La religione incredibile

 

di José Manuel Vidal

 

Adista Contesti n°99 del

 

P. José Arregi: paradigmi arcaici e restaurazione anticonciliare stanno condannando la Chiesa cattolica all’insignificanza

Tratto dal portale di informazione religiosa: Religion digital (28 novembre 2011). Titolo originale: José Arregi: "La Iglesia española está especialmente politizada, derechizada, a la defensiva y agresiva"

Francescano di cuore e “clandestino”, il teologo José Arregi continua ad animare la mistica della resistenza attiva nella Chiesa. Con i suoi articoli, conferenze e libri. Ne ha appena pubblicati due: Jesús siglo XXI (Fe adulta) e Cristianismo, historia y mundo moderno (Nueva Utopia). Più libero che mai, assicura che la Chiesa «continua ad essere ancorata a paradigmi superati», denuncia la gerarchia spagnola come «politicizzata, destrorsa e aggressiva», rivendica «il piacere sessuale come sacramento di Dio» e difende José Antonio Pagola. Dopo aver subìto all’interno della sua famiglia la violenza dell’Eta, chiede di «curare e aver attenzione per tutte le vittime» e perdonare. Sapendo però che «il perdono non si può né imporre né esigere».

Perché «la fede non consiste nel credere ma nell’avere fiducia»?

«Fede» significa questo, fiducia. Questo è per san Paolo: la fiducia incondizionata in Dio come mistero di pura grazia. Questa fiducia è quella che ci fa liberi, felici, buoni, compassionevoli come Gesù. I credo dipendono dalla cultura, dalla cosmovisione, dal linguaggio. I credo, tutto il credo, tutti i dogmi, non sono che formule e sostegni della fede, e possono cambiare, devono cambiare secondo le culture. Prima credevamo che il cielo stesse lassù e che Dio stesse in cielo come un gran signore, che facesse piovere o miracoli se glieli si chiedeva bene o semplicemente se ne aveva voglia. In questo Dio non crede ormai quasi più nessuno, non si può credere, non rientra nel “credibile” oggi. Ma lo stesso succede con tutte le cose in cui si crede: bisogna cambiare per continuare ad aver fiducia in quel mistero di grazia, cioè bellezza e bontà, che chiamiamo “Dio”. La Lettera di san Giacomo dice: «Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demoni lo credono e tremano!» (demoni è oggi un modo di dire). Bisogna credere “il credibile” e solo nella misura in cui aiuta ad aver fiducia, mentre non si deve credere in quello che risulta incredibile o impedisce di aver fiducia. O, se si preferisce, bisogna reinterpretare tutti i credo per continuare ad aver fiducia, ovvero essendo felici e buoni, come Gesù.

La teologia vive ancorata a paradigmi del passato, anacronistici e nocivi?

È questo, è questione di paradigmi. Le immagini e categorie fondamentali, il credo e l’organizzazione di tutte le grandi religioni rispondono a culture agrarie risalenti a migliaia di anni fa: Dio come personaggio supremo, la terra e l’essere umano come centro dell’universo, il peccato e il perdono, l’aldilà, la gerarchia e il potere sacralizzato… Al cristianesimo tradizionale e, in concreto, alla Chiesa cattolica succede questo: continua ad essere impastoiata in paradigmi superati.  Delle due l’una: o la Chiesa trasforma il suo linguaggio e le sue istituzioni perché possano continuare a suscitare e sostenere la fiducia e la bontà nel mondo di oggi o condanna se stessa all’ostracismo e all’emarginazione sterile, smette di essere lievito e sale. Nella Chiesa del Vaticano II si è fatto un enorme sforzo perché fosse possibile la prima alternativa, ma la gerarchia cattolica sembra impegnata perché prevalga la seconda. È per paura.

C’è paura anche nella Chiesa spagnola e fra i teologi? Perché?

La paura è un meccanismo sano, perché ci allerta su alcuni rischi. Ma la paura diventa un rischio maggiore quando ci chiude e ci paralizza, ci pone sulla difensiva e, non poche volte, sull’offensiva; la stessa paura crea fantasmi invece di energie positive e trasformatrici; la stessa paura diventa il pericolo maggiore. Credo sia quello che sta succedendo nella Chiesa cattolica in generale, e credo che questo fenomeno sia particolarmente evidente nella Chiesa spagnola, particolarmente politicizzata e con l’animo a destra, particolarmente difensiva e aggressiva. È vero che viviamo tempi di crisi culturale, ma credo che la reazione del Vaticano e della gerarchia spagnola stia diventando controproducente, stia provocando una rottura sociale ingente con la Chiesa, che può essere definitiva. La gerarchia sta ‘settarizzando’ la Chiesa.

