da qui, ad esempio, la possibilità degli acquisti a rate.

In questa situazione, gli strumenti tradizionali di politica economica non sono in grado di farci uscire dalla crisi. Quando infatti puntano a ridurre il debito, finiscono per ridurre la domanda ed è ovvio che, se si riduce la domanda, si aggrava la crisi. Se puntano a rilanciare l’economia, devono accrescere la domanda, ma per fare questo devono aumentare il debito. Questa incapacità di affrontare i due aspetti ha portato per esempio Alain Minc, un economista che era consigliere dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, a dire che bisogna premere contemporaneamente sul pedale del freno e su quello dell’acceleratore. Ora, chiunque abbia un minimo di esperienza nella guida sa che, facendo una cosa del genere, non si farà altro che consumare benzina, inquinare, rischiare di bruciare il motore e i freni e, soprattutto, rimanere fermi. La verità è che non sanno come uscire da questa crisi.

UNA DECRESCITA GUIDATA

Qual è, in una simile situazione, la nostra proposta? Noi diciamo che per uscire dalla crisi bisogna liberare del denaro per fare degli investimenti senza accrescere i debiti pubblici. Come si può farlo? L’unico modo è quello di ridurre gli sprechi, ma non quegli sprechi di cui parla la cosiddetta spending review... Se diminuiamo gli stipendi di un qualsiasi ministero, diminuisce la domanda! La questione fondamentale è quella di ridurre gli sprechi di denaro conseguenti allo spreco di risorse della Terra. Perché ciò che gli economisti non capiscono è che l’economia non è soltanto la legge della domanda e dell’offerta, ma che ogni attività economica produce necessariamente un impatto sulle risorse della Terra. Per loro il problema delle risorse non esiste. Quindi, se noi riducessimo lo spreco di risorse, libereremmo del denaro, e con questo denaro potremmo pagare gli investimenti sulle attività che ci consentono di ridurre lo spreco di risorse.

Immaginiamoci che, invece di parlare a vanvera di crescita, ci si ponesse come obiettivo di una politica economica industriale quello di fare in modo che le nostre case consumino come le peggiori case tedesche. Succederebbe che noi dovremmo comprare meno petrolio e meno gas dall’estero, che risparmieremmo dei soldi e che con quei soldi potremmo pagare i salari e gli stipendi delle persone che lavorano per fare in modo che le nostre case consumino di meno. L’obiettivo del lavoro deve essere quello di procedere verso la riduzione dell’impatto ambientale e del consumo di risorse e verso un uso più efficiente delle risorse della Terra. Credo che, se questa strada venisse intrapresa, noi potremmo affrontare entrambi gli aspetti della crisi, perché la crisi non è solo economico-occupazionale, è anche ambientale, energetica e climatica. E urge una risposta. Il tetto della mia casa nell’astigiano, all’inizio del mese di agosto, è stato danneggiato da una grandinata con chicchi grandi come uova e con un vento tale che ha addirittura perforato dei vetri doppi. Se non ci rendiamo conto che la crisi ha queste caratteristiche, non potremo neanche uscirne. L’unico modo di affrontare la crisi ecologica, energetica e ambientale è quello di ridurre lo spreco di risorse. L’unica maniera di affrontare la crisi economico-occupazionale è quella di ridurre lo spreco di risorse attraverso lo sviluppo di tecnologie più evolute di quelle che abbiamo attualmente.

Quando tante persone mi dicono: «Voi della decrescita volete farci tornare all’età della pietra e alle carrozze a cavalli», io domando loro, molto semplicemente: «Per fare una casa che consuma sette litri ci vuole più o meno tecnologia che per fare una casa che consuma venti litri?». La risposta è ovvia: ce ne vuole di più. E ci vuole soprattutto una tecnologia diversamente orientata. C’è da fare quindi un discorso qualitativo. Ciò significa che lo sviluppo tecnologico deve essere finalizzato non più ad aumentare la produttività, ma a ridurre fondamentalmente tre fattori, per ogni unità di prodotto: i consumi di energia, i consumi di materie prime e la quantità di oggetti che vengono portati allo smaltimento al termine della loro vita utile. Una volta che un oggetto non svolge più la funzione per cui l’abbiamo comprato e noi ce ne liberiamo, se ne possono riutilizzare i materiali per fare degli altri oggetti. Se noi riutilizziamo quei materiali, non dobbiamo sfruttare altre risorse della natura. Per cui abbiamo bisogno di una tecnologia migliore ma diversamente orientata. Questa è la nostra proposta per uscire da questa crisi in una decrescita guidata.

L’ultimo concetto che vorrei mettere in evidenza è il seguente. A questo discorso qualcuno potrebbe obiettare: «Se la decrescita comporta una diminuzione del Pil, analogamente alla recessione, ne consegue che la decrescita e la recessione sono la stessa cosa». Neanche per sogno! Noi ora non siamo in decrescita, siamo in recessione. Faccio un esempio. Ho davanti a me due persone che non mangiano abbastanza, che hanno entrambe fame. Una delle due, però, non mangia perché non ha da mangiare, l’altra non mangia perché ha scelto di fare una dieta. Non stanno facendo la stessa cosa, perché una ha fatto una scelta per stare meglio, l’altra non ha possibilità di scelta e sta peggio. La recessione è una diminuzione del Pil non guidata, una diminuzione che, in una società fondata sulla crescita del Pil, comporta una serie di problemi. La decrescita è una riduzione selettiva, guidata, del Pil, attraverso l’introduzione di elementi di valutazione qualitativa nell’attività umana. Ciò di cui abbiamo bisogno è un’occupazione utile per fare delle cose utili, e ci interessa misurare il benessere non sulla quantità delle cose che vengono prodotte, bensì sulla loro qualità.