LA DEMOCRAZIA DEI BENI COMUNI

 

di Guido Viale

 

ADISTA n° 6 del 18.2.2012

 

Il bene comune esprime la visione unitaria di una società in cui è possibile che tutti, per convenienza o per ragioni morali, si trovino d’accordo su un unico obiettivo: una visione che abbraccia per così dire la totalità degli aspetti della condizione umana. È un'utopia, un'aspirazione che non va confusa con il concetto di beni comuni, che invece è plurale, perché i beni sono tanti - l'acqua, l'aria, il suolo, la biodiversità, la cultura, l'arte, l’informazione, i servizi pubblici locali e nazionali... - e ciascuno di essi presenta caratteristiche fisiche diverse e condizioni storiche differenziate.

Tale concetto di beni comuni, che si è andato affermando recentemente, è un fronte su cui va data battaglia, una battaglia essenziale per assicurare dignitose condizioni di vita alla popolazione e arrestare la catastrofe imminente che incombe sul pianeta, dal punto di vista dei cambiamenti climatici e del deterioramento dell'ambiente.

Questo concetto rende completamente superata l'antica contrapposizione a cui siamo stati abituati dal dibattito politico dei decenni passati, quella, cioè, tra Stato e mercato, tra pubblico e privato. (…). I sostenitori di una gestione privatistica ritengono che questa sia l'unica in grado di garantire l'efficiente utilizzo del bene, perché soltanto il privato, per il fatto di perseguire un profitto, ha interesse a gestirlo nella migliore maniera possibile. I sostenitori della gestione pubblica sono convinti invece che soltanto gli enti pubblici, enti che facciano parte dell'ordinamento statuale – Stato, Regioni, Province o comuni - possano garantire la difesa degli interessi di tutti, anche dei più deboli.

Questa diatriba è stata completamente superata - per lo meno nell'ambito dei temi investiti dalla rivendicazione dei beni comuni - da un’altra contrapposizione: alla gestione privata si oppone non una gestione semplicemente pubblica, cioè dello Stato, ma una gestione partecipata, in cui, cioè, siano i cittadini a occuparsi direttamente del modo in cui gestire il bene. (…). In questa accezione di bene comune, cioè, è la gestione condivisa quella che si contrappone alla gestione privata e non la semplice nazionalizzazione del bene.

Le esperienze passate, infatti, ci insegnano che il fatto che un bene venga nazionalizzato, che un servizio o addirittura tutta l’economia nazionale sia in mano pubblica, come è avvenuto per settant'anni nei Paesi comunisti, non è assolutamente di per sé garanzia di una gestione migliore. La buona gestione nasce dove c'è partecipazione e democrazia.

Questa forma di gestione partecipata, che in alcuni luoghi ha già avuto luogo - esistono esperienze da cui già possiamo trarre ispirazione - è a mio parere lo strumento essenziale per promuovere la transizione verso un'economia che sia compatibile con i limiti ambientali e con le esigenze di maggiore equità sia a livello sociale che a livello planetario. È quella che io ho chiamato “conversione ecologica”.

Una piccola parentesi: “Conversione ecologica” è un’espressione che non ho inventato io, ma che è stata introdotta nel lessico politico da un personaggio che quasi tutti avrete sentito nominare, Alex Langer, uno che di conversioni se ne intendeva, dal momento che era nato in una famiglia ebraica e si era convertito giovanissimo al cattolicesimo, andando a studiare in un collegio di gesuiti in cui si sarebbe schierato su posizioni piuttosto eretiche, per poi militare prima nel movimento studentesco, poi in Lotta Continua (in cui militavo anch'io), fino a fondare le liste verdi in Italia e a diventare deputato del consiglio regionale del Trentino Alto Adige e successivamente deputato europeo. In queste vesti, lui che, essendo altoatesino, aveva sperimentato la difficile convivenza tra comunità in potenziale conflitto, si era fatto testimone di pace in diverse zone di guerra del pianeta, dedicando gli ultimi anni della sua vita alla Jugoslavia. E impegnandosi a tal punto in questa battaglia da perderci la vita, suicidandosi nel 1995, una settimana prima della strage di Srebrenica (il massacro più grande e crudele compiuto in Europa dopo le stragi di Auschwitz e della Shoah), proprio di fronte al fallimento evidente dei suoi tentativi.

