Lettera al cardinale Scola
di Paolo Flores D'Arcais
“la Repubblica” del 28 febbraio 2012
Caro cardinal Scola, ho letto con molto interesse il suo intervento su Repubblica di domenica, anche perché ripropone un tema su cui ho avuto l´onore di discutere con lei pubblicamente qualche anno fa alla Normale di Pisa (quel confronto, con un post-scriptum per parte, è diventato poi un piccolo libro, Dio?, presso l´editore Marsilio, purtroppo ormai introvabile): la laicità dello Stato, il rapporto tra fede e politica, Dio e Cesare, insomma. Lei sostiene che nello spazio pubblico deve avere cittadinanza la "narrazione religiosa", deve essere riconosciuta la fede in quanto fede. Su questa legittima e anzi utile presenza è da tempo sostanzialmente d´accordo con lei anche Habermas, filosofo non credente, e anzi il filosofo per eccellenza della scena europea.
Penso tuttavia che tale posizione non sia sostenibile. Sia chiaro, se per presenza pubblica si intende
il diritto ad esercitare in pubblico, anziché per catacombe, il proprio culto religioso, la cosa va da sé, a nessun democratico ateo è mai venuto in mente di metterla in discussione, è l´abc della libertà religiosa (di cui fa parte la speculare libertà di critica alle religioni, ovviamente). Ma con il "riferimento religioso nello spazio pubblico" si intende (lei, Habermas e tanti altri) una cosa ben diversa: che la propria identità religiosa, la propria fede in quanto fede, possa costituire elemento legittimo di quel processo permanente di formazione dell´opinione pubblica e deliberazione istituzionale, che mette capo alla promulgazione di una legge.
Io credo invece che nella sfera pubblica – dai dibattiti tv ai disegni di legge alle sentenze di tribunale – Dio non possa essere ammesso, perché ne andrebbe della democrazia stessa. La democrazia, infatti, non si limita a sostituire il peso dei voti al peso delle armi. Fosse questo, la società resterebbe un conglomerato di identità e "tribù" sempre sul piede di guerra, la conta dei voti sarebbe fragilissima sospensione della violenza. La democrazia fa invece tutt´uno con la realizzazione di uno spazio comune più forte delle differenze di fede e sangue, dove il voto è la conclusione di un dialogo permanente, in cui tutti si impegnano a persuadersi reciprocamente con argomenti razionali, anziché far valere la propria volontà con un prevaricatorio "perché sì!" (anche se maggioritario).
Ma come può avvenire davvero tale dialogo permanente, senza il quale non ci riconosceremmo reciprocamente come cittadini, se nel confronto razionale posso invocare un dogmatico "Dio lo vuole"? Perché di questo si tratta, quando si pretende che la religione in quanto religione abbia riconoscimento nello spazio pubblico. Facciamo il caso concreto di uno dei temi "eticamente sensibili" su cui si esercita abitualmente la pressione delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti della legislazione civile. La discussione sulla liceità o meno dell´aborto o del suicidio assistito, ad esempio, perché resti civile, cioè fra cittadini che tra loro argomentano, potrà utilizzare solo ciò che è a tutti comune: i fatti accertati (quando si forma nell´embrione il sistema nervoso, ecc.), l´uso della logica, i valori minimi e fondanti della democrazia (l´eguale sovranità/libertà di ciascuno). Se il credente è convinto di poter argomentare in modo persuasivo contro l´aborto e il suicidio assistito ricorrendo ai soli succitati ingredienti, vorrà dire che avrà già messo tra parentesi la sua fede e il suo vissuto religioso, avrà cioè già esiliato il suo Dio dalla sfera pubblica. Rivendicare un riconoscimento pubblico per la propria "narrazione" di fede, che si è intenzionati a non utilizzare mai, sarebbe perciò alquanto contraddittorio. D´altro canto, insistere a far pesare la fede in quanto fede per carenza di altri argomenti, significherebbe violare l´impegno al dia-logos e tornare all´incombente violenza del "perché sì" tra catafratte volontà di potenza.
In altri termini: è legittimo chiedere dal pulpito ai propri fedeli di non commettere adulterio, del tutto illegittimo invece anche solo auspicare che la legge dello Stato mandi in galera l´adultera (questa la legge quando ero ragazzo), o punisca l´aborto e il suicidio assistito. In vista della legge, di qualsiasi legge, nessun Dio e nessuna fede devono essere tirati in ballo, mai. Solo la ragione, e la nostra eguale libertà. Ma naturalmente spero vivamente, caro cardinal Scola, che il moltissimo altro