Profeti del Novecento
Arturo Paoli, una vita per gli oppressi
di Valerio Gigante
ADISTA n° 31 del 8.9.2012
Difficile immaginare una personalità del mondo cattolico che abbia vissuto così pienamente e intensamente, sia dal punto di vista politico che ecclesiale, il “secolo breve”, come fratel Arturo Paoli, il piccolo fratello di Charles de Foucauld che il prossimo 30 novembre compirà cento anni.
Laureato in Lettere a Pisa nel 1936 (allievo del grande italianista Luigi Russo), dopo aver insegnato per qualche tempo latino e greco al liceo Machiavelli, l’anno successivo decise di entrare in seminario nella sua città natale, Lucca, e venne ordinato prete nel giugno 1940, in concomitanza con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale.
Dopo l’8 settembre, tra il 1943 e il 1944, partecipò alla Resistenza, collaborando come referente a Lucca della rete clandestina Delasem (Delegazione per l'assistenza degli emigranti ebrei) e dando sostegno a circa 800 ebrei in fuga dalla persecuzione nazifascita. Per questo suo impegno, nel 1999 a Brasilia, l'ambasciatore d'Israele gli consegnò la più alta onorificenza attribuita da Israele a cittadini non ebrei: quella di “Giusto tra le nazioni”, per aver salvato nel 1944 a Lucca la vita di Zvi Yacov Gerstel, allora giovane ebreo tedesco e oggi tra i più noti studiosi del Talmud, e di sua moglie. Per la stessa ragione, nel 2006, l'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi decorò fratel Arturo, insieme ad altri tre sacerdoti lucchesi (don Renzo Tambellini, e gli scomparsi don Guido Staderini e don Sirio Niccolai), con la medaglia d'oro al valor civile.
Dopo la guerra, Paoli restò a Lucca fino al 1949, come assistente dell’Azione Cattolica. Poi l’associazione lo chiamò a Roma come vice-asistente nazionale. Erano gli anni della presidenza di Luigi Gedda, che aveva reso l’associazione una struttura collaterale alla Democrazia Cristiana, cinghia di trasmissione tra i vertici ecclesiastici e la politica, in un impegno diretto e capillare, nelle parrocchie e nelle diocesi, contro il marxismo e l’avanzata delle sinistre in Italia. La linea di Gedda, che intendeva imprimere all’associazione una forte svolta in senso conservatore e clericale, si scontrò con quella di altri giovani dirigenti dell’Ac dell’epoca, come Mario Rossi e Carlo Carretto, sostenuti, sotto il profilo teologico e pastorale, soprattutto da Paoli, oltre che da don Giuseppe Nebiolo, allora assistente ecclesiastico della gioventù studentesca di Ac. «A quel tempo – ha dichiarato recentemente Paoli – i giovani cattolici erano visti come coloro che dovevano amare e voler bene al papa. E basta. Era il retaggio di un certo anticlericalismo vissuto sulla breccia di Porta Pia. I giovani cattolici dovevano difendere il papa da questi attacchi». «Con Carlo capimmo subito che si poteva fare di più: preparare i giovani a impegnarsi nella costruzione del Regno di Dio, qui, oggi, sulla terra». Tra gli esponenti di questa nuova leva di laici cattolici, figure chiave della vita politica, culturale e scientifica del Paese negli anni successivi, come Umberto Eco, Pietro Pfanner, Cesare Graziani, Gianni Vattimo, Emanuele Milano, Silvio Garattini, Luciano Tavazza, Wladimiro Dorigo. Giovani che esprimevano forme profondamente diverse dal passato di concepire il rapporto tra la Chiesa e il mondo: al contrario di Gedda, di papa Pacelli e di tutto l’establishment della Chiesa, guardavano infatti alla secolarizzazione senza paura; anzi, come un elemento positivo che avrebbe potuto aiutare il cristianesimo a rinnovarsi. Ma in clima di scomuniche (ad esempio quella ai comunisti del 1949) e di scontro di civiltà, non c’era la possibilità di mediazioni, né di sintesi. Il punto di non ritorno fu raggiunto nel 1954, quando Mario Rossi, che ricopriva la carica di presidente della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac), rassegnò le sue dimissioni, seguito da quasi tutti i dirigenti centrali e da moltissimi dirigenti diocesani che poi entrarono in settori chiave della società e della cultura.