Nella sua permanente evoluzione (ma sempre nel segno della coerenza con se stesso e con la propria ispirazione fondamentale), Alex Langer, parlando di “conversione ecologica”, spiegava di preferire la parola “conversione” ad altre a cui aveva fatto riferimento nel corso della sua vita - rivoluzione, riforma, transizione, cambiamento e così via - perché questo termine ha una duplice valenza, di carattere sia soggettivo che oggettivo, sia personale che sociale.

La dimensione soggettiva personale consiste in un cambiamento del proprio stile di vita in direzione di una maggiore sobrietà, di una maggiore armonia con l'ambiente, di una maggiore riconciliazione col prossimo. Non ci può essere, sosteneva Alex, alcun cambiamento sociale radicale se non siamo noi, nel nostro foro interiore, ma anche nelle nostre prassi quotidiane, a cambiare stile di vita. E questo si ripercuote ovviamente nel modello di consumo che adottiamo, nel tipo di spesa che facciamo e in quali beni utilizziamo. Tuttavia, grazie alla sua esperienza politica, Alex Langer era perfettamente consapevole anche del fatto che non si cambia il mondo esclusivamente con l'etica delle intenzioni, ma che è necessario cambiare la struttura sociale, e che dunque il termine “conversione” va applicato tanto ai comportamenti individuali quanto all'organizzazione, in particolare della produzione, di cosa si produce e di come lo si produce, in direzione di una maggiore compatibilità con l'ambiente e con le istanze di equità sociale a livello locale e a livello planetario.

UN NUOVO STILE DI VITA

Ora, a distanza di 15 anni, sulla base delle esperienze concrete già realizzate, possiamo approfondire la questione di cosa significhi il cambiamento dello stile di vita, nella consapevolezza che le condizioni per renderlo effettivo e operante vanno ricercate nel passaggio da consumi di tipo individuale a consumi di tipo condiviso.

Consumi di tipo individuale sono quelli che pratichiamo tutti i giorni quando andiamo al mercato, magari facendo attenzione a evitare gli sprechi, a ridurre gli imballaggi e così via, ma avendo di fronte solo alternative assai limitate, e molto spesso senza poter realmente scegliere. Il consumo condiviso è quello in cui le scelte vengono fatte in comune, mantenendo ciascuno la propria individualità, ma all'interno di una organizzazione in cui ci si mette d'accordo su cosa comprare e da chi.

È ad esempio il caso del GAS, il Gruppo di Acquisto Solidale, che, sviluppatosi in moltissimi Paesi, in Italia è cresciuto in maniera esponenziale, da alcune decine di casi di tre anni fa fino agli oltre 10mila di oggi, per parlare solo dei gruppi registrai. Si tratta di un gruppo di famiglie che decide di rifornirsi direttamente dal produttore: o dall'agricoltore che produce determinati beni o da piccole industrie alimentari che li trasformano (ma il GAS può estendersi anche ad altri settori, come l'abbigliamento, la mobilità, le fonti rinnovabili di energia…). Il primo vantaggio, dunque, è quello di saltare la mediazione commerciale, con tutto il risparmio che ne consegue, e il secondo è quello di sviluppare una cultura ambientale e sociale, perché un GAS non può funzionare se non genera conoscenza rispetto ai prodotti da acquistare (sugli standard di qualità richiesti, per esempio). E c’è anche un terzo vantaggio, quello della socialità, perché nel GAS molte persone si uniscono non tanto per acquistare dei beni, quanto per trovare uno spazio in cui ricominciare a fare comunità, in una società che invece tende a isolare ciascuno nel proprio guscio.

Proviamo a pensare a cosa succederebbe se un'amministrazione di una città grande come Roma, o anche solo di una città di medie dimensioni, appoggiasse queste iniziative trasferendo conoscenza sui diversi aspetti: come si amministra un GAS, a chi bisogna rivolgersi, come coinvolgere i produttori, come orientare i produttori verso certi standard di qualità. Ciò permetterebbe a una città di trasformare l'ambiente circostante costruendo quell'agricoltura di prossimità e vicinanza che costituisce uno degli obiettivi e delle condizioni della sostenibilità ambientale. È questo è l'aspetto soggettivo della “conversione ecologica”: il passaggio dal consumo individuale al consumo collettivo.

