«LA RETORICA MILITARISTA DI “AVVENIRE” È INSOPPORTABILE».
CENTO PRETI CONTRO IL QUOTIDIANO DELLA CEI

di Luca Kocci

ADISTA n° 30 del 1.9.2012

36814. ROMA-ADISTA. «Davanti ad ogni vita umana stroncata è doveroso un rispetto profondo», ma «è davvero insopportabile questa retorica sulla guerra sempre più incombente e asfissiante». A scriverlo sono oltre 100 preti, parroci e religiosi di ogni parte d’Italia che esprimono forte disappunto nei confronti di Avvenire che lo scorso 8 agosto ha dedicato una pagina intera agli «eroi per la pace» – ovvero i soldati italiani morti durante le missioni militari internazionali i cui famigliari hanno dato vita all’associazione “Caduti di guerra in tempo di pace” – e ai cappellani militari.

«Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della “missione” e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre, chiamate appunto “missioni di pace”, ma in realtà “avventura senza ritorno”», si legge nella lettera appello pubblicata sul sito di Pax Christi. «Da sempre abbiamo presentato ai cristiani gli eroi della fede e ci scandalizziamo se ora volete rappresentarli con le armi in mano e, per nascondere le responsabilità di tanto sangue versato in questa “inutile strage”, fate diventare “eroi per la pace” questi giovani strappati alla loro vita, vittime della guerra».

A «scandalizzare» i preti, oltre alla scelta editoriale del quotidiano della Conferenza episcopale italiana, è una lunga intervista all’ordinario militare, mons. Vincenzo Pelvi. «Ci colpisce molto – scrivono – leggere che anche l’ordinario militare si allinea a questa retorica della guerra dichiarando, per esempio, che fare il militare è “una professione aperta al bene comune e allo sviluppo della famiglia umana” oppure sostenendo che “i cappellani militari sono parroci senza frontiere, impegnati in una pastorale specifica sul fronte della pace”. Ce ne vuole davvero a descrivere “l’aeroporto di Ciampino dove arrivano le salme dei nostri soldati uccisi” come “una scuola di fede”. E ancora “essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti”. Come cristiani e come sacerdoti restiamo stupiti per questo assai strano insegnamento magisteriale e, alla luce del Vangelo, siamo sconcertati», anche perché, ricordano i preti, abbiamo in mente le testimonianze dei primi martiri cristiani «che rifiutavano il servizio militare e non bruciavano il grano d’incenso all’imperatore considerato una divinità», come san Massimiliano, condannato a morte nel 295 «poiché, “con animo irrispettoso, hai rifiutato il servizio militare”». O come il beato Franz Jagerstatter, «obiettore di coscienza contro il servizio militare nel III Reich di Hitler (mentre la maggior parte dei cattolici combattevano) e per questo ghigliottinato il 9 agosto 1943. È stato Papa Benedetto XVI, nel 2007, a proclamarlo beato e martire nel suo opporsi al servizio militare e alla guerra!».

L’iniziativa di Avvenire non è nuova né isolata: già lo scorso 2 giugno, festa della Repubblica, il quotidiano della Cei aveva riservato un paginone ai cappellani militari con un lungo articolo di mons. Pelvi (v. Adista Notizie n. 23/12) e il dossier di luglio del mensile dei paolini Jesus era interamente dedicato ai cappellani, in particolare quelli militari, «pastori itineranti che predicano la pace giusta» (v. Adista Notizie n. 29/12). Per non parlare poi dell’idea di mons. Pelvi di proclamare Giovanni XXIII patrono dell’esercito (v. Adista n. 80/11).

«Ci colpisce non veder affiorare nemmeno uno degli interrogativi che gli italiani e i cristiani si pongono ormai da anni, assistendo alla fallimentare carneficina afghana», scrivono i preti “pacifisti”: «La nostra presenza militare in Afghanistan costa 2 milioni di euro al giorno, e quali sono i risultati? Se li avessimo investiti in aiuto alla popolazione con ospedali, scuole, acquedotti non avremmo forse tolto consenso ai talebani e ai signori della guerra? E delle vittime in “campo nemico” chi se ne occupa? Abbiamo i numeri esatti dei morti e feriti italiani! E quante sono le vittime irachene o afghane? Forse dobbiamo rassegnarci a considerare le migliaia di esseri umani uccise in questa assurda guerra solo “effetti collaterali”?». «Chiediamo di aprire un confronto serio e schietto sul tema della guerra, del servizio militare, oggi non più legato all’obbligo della leva, e della presenza dei cappellani tra i militari», concludono la loro lettera-appello. Oggi, «a 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, crediamo doveroso riaprire un riflessione seria sulla condanna della guerra e sulle strade che sono chiamati a percorrere gli operatori di pace».

Pochi giorni dopo, il 12 agosto, Avvenire ha pubblicato la lettera, con una risposta del direttore Marco Tarquinio, e il 17 agosto sul giornale dei vescovi appaiono anche le lettere di alcuni lettori (fra cui un soldato) equamente divisi fra favorevoli e contrari. «Il vostro scandalo mi dispiace e, devo ammetterlo, un po’ scandalizza anche me», scrive Tarquinio, che si dice colpito per i «modi» – la lettera pubblica – e i «toni» usati dai preti, «ma soprattutto per la sentenza senza appello che emettete, reverendi lettori, nei confronti dei soldati italiani che, se caduti o rimasti feriti, proclamate “vittime” ma subito dopo dipingete come parte di un gruppo di portatori di “strage”, come complici di una masnada intenta a far “carneficina” in Afghanistan. E il problema, serissimo dal mio punto di vista, è che non state parlando dei taleban, ma dei nostri soldati e persino dei nostri cappellani militari. Credo che non ci sia vero “rispetto” in questo. Credo che sostenerlo sia contro la verità e contro la carità, e francamente non riesco a catalogarlo come un esempio di ragionamento non-violento». Non tutto quello «che fanno i soldati italiani impegnati in missioni internazionali» è «perfetto e perfettamente pacifico», prosegue Tarquinio, tuttavia «constato che servono con dedizione il Paese e le Nazioni Unite in contesti difficilissimi e segnati dal sangue», «un servizio reso secondo regole ispirate ai valori della Costituzione repubblicana e, grazie a Dio, con un’umanità arricchita e resa salda dalla fede cattolica che ha plasmato la nostra cultura nazionale».