Due anni prima, dall’Azione Cattolica se ne era andato anche Carretto, anche lui presidente della Giac. Nessuna rottura clamorosa, in quel caso. Ma dietro l’uscita in sordina, si celava lo scontro con Gedda sulla cosiddetta “operazione Sturzo”, il tentativo cioè, sollecitato dallo stesso Pio XII e organizzato da don Sturzo, di formare in occasione delle elezioni comunali di Roma del 1952 una lista civica aperta anche ai monarchici e al Msi. Un progetto che naufragò per l’opposizione di una parte della Dc e l’aperta contrarietà di De Gasperi, e al quale Carretto fu fermamente contrario, nonostante Gedda lo avesse sposato con convinzione.
All’inizio del 1954, poiché il Vaticano aveva fatto capire di non gradire la sua presenza in Italia, Paoli si imbarcò come cappellano sulla nave argentina Corrientes, destinata al trasporto degli emigranti. Durante il suo servizio pastorale incontrò un piccolo fratello della Fraternità di Charles de Foucauld e decise di fare un periodo di noviziato a El Abiodh, al confine con il deserto, in Algeria. Proprio qui, Paoli ritrovò per un breve periodo Carretto, anch'egli novizio dei piccoli fratelli.
Terminato il periodo di “deserto”, negli anni in cui scoppiava la guerra di liberazione algerina, fratel Arturo lavorò, ad Orano, come magazziniere in un deposito del porto. Nel 1957 venne incaricato di fondare una nuova Fraternità a Bindua, nelle miniere di Monterangiu, in Sardegna.
Ma la sua presenza in Italia continuava a non essere gradita Oltretevere. Paoli decise quindi di trasferirsi in Argentina, a Fortin Olmos, tra i boscaioli che lavoravano per una compagnia inglese del legname. Paoli partecipa alle lotte conto la multinazionale; poi, quando la multinazionale se ne va, promuove la nascita di una cooperativa di lavoratori. Nel 1969 fu scelto come superiore regionale della comunità latinoamericana dei piccoli fratelli, e si stabilì vicino a Buenos Aires. Lì, a fianco dei novizi, iniziò a sposare la causa della Teologia della Liberazione e a scrivere libri (come il celebre Dialogo sulla Liberazione, che Gustavo Gutiérrez, considerato il “padre” della TdL, dirà essere stato fondamentale fonte d’ispirazione).
Nel 1971, con la nascita di un nuovo noviziato a Suriyaco, nella diocesi di La Rioja, fratel Arturo si spostò nuovamente, divenendo amico del vescovo di quella diocesi, mons. Enrique Angelelli, vicino alle istanze dei minatori e dei lavoratori rurali, tra le poche voci che nella Chiesa istituzionale si distingueranno nella chiara denuncia dei crimini commessi dalla nascente dittatura militare, che se ne sbarazzerà uccidendolo (e simulando un incidente automobilistico) nel 1976.
Intanto, nel 1974, poco dopo il colpo di Stato guidato da Pinochet, il nome di Arturo Paoli era comparso sui muri di Santiago del Cile al secondo posto di una lista di proscrizione di persone da eliminare da parte di chiunque le avesse incontrate. Arturo si trovava allora in Venezuela, come responsabile dell'area latinoamericana dei piccoli fratelli e ricevette da amici il consiglio di non rientrare in Argentina, Paese dove il clima politico si stava facendo difficile e dove avrebbe rischiato di essere arrestato ed estradato. Iniziò così l'esperienza venezuelana, prima a Monte Carmelo, poi alla periferia di Caracas. Dal Venezuela, di tanto in tanto Paoli si spostava in Colombia, Brasile, Messico.