DAL MACRO AL MICRO

L'aspetto oggettivo è quello dell’intervento necessario per cambiare il modo, attualmente insostenibile, in cui i beni vengono prodotti e consumati. Ciò interessa ovviamente tutta l'economia, ma in maniera sostanziale 4 o 5 settori fondamentali.

Il primo settore è quello dell'energia e del risparmio energetico: occorre passare in tempi rapidi da un'economia fondata sui combustibili fossili a un'economia centrata sulle fonti rinnovabili e sull'efficienza energetica. (…). Il secondo settore è quello dell’agricoltura: fertilizzanti, pesticidi, trasporti, lavorazione dei prodotti ecc. sono tutte attività ad altissimo consumo di petrolio e quindi incompatibili con la sopravvivenza della vita umana. (…). Il terzo settore è quello della difesa del territorio, sia in città che fuori: l’Italia è esposta continuamente a interventi che non solo provocano morti e feriti, ma sottraggono anche al territorio quelle caratteristiche che ne costituivano la peculiarità. Il quarto settore è quello della gestione delle risorse, che noi conosciamo nel versante della gestione dei rifiuti: per gestire i rifiuti bisogna intervenire a monte, cioè facendo in modo che le risorse vengano utilizzate senza sprechi e ricorrendo al riciclo e al recupero integrale dei beni. L'ultimo settore è quello della mobilità: non è materialmente possibile che i 7 miliardi di abitanti del pianeta (che diventeranno 10) possano muoversi in automobile come facciamo noi, né per disponibilità di spazio, né per disponibilità di risorse e di combustibile, né soprattutto per la capacità dell'atmosfera di assorbire tutte le emissioni che in tal modo verrebbero prodotte. Quindi, si tratta di passare da una mobilità fondata sul mezzo individuale, l'automobile, a una mobilità fondata su mezzi condivisi, tra cui possono trovar posto anche automobili a disposizione di tutti, usate successivamente da individui diversi o contemporaneamente da più persone che fanno gli stessi percorsi alla stessa ora. Tutte cose già possibili con le attuali tecnologie.

Si tratta sostanzialmente del passaggio dalla dimensione macro alla dimensione micro. Pensiamo all'energia: l'economia fondata sui combustibili fossili si basa su grandi impianti: campi petroliferi, miniere, gasdotti, oleodotti, raffinerie, centrali termoelettriche (non parliamo del nucleare), reti di trasmissione di elettricità... L'economia fondata sulle fonti rinnovabili e sull'efficienza energetica ha in sé una logica completamente diversa: gli impianti devono essere piccoli, distribuiti sul territorio, differenziati in base alle caratteristiche e alle esigenze di consumo e quindi molto diversi da un territorio all'altro. Guardiamo all'energia fotovoltaica: tetto per tetto, casa per casa, campo per campo, azienda per azienda, sulla base del fabbisogno di energia, della possibilità di utilizzo, della presenza di altre forme di energia in quel territorio, da integrare fra loro. (…).

Per operare una transizione di questo genere in un dato territorio, c'è bisogno di quei saperi, di quelle conoscenze, che può avere soltanto chi vive su quel territorio. Il governo centrale deve mettere a disposizione le risorse, ma non può decidere, per esempio, quali mezzi debbano essere usati per spostarsi da casa a lavoro. Ci deve essere un'organizzazione a livello territoriale, basata, oltre che sui saperi tecnici e specialistici indispensabili, sul concorso degli abitanti di quel territorio, di quei quartieri, di quei condomini, di quelle case. Un’esigenza, questa, che è essenziale per gestire un'economia fondata sulle fonti rinnovabili e che invece non è richiesta in un’economia centrata sui combustibili fossili, né nell'agricoltura estensiva che oggi è alla base dell’alimentazione del pianeta (con 4-5 società che controllano tutta la filiera) e neppure nell’attuale gestione del territorio, caratterizzata dalla costruzione di grandi opere (il ponte di Messina, il tunnel del Fréjus ecc.).

