Anniversari
Padre Turoldo, un profeta del ‘900
di Ettore Masina
ADISTA n° 7 del 2.2012
Padre Davide
Maria Turoldo è morto il 6 febbraio del 1992 e certo molti giovani di oggi non
lo hanno mai sentito nominare, se non per qualche poesia sulle antologie
scolastiche meno conformiste. Ma il ricordo di lui è ancora vivo in molti
adulti, come si vede dalla imminenza di numerosi convegni dedicati alla sua
memoria e a quella del suo amico Ernesto Balducci, morto poco dopo di lui, il 25
aprile 1992. Turoldo e Balducci, due uomini diversissimi fra loro, rimangono
infatti tra i maestri di chi, durante e dopo il Concilio, pensò che la Chiesa
avrebbe dovuto diventare, secondo la parola di Giovanni XXIII, Chiesa dei
poveri.
Essi stessi erano figli di poverissima gente. Davide, nono di dieci figli, era
stato pastore, da bambino, prima di entrare in seminario; la casa dei suoi
genitori era così misera da non avere neppure un camino, le pareti dunque
annerite dal fumo. Considerò sempre questa sua condizione come un titolo di
nobiltà: il suo Cristo si era identificato nei poveri e aveva proclamato che il
criterio del giudizio universale sarebbe stato quello della solidarietà mostrata
o negata loro. Così, uomo dal multiforme ingegno, Turoldo fu monaco, nell’ordine
dei Servi di Maria, e poeta, scrittore di meditazioni teologiche e di note
politiche, predicatore di successo anche mediatico, teatrante e persino
sceneggiatore e regista di un film. Ma tutto questo avendo sempre come bussola i
diritti dei poveri, la loro dignità, la necessità, per i credenti, di
testimoniare la propria fede con le opere. Nella chiesa milanese di san Carlo al
Corso, presso la quale era stato “incardinato” nel 1940, inventò la “messa del
povero”, durante la quale si raccoglievano offerte anche di generi alimentari e
vestiario, ma chiarì subito ai fedeli che questo era il minimo che il Vangelo
richiedesse: ben più radicali erano le esigenze della carità.
Con il suo fraterno amico, p. Camillo de Piaz, fondò un centro culturale
denominato Corsia dei Servi, che dopo l’8 settembre 1943 divenne un nucleo
importante di resistenza al nazismo e al fascismo. Furono nascosti fuggiaschi,
aiutate famiglie, ospitate riunioni clandestine, stampato e diffuso un giornale
(L’Uomo) in cui si cominciava a discutere delle forme da dare alla nascente
democrazia italiana. Da allora Turoldo si legò vitalmente a ogni lotta di
liberazione, non solo a quelle italiane dei contadini e degli operai, ma anche
di regioni lontane: da quella antifranchista a quella del Salvador di mon. Oscar
Romero, del Guatemala di Rigoberta Menchú, del Nicaragua di Ernesto Cardenal,
dei movimenti “neri” degli Stati Uniti e del Sudafrica. Nell’epoca della guerra
fredda non permise a nessuno di incasellarlo negli schemi di quello che lui
chiamava sprezzantemente «il sistema». A chi lo invitava (ma è un eufemismo) ad
aderire alla Democrazia Cristiana, rispondeva che non si doveva confondere un
partito con la Chiesa né la Chiesa con un partito.
Amò grandemente papa Gio-vanni e il Concilio e fu appassionatamente con chi
desiderava che il cattolicesimo italiano diventasse più cristiano. Anche da
questo punto di vista non si limitò a predicare: già colpito dal cancro che lo
avrebbe ucciso, lavorò con impegno, insieme a Gianfranco Ravasi, a una nuova
versione italiana del Salterio, prezioso dono alla Chiesa.
Questa sua poliedrica personalità, il tumulto dei suoi sentimenti, la radicalità
della sua testimonianza di fede gli procurò l’ostilità di non pochi clericali e
di atei devoti; i suoi superiori, almeno alcuni, lo amarono – o almeno lo
stimarono – ma temettero che la sua presenza fosse troppo ingombrante e
risultasse scandalosa ai vertici vaticani. Perciò, più volte, lo allontanarono
dall’Italia senza rendersi conto che in questo modo si espandeva il raggio della
sua azione. Turoldo diventò così, oggetto di interesse in molti Paesi e maestro
più o meno consapevole di sacerdoti e di seminaristi.