All’inizio degli anni Ottanta visitò il Nicaragua dove, dopo la rivoluzione sandinista del ’79, alcuni preti erano entrati a far parte del governo rivoluzionario, nonostante la contrarietà di Giovanni Paolo II. Nel 1983 Paoli decise di stabilirsi definitivamente in Brasile. Prima a Sao Leopoldo, nello Stato del Rio Grande, dove entrò in contatto con la realtà della prostituzione e poi, a partire dal 1987, a Boa Esperança, un barrio della periferia di Porto Meira, nella città di Foz do Iguaçu: una favela caratterizzata da miseria e degrado civile che Paoli ha contrastato grazie alla fondazione dell’Afa, Associazione Fraternità e Alleanza, un ente senza fini di lucro con progetti sociali rivolti alla comunità locale.
Dal 2006 fratel Arturo è tornato stabilmente a vivere in Italia, dove pure ogni anno risiedeva per alcuni periodi, specie durante l’estate, che trascorreva presso la comunità di Spello. Attualmente, vive nella Casa "Beato Charles de Foucauld" a san Martino in Vignale sulle colline di Lucca, partecipa a convegni e incontri, pubblica nuovi libri. Proprio a Lucca, il 3 dicembre 2011 è stato inaugurato il "Fondo documentazione Arturo Paoli", una raccolta di immagini, video, scritti a testimonianze della sua lunga vita.
Anche negli anni in cui è stato meno presente in Italia non ha fatto mancare il suo contributo critico al dibattico politico ed ecclesiale. Nell'agosto 1995 scrisse a Repubblica una risposta al dialogo tra Eugenio Scalfari e lo scrittore Pietro Citati sull’importanza del mercato. «Mi ha colpito – scrisse rivolgendosi a Scalfari – il suo mettere in evidenza il mercato come elevato a divinità, perché da anni denunzio l'idolatria del mercato. Ciò mi è stato spesso rinfacciato come prova di ignoranza delle dottrine economiche. Sono cosciente della mia ignoranza, ma guardando l'idolatria del mercato nella prospettiva del Regno non vedo altro che milioni di persone stritolate sotto le ruote del mercato. Questa visione per me è quotidiana quando, all'alba, apro la porta della mia casa e trovo subito nei vicoli della favela le persone che gemono sotto le ruote del mercato, e sono la mia famiglia».
Quello stesso anno Paoli rifiutò la medaglia d'oro che annualmente la Camera di commercio assegna ai lucchesi che hanno onorato la città nel mondo. Spiegò così il suo gesto: «Appartengo per nascita e formazione all'Occidente che globalmente si dice cristiano, dalle Montagne Rocciose agli Urali, ed è incontestabile che questo mondo cristiano che si definisce Primo Mondo è al centro delle ingiustizie che sono la causa della fame di milioni di esseri che il catechismo ci ha insegnato a chiamare fratelli: io torno in Brasile e non posso tornarvi ostentando sul petto una medaglia che premia la mia attività di “missionario”, rappresentante di una civiltà cristiana che spoglia della terra esseri umani che vi vivono da secoli prima di Cristo. Una spoliazione che dura dal 1492». Altro rifiuto, nel 2000, quando venne invitato al Giubileo degli anziani, nella sala Nervi. «Sotto il pontificato di Wojtyla – scrisse per motivare la sua decisione – i poveri dell’America Latina sono stati massacrati togliendogli i loro pastori e protettori per combattere, secondo il progetto Reagan, la “comunista” Teologia della Liberazione».
Nel 2005 ad essere rifiutato è invece Paoli: alla marcia della pace, promossa a Trento il 31 dicembre da Pax Christi, insieme a Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, la Caritas Italiana e la diocesi di Trento, gli organizzatori lo avevano scelto tra i relatori, assieme ad Antonio Papisca, docente all’università di Padova. Da Roma arrivò però un veto sul suo nome: la sua presenza avrebbe “strumentalizzato” per fini ideologici la marcia. Dirlo pubblicamente non si poteva. Così, la scappatoia formale fu che Paoli, come Papisca, non era trentino, quindi per la Cei inadatto a guidare le riflessioni di un incontro organizzato all’interno della diocesi.