Nasce da qui l'esigenza di legare strettamente la partecipazione alla rivendicazione dei beni comuni. (…). Ma cosa sono i beni comuni? Sono quei beni su cui noi riteniamo vada affermata una gestione comune. Non tutti i beni: a differenza del comunismo e dello statalismo, qui si tratta di gestire in comune, in forma condivisa, ma mantenendo la propria individualità, solo quelle cose che coinvolgono tutti. Nel GAS, per esempio, c’è una gestione comune degli acquisti e c’è il risultato comune della creazione di un’agricoltura ecocompatibile, ma ciascuno acquista individualmente, così come ogni singolo agricoltore continua a lavorare per realizzare un guadagno.

UNA PARTECIPAZIONE APERTA A TUTTI

Quello che voglio dire è che l'idea del bene comune è un'idea radicale, di sinistra, ma comunque libertaria: nella gestione dei beni comuni devono poter partecipare tutti, anche quelli che non la pensano come noi.

Mi richiamo ad una esperienza che ho vissuto direttamente, coordinando per un anno, nel 2008, il Forum Rifiuti Campania, un organismo di partecipazione della cittadinanza attiva impegnato a indicare soluzioni per uscire dall'emergenza, prima che il commissario Bertolaso lo esautorasse completamente. Ne facevano parte i comitati che alzavano le barricate contro le discariche, i comitati che promuovevano la raccolta differenziata, le associazioni ambientaliste, i sindacati, i Comuni, l'associazione degli industriali, la Camera di commercio, tutti nello stesso organismo. Tale era la gravità della situazione, che tutti erano consapevoli della necessità di trovare insieme una strada comune. Per otto mesi abbiamo discusso varie soluzioni, anche imboccando strade positive, che poi sono quelle che oggi in parte si cerca di riprendere. Finché ad un certo punto una parte dei partecipanti ha sostenuto la necessità di escludere quanti erano favorevoli all’inceneritore. In realtà, negli organismi di partecipazione devono poter essere confrontate le tesi più diverse: se il confronto è completo ed esauriente, vincerà la tesi migliore, quella che ha maggiore fondamento. La prima condizione per la partecipazione è che possano partecipare tutti, quale che sia il loro orientamento.

Sempre all’interno del Forum Rifiuti Campania, si è registrato anche un conflitto profondo tra chi voleva che questo organismo venisse istituzionalizzato e chi puntava invece ad allargare il più possibile la partecipazione. Il fatto è che la partecipazione può diventare sempre più capillare solo a condizione che non si pongano regole troppo rigide. E d’altra parte non si può neppure permettere che tutti dicano quello che vogliono, altrimenti finirebbe tutto come in un'assemblea di condominio, che in genere sta lì a dimostrare quanto si sia incapaci di gestire i propri beni comuni. L'assemblea di condominio in fondo è l'assemblea di casa nostra: se non siamo capaci nemmeno di far funzionare questa, sarà molto difficile arrivare, per esempio, a gestire l'acqua. Non si può, dunque, lasciare a tutti la parola illimitatamente, ma non si possono neppure fissare regole troppo rigide. Così, una regola che avevamo stabilito all’interno del Forum è che partecipassero soltanto i delegati di comitati e organizzazioni, chiamati a riportare l’opinione del loro organismo e a riferire poi ad esso quanto espresso dal forum.

Se la partecipazione è il mezzo per coinvolgere le persone nella gestione della cosa pubblica e va dunque allargata quanto più possibile, ad esserne tradizionalmente esclusi sono coloro che appartengono alle fasce più emarginate della società, quelle tagliate fuori dalla cultura, dalla vita pubblica, dal benessere in genere: il loro eventuale ingresso in un organismo di partecipazione, che è complicato per tutti, lo è per loro in maniera particolare. Diventa dunque fondamentale, prima ancora di arrivare a gestire in maniera ordinata una discussione, poter far emergere gli elementi che sono alla radice del proprio scontento, della propria volontà di cambiare e della disponibilità ad offrire il proprio contributo.