A cosa si deve il tentativo “ufficiale” di seppellire il Vaticano II?

Non si tratta di cattiva volontà. Penso si debba fondamentalmente ad un errore diagnostico. Il Concilio Vaticano II ha voluto aggiornarsi in un mondo segnato dalla modernità, ma lo ha fatto troppo timidamente; e coloro che volevano andare più lontano – nella linea di Rahner – non hanno potuto farlo perché c’era un forte settore ultraconservatore, e il settore maggioritario era moderato, ma fondamentalmente conservatore, come lo stesso Paolo VI. I documenti del Concilio, quelli riferiti alla Chiesa, sono il prodotto di consensi ed equilibri, e contengono non poche contraddizioni.

Dopo il Concilio è stato dato inizio a riforme interessanti, sebbene insufficienti. Allo stesso tempo, la società europea occidentale ha intrapreso una transizione rapida e profonda, dall’era moderna industriale all’era post-moderna dell’informazione e del pluralismo, con la conseguente secolarizzazione. Il settore episcopale conservatore, capeggiato dai teologi von Balthasar e Ratzinger, si è allarmato e ha pensato che la secolarizzazione fosse conseguenza delle riforme conciliari. L’elezione di Giovanni Paolo II nel 1979 risponde a questa diagnosi e ha comportato una sterzata, e stiamo ancora qui: stanno seppellendo lo spirito rinnovatore del Concilio appellandosi alla lettera del Concilio. La lettura che fanno del Concilio, come ogni lettura, è molto selettiva e interessata. Ma le conseguenze in Europa stanno diventando catastrofiche, e credo che presto lo saranno anche in altri continenti. Già avviene in America Latina, dove si diffonde soprattutto il pentecostalismo emozionale e neoconservatore.

Cosa intende in concreto, quando patrocina «una spiritualità oltre la religione»?

La religione, in quanto sistema di credenze, norme e riti, è la forma che adotta la spiritualità in una data cultura. Le forme possono essere più o meno necessarie, e in generale qualche tipo di istituzionalizzazione è necessaria per una comunità di credenti, ma la forma istituzionale non è mai la cosa fondamentale di nessuna religione intesa come spiritualità, come esperienza religiosa personale o collettiva. La religione in quanto forma non è la cosa fondamentale. Fondamentale è la spiritualità, che viene dallo “spirito” ed è respiro, ispirazione, esperienza attiva. La spiritualità è spirito e vita, è venerazione, rispetto, compassione solidale, al di là di tutte le forme religiose, al di là di tutti i credo, dei riti e della morale. L’istituzione religiosa può sostenere e alimentare la spiritualità, deve farlo, ma mentre sembra che difenda la spiritualità, spesso impedisce di respirare.

Come spiegare a tanti credenti tormentati dalla morale tradizionale cattolica una nuova spiritualità della carne e dei sensi?

È una delle manifestazioni della trasformazione culturale in atto. Il discorso della gerarchia continua ad essere incatenato al dualismo nemico del corpo, e soprattutto della sessualità, che era già presente in san Paolo, che si è definitivamente imposto nella grande Chiesa di sant’Agostino e che non ha radici propriamente né nella Bibbia né in Gesù, ma nel platonismo e nel manicheismo. È necessario rivedere a fondo tutta questa antropologia e cosmologia. Non sarebbe male leggere un po’ più il Cantico dei Cantici. E che si insegnasse che il corpo, il piacere sessuale e la relazione sessuale in qualsiasi sua forma, sempre che sia per il bene del soggetto e degli altri, è sacramento di Dio. Tutto ciò che ha a che vedere con la sessualità e il sesso è molto delicato, e bisogna avere a cuore  questa delicatezza, perché è molto facile danneggiare se stessi o gli altri. Ma non si può dire: «Fai danno perché è proibito», ma: «È proibito solo quello che reca danno». Ogni gioia, ogni piacere -  mangiare, passeggiare, prendere il sole, farsi il bagno, le carezze, il piacere sessuale… - nella misura in cui è delicato e buono, è sacramento di Dio, anche se lo proibisce la morale vigente. Credo sia lo spirito del Vangelo di Gesù.