Il suo macro ecumenismo nel nome dei poveri lo rese amico di Vittorini e di
Carlo Bo, di Testori e di Pasolini, di Luzi, Giudici, Zanzotto, Sanguineti e di
tanti altri intellettuali che pure non sarebbero facilmente stati disposti ad
accettare il nome di cristiani. Ma, naturalmente, anche più ampia fu la cerchia
degli amici con i quali condivise sensibilità ed esperienze ecclesiali:
Dossetti, Lazzati e La Pira, p. Balducci, don Zeno Saltini, don Milani, don
Mazzolari, don Vivarelli, p. Nazareno Fabretti, Luigi Santucci.
Trascorse gli ultimi anni in una antica abbazia, da lui restaurata con il
contributo di amici, a Fontanella di Sotto il Monte (Bg), il paese natale di
papa Giovanni XXIII. Come era accaduto in tutti i luoghi in cui aveva dovuto
piantare la sua tenda di pellegrino o di esiliato, gli si strinse attorno una
comunità che con lui vedeva la necessità di un vangelo incarnato non in grandi
strutture ma in piccoli cerchi di amicizia. Nel 1988 seppe di dover morire entro
pochi mesi. Allora vedemmo in lui più chiaramente la profondità della sua fede
in un’attesa serena dell’eternità.
Il 21 novembre 1991 il cardinale Martini, arcivescovo di Milano, gli consegnò il
Premio Lazzati per l’appassionata ricerca sui rapporti fra religione e società
civile. Martini, quasi piangendo chiese scusa al vecchio poeta per le
incomprensioni della Chiesa. «La tua – disse – è stata una delle voci profetiche
del nostro tempo».
Il 2 febbraio 1992 era domenica. Turoldo celebrò la sua ultima messa nella
cappella dell’ospedale San Pio X di Milano. Si congedò dai suoi amici dicendo:
«La vita non finisce mai». La mattina del giovedì seguente “visse la sua
Pasqua”. Più di tremila persone sfilarono accanto alla sua bara. C’era molta
gente “importante” alla quale egli non aveva negato amicizia (ma non senza
additare loro la severità della parola di Dio), ma moltissimi erano i poveri,
che non avevano certamente compreso a fondo il linguaggio poetico di Davide ma
avevano capito con certezza che egli era sempre stato dei loro.
Che resta di lui? In questi giorni, voglio ricordare soprattutto un episodio.
Dopo la Liberazione, Milano conobbe una primavera di feste come non se ne sono
viste più, ma il resistente Turoldo non vi partecipò: continuava a pensare ai
lontani, quelli portati via dai nazisti, imprigionati in campi di concentramento
o, peggio, in quei luoghi di sventura dei quali si cominciavano a scoprire le
orrende dimensioni. No, la guerra non era ancora finita se centinaia di migliaia
di persone erano sperdute al freddo, alla fame, mentre gli eserciti vittoriosi,
inseguendo il nemico in fuga, non si fermavano ad assisterle. P. Davide mobilitò
allora la Terra ma soprattutto, ne sono convinto, il Cielo. In pochi giorni,
pregando ma anche gridando minacciosamente (era un nonviolento, ma la gente che
non lo sapeva vedeva invece le sue enormi mani e le sue braccia gigantesche),
improvvisò una colonna di camion, raccolse viveri, trovò coraggiosi che lo
accompagnassero e partì. È impossibile a chi non ha conosciuto quei tempi
comprendere cosa volesse dire, allora, trovare degli autocarri, del carburante,
dei generi alimentari e dei volontari disposti a lasciare le loro famiglie per
attraversare un’Europa ancora in preda ai colpi di coda della mostruosa Bestia
della violenza. Turoldo ci riuscì.
L’impresa di Davide e dei suoi amici fu una straziante Odissea per un continente
distrutto e insanguinato, mentre già gli statisti vincitori cominciavano a
valutare la convenienza di una nuova guerra. Trovò uomini così schiacciati dagli
orrori subìti da non riuscire più a credere di essere tornati liberi. Misurò
nelle masse disperate dei vinti e nella superbia dei vittoriosi a quali
disumanità può portare la negazione della dignità umana. Penso che oggi ci
domanderebbe cosa stiamo facendo perché la dignità dei poveri non sia
schiacciata dai pesi che gli “esperti” impongono loro per medicare il malconcio
sistema del profitto, così come hanno sempre fatto i professionisti della
realpolitik ogni volta che è entrato in crisi il sistema del potere.
* Giornalista, scrittore, fondatore della Rete Radié Resch. Il suo ultimo libro è “L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo”, (Il Margine, Trento, 2011; v. Adista 24/11)