È questa l'esperienza che ho vissuto, una quarantina di anni fa, nel movimento degli operai della Fiat Mirafiori, nel 1969, quando si svolgevano tutti i giorni assemblee di centinaia di operai completamente spoliticizzati, molti apertamente di destra o addirittura fascisti. In genere la deliberazione era limitata: si decideva quale volantino fare il giorno dopo, se continuare uno sciopero o interromperlo… Ma non si discuteva solo di questo, perché alle assemblee partecipavano ragazzi che volevano raccontare la loro storia: “Sono nato nel sud, zappavo la terra, ero senza scarpe, non avevo i vestiti, adesso dormo nella sala d’aspetto della stazione…”. È questa una fase essenziale di un qualsiasi processo partecipativo: il fatto di conoscersi e di scambiare le proprie esperienze esistenziali è la condizione per tenere unito un gruppo e farne una sede decisionale. Non si può pensare ad un processo puramente formale e istituzionalizzato, come lo è la democrazia formale rappresentativa, che non serve quasi a niente e che viene calpestata quotidianamente (anche se di certo non vogliamo che venga abolita). È la democrazia partecipativa, per quanto essa possa convivere con la democrazia rappresentativa per una lunghissima fase da qui al futuro, quella che coinvolge le persone, quella in cui la gente partecipa perché ha qualcosa di suo da mettere in comune. (…).

Un altro aspetto da considerare è quello del conflitto: la democrazia partecipativa per la gestione condivisa di un bene non piace a tutti, perché ci sono persone - anche se magari, come dicono i militanti di Occupy Wall Street, rappresentano appena l’1% della popolazione  - che su quel bene vogliono mettere le mani a proprio vantaggio. Si tratta solo dell’1%, ma un 1% che può contare su molti sostenitori, in parte perché li ha comprati e in parte perché li ha ingannati. E poi, come ha ribadito Rossana Rossanda in un dibattito che si è svolto prima di Natale a Firenze, una grande parte di quel restante 99% non sa di farne parte: è potenzialmente in conflitto con l'1%, ma non lo sa. (…).

PARTECIPANDO S’IMPARA

L'ultimo punto che mi preme evidenziare è che la democrazia partecipativa, e quindi la gestione condivisa o la rivendicazione di una gestione partecipata di un bene comune marcia contemporaneamente all'acquisizione di saperi ed è indissolubile da questa. Dunque, le sedi di partecipazione sono scuole in cui non soltanto s’impara a gestire la democrazia ma si apprendono anche conoscenze tecniche.

L'esempio più calzante è l'esperienza dei No Tav in Val di Susa, una comunità di 80.000 persone che resiste da vent'anni alle campagne più spregevoli e spietate di falsificazione dei termini dello scontro, fino all'occupazione militare del territorio, dove 1.700 militari occupano un cantiere che non è stato ancora aperto sparando grossi candelotti con gas CS (gas di guerra, proibiti dalle convenzioni internazionali) contro la popolazione e anche contro le vigne e le coltivazioni circostanti.

Se interrogate chi è favorevole al tunnel, vi dirà semplicemente che si tratta del progresso e che in gioco c’è il collegamento con l'Europa, nient’altro. Se invece interrogate qualsiasi abitante della Val di Susa, anche una persona di 80 anni senza istruzione - perché lì ci sono contadini anziani che hanno la terza o la quinta elementare -, vi saprà spiegare tutto sui problemi dell'ambiente, sull’uranio, sull'amianto, su come viene scavata una galleria, sulle terre di risulta e su quali danni possono provocare e soprattutto sul sistema dei trasporti in Italia e sul perché quel tunnel è inutile. La popolazione della Val di Susa è riuscita a resistere vent’anni proprio perché ha acquisito sapere. I suoi avversari, invece, sono dei perfetti ignoranti. Non troverete nessun esperto di trasporti in Italia che difenda quell’operazione, perché è assolutamente vergognosa. La sostengono gli economisti, i politici e soprattutto le grandi imprese, che hanno un interesse da difendere.

Quindi, dai GAS (50 famiglie) alla Val di Susa (80.000 abitanti), la crescita della democrazia e della partecipazione è un processo consustanziale alla crescita dei saperi e dell’informazione.