È ora che i cristiani “conciliari” tornino ad occupare gli spazi nella Chiesa istituzionale?

Sarebbe desiderabile, nella misura del possibile. Dobbiamo rivendicare che “siamo Chiesa” a tutti gli effetti. Per esempio, perché dobbiamo dipendere dal fatto che ci siano sacerdoti ordinati per celebrare insieme la memoria di Gesù, lasciarci consolare ed illuminare dal Vangelo, condividere pane e vino, rafforzarci per l’azione? A Gesù non è mai venuta in mente l’idea che mancassero sacerdoti ordinati e persone per celebrare la sua memoria. Lo stesso capita in molti altri ambiti della Chiesa.

Perché c’è tanto odio fra i cattolici più ortodossi, come quelli che filtrano dai commenti sul web?

Non è facile capirlo, o forse è facile: i più ortodossi sono troppo chiusi, e la chiusura irrigidisce noi stessi e gli altri. I commenti e gli insulti pieni di risentimento e aggressività che alcuni riversano continuamente, per esempio in Religión Digital, sono pura negazione della fede che dicono di difendere. Suppongo che se qualche alleato della Chiesa o del cristianesimo li leggesse, direbbe: “Che orrore di religione!”. E scapperebbe spaventato.

C’è uno scisma silenzioso fra la gerarchia e le basi della Chiesa?

Lo scisma è evidente. Ma la maggioranza dei cristiani è ormai sufficientemente adulta nella mentalità e nella fede per vivere in libertà e in pace, malgrado non osservi le direttive dogmatiche o morali della gerarchia. Penso, per esempio, a tante e tanti che vivono la loro fede senza attaccarsi a determinate credenze tradizionali che molti vescovi chiamano abusivamente «fede della Chiesa». Non è fede della Chiesa, ma credenza di una determinata parte della Chiesa. O penso a quanti vivono la loro sessualità fuori dalle norme canoniche: coloro che utilizzano contraccettivi, i gay e le lesbiche, i divorziati o separati che vivono con un altro partner… Se si amano e si aiutano, sono sacramenti di Dio. Dio li benedice, anche se la gerarchia li condanna.

Lei dice: «La Chiesa di Gesù, contro Gesù, ha umiliato la donna». A quando la riparazione?

È già tardi, forse troppo tardi. Le donne, come prima i giovani, come prima gli intellettuali, come prima i lavoratori stanno abbandonando l’istituzione ecclesiale cattolica perché non vi trovano il luogo della loro dignità. Badi, non penso che il luogo della loro dignità sia essere sacerdoti secondo il modello clericale di oggi. La grande maggioranza delle donne cattoliche di oggi, come la maggior parte degli uomini credenti, aspirano ad un altro modello di Chiesa, con un altro modello ministeriale molto diverso, più simile al movimento di Gesù, un modello democratico, comunitario, oltre la distinzione chierico-laico, ministeri ordinati-non ordinati… Che le donne siano sacerdoti e vescovi secondo il modello attuale non cambierà granché, ma forse potrebbe essere un passo intermedio per una riforma molto più profonda.

Lei continua ad essere un frate senza convento e un cristiano senza Chiesa?

Continuo ad essere francescano al di fuori dell’ambito istituzionale, ma mi sento accolto e amato dai francescani quanto o più di prima, e i loro conventi sono la mia casa. Nella fraternità di Bilbao ceno e dormo tre giorni la settimana, quando sono a Deusto (dove Arregi insegna, ndt). E ad Arantzazu ho la mia stanza di prima e vado quando voglio. In quanto alla Chiesa, in essa ci sono molte dimore, come direbbe Gesù, e se ti cacciano da una puoi andare in un'altra, e lì ti incontri con molte sorelle e fratelli, e tutti formiamo una Chiesa senza frontiere, anche se alcuni vogliono chiudere porte e finestre e mettere confini chiari fra il dentro e il fuori, e sebbene a volte ci siano conflitti. Sono inevitabili. Non può esserci comunione ecclesiale senza spazio per la differenza e il dissenso.

Immagino che la questione con mons. Munilla sia acqua passata. Ma lei continua a dolersi per la situazione della diocesi di San Sebastián?

Mentirei se dicessi che tutti i miei sentimenti sono puri, evangelici. Non lo sono e me ne dispiace e chiedo perdono. Ma il mio problema non è mai stato, e ancor meno lo è ora, con la persona di monsignor Munilla, ma con il sistema che egli rappresenta e vuole imporre come unico: una dottrina, una autorità, una politica, una morale, una Chiesa… la sua. Molto diversa, certamente, dalla Chiesa che vive e vuole la gran parte della diocesi. Credo che il maggior attentato contro la comunione ecclesiale venga oggi dalla gerarchia, e la nostra diocesi di San Sebastián ne è un buon esempio, un esempio doloroso. Basta vedere quello che è successo con il caso Pagola, il Seminario, il Progetto Pastorale…

José Antonio Pagola è un “eretico”, come dicono i settori “ultracattolici”?

La peggiore di tutte le eresie mi sembra il settarismo di alcuni di questi “ultracattolici”. È negazione radicale della cattolicità, che significa non solo pluralità, ma universalità. Vediamo il concetto formale di “eresia”: “dottrina contraria al dogma”. Non conosco nessun “ultracattolico” che abbia dimostrato cosa Pagola insegni di contrario al dogma, fra l’altro perché Pagola è intelligente e ha eluso attentamente ogni questione dogmatica. Ad ogni modo, né Gesù né san Pietro né san Paolo conoscevano qualche dogma cristologico. I dogmi sono formule storiche. E non concepisco che si possa oggi annunciare il Vangelo di Gesù alla grande maggioranza degli uomini e delle donne senza rivedere – con libertà, con rischi e a fondo – tutti, tutti i dogmi cristologici, che sono di altri tempi, molto diversi. Il Vangelo non si gioca in queste formule e nelle sue interpretazioni.

Lei ha sofferto in famiglia la ferita dell’Eta. Come si sente, dopo l’annuncio che i terroristi depongono le armi?

Mi sento immensamente sollevato, come quasi tutti i baschi e le basche. Abbiamo atteso questo momento tanti anni, troppi! Si è sofferto tanto, da entrambi le parti! Quanto alla mia famiglia, sì, ha sofferto anche direttamente per la violenza dell’Eta: ho un cognato che era guardia civil e la casa dove viveva con mia sorella è stata seriamente danneggiata da un bomba nel giugno del 1991, e prima e dopo hanno vissuto nella paura, e tutta la famiglia con loro. E amici di famiglia sono stati assassinati dall’Eta. Ma ci sono anche componenti della famiglia che hanno patito ingiustamente il carcere e la tortura. Comunque, ogni vittima è unica, ha un padre, una madre, un marito, una moglie… Si possono contare le vittime, “tanto da una parte che dall’altra”, e forse bisognerà farlo. Ma l’importante è che non ce ne siano altre, e cercare di curare e avere attenzione per quanto possibile a tutte quelle che ci sono state, ad ognuna in particolare, al di là degli editti.

Profitto dell’occasione che lei mi offre per riferirmi ad alcuni commenti su di me apparsi ripetutamente in Religión Digital. Per esempio, che non ho mai difeso le vittime dell’Eta. È assolutamente falso. O che inviavo «tutti i miei scritti» al «quotidiano pro-etarra Gara». Anche questo, totalmente falso. Non l’ho fatto mai, salvo due articoli che ho inviato a tutti i periodici del Paese Basco e che hanno pubblicato quasi tutti: quando mi sono ribellato al divieto di predicare, insegnare e scrivere che ho ricevuto da mons. Munilla nel giugno 2010 e quando ho deciso di lasciare l’Ordine nell’agosto dello stesso anno. Se Gara ha pubblicato altri miei articoli – non lo so: altri giornali sì, lo hanno fatto – sarà perché li ha presi da internet.

È giunta l’ora che l’Eta chieda perdono alle vittime?

La questione del perdono è troppo personale ed importante perché la si utilizzi per interessi impropri. Credo che nessuno di coloro che hanno procurato un male curerà la sua memoria e si riconcilierà con se stesso se non riconoscerà il danno perpetrato e in qualche modo dirà: “Mi dispiace. Perdono!”. E nessuno di coloro che hanno subìto il male, sia chi sia, curerà le sue ferite se non perdonerà sinceramente, se cioè non supererà l’odio e il sentimento di vendetta, e tornerà ad aver fiducia, per quanto possa, nella persona che ha procurato il danno. Tutto questo richiede tempo. Il perdono non si può imporre né esigere. I politici dovrebbero essere all’altezza ed avere la grandezza di facilitare, invece che di ostacolare, questo processo di cura di tutti quelli che hanno fatto e di quelli che hanno ricevuto un danno.