Umberto Carnera, il pugile suonato che ha governato l’Italia
ALESSANDRO ROBECCHI
Il Manifesto 10 aprile 2012)
Vecchia questione da risolvere una volta per tutte. Un tizio cade in un fosso. Si ride, e questo è umorismo. Oppure. Il tizio che cade nel fosso è una specie di guru, o santone, o dittatore che ha sempre negato l’esistenza dei fossi e ha trattato come coglioni chi ci credeva. Si ride di più, e questa è satira. Ecco. Tutta la recente e recentissima letteratura (cioè i giornali) sulla Lega presa con le mani nel sacco riguarda questo: il bastonatore bastonato, il moralista immorale, il puritano con le braghe calate. Insomma, quelli di “Roma ladrona” che fanno i ladroni anche loro. Ai piani alti. Di più: a casa del capo supremo, e non è un modo di dire. Home sweet home.
Gemonio, interno giorno. La famiglia, quella che sulla cartelletta nella cassaforte del tesoriere Francesco Belsito (“Tombolotto”) si chiamava The Family. Tutta una barzelletta. Lui, il capo supremo, mollato dalla prima moglie perché usciva con la valigetta dicendo che faceva il medico e invece andava al bar. Dottore, figurarsi. L’Umberto, quello che cantava “dentro nei dischi” (cfr: Jannacci) col nome di Donato. Poi agitatore e arruffapopolo. Lei, la Manuela, coi suoi libri esoterici, magia, astrologia, mesmerismo e chissà che altro. Un figlio, Riccardo, che corre in macchina (Porsche, debiti, eccetera, paga il partito); un altro, Renzo, che tutta la vita resterà il Trota, col suo diploma farlocco, uno che conta sulle fette di salame che il papà si appone, padanamente, sugli occhi. Gli fa vedere il libretto dell’università, ma tu pensa, e quello crede che il suo Trota (origine del termine: un delfino, ma pirla) abbia fatto l’interprete tra Silvio e la Clinton. Fantascienza. Un altro pargolo, Roberto Libertà, che tira gavettoni di candeggina ai comunisti, e poi il più piccolo, innocente e dunque tacciamo, ma si chiama Sirio Eridanio, e vorrà pur dire qualcosa. Vicina di casa, la Rosi Mauro, detta “la nera”, detta “la badante”. Posta dalla Manuela (siamo in pieno romanzo popolare, Liala dopo il quinto gin tonic) a guardia del bigoncio, inteso come Bossi Umberto. Lo guida, lo accompagna, lo bada, appunto. Sarebbe la vicepresidente del Senato della Repubblica, per dire. Una col sindacato che pompa soldi del partito, per quanto gli iscritti al Sin.Pa. siano meno dei pakistani biondi. Una con l’”amico” un po’ poliziotto un po’ cantante (unica canzone nota, “Kooly noody”, che si legge “culi nudi”, comunque, esprit de finesse), conosciuto quando faceva la scorta a Umberto e ora anche lui con contrattino al Senato-della-Repubblica-Italiana-l’Italia-chiamò! E vabbuò. Questo lo scenario. Tutti intenti, tra le altre cosucce, a comprar diplomi e lauree con soldi del partito (oltre 350 mila euro) proprio loro, fieri delle canottiere working class e orgogliosi dell’ignoranza popolare, usi a calpestar congiuntivi – e purtroppo non tacendo.
Umberto Carnera
E la difesa è peggio dell’accusa. L’Umberto non sapeva, l’Umberto era raggirato, tenuto in ostaggio dal cerchio magico degli adepti pilotati dalla Manuela, questa Yoko Ono del Carroccio, diciamo. E dunque scelga il suddito se è meglio un capo che traffica con cinica furbizia ladresca (à la Bettino, per capirci), o uno che non sa, non vede, non annusa, non intuisce. Quella dei difensori più strenui è la difesa dei disperati: una specie di “ci appelliamo all’infermità mentale”. Con il che si ammetterebbe, però, che negli ultimi otto anni (2004-2012) la politica italiana è stata in mano (anche) a una specie di minus habens, un pugile suonato buono per la propaganda. Umberto Carnera, ecco. Le cene del lunedì ad Arcore, le sacre alleanze, le sparate propagandistiche, il dito medio, le pernacchie, i pugni vibrati nell’aria. Ma anche: i respingimenti in mare, il pacchetto sicurezza, il reato incivile di clandestinità, e altre nefandezze parafasciste. Tutto in mano a uno che ora – ci vorrebbero far credere – non sapeva, non vedeva, non sentiva. Tre scimmiette in una, insomma. Ma circondata, la scimmietta, da furbetti di tre cotte. Il tesoriere che investe in Tanzania, qualche mefitico odor di ‘ndrangheta che sa di riciclaggio, la segretaria (“fedelissima”, ahahah) che consiglia di metter via pezze d’appoggio per quando il gioco si farà duro. Quelli che “abbiamo una banca” (Credieuronord) che però fallisce di brutto, e allora viva il Fiorani e il Fazio che gli salvano il culo. E il villaggio padano in Croazia, fallito pure quello. E altre anime belle, come il Castelli Roberto (fu ministro della giustizia, financo), uno che doveva controllare i bilanci, occhiuto verificatore, ma che alla stampa guaisce: “Belsito non mi faceva vedere i conti”. Ammazza, che guardiano del faro!
Sul territorio
E poi, altra leggenda padana, la buona amministrazione. Perché il ritornello, ora che la diga frana e tutto travolge, è che “amministrano bene sul territorio”. Altra clamorosa scemenza che è lì da vedere. Come per il sesso, che più se ne parla e meno se ne fa, il territorio: stessa cosa. Con ‘sta parola che ricorre come un mantra, il territorio, il territorio. E poi vallo a vedere sto territorio padano, cemento dappertutto, capannoni come se piovesse. E quando piove davvero, poi, fiumi che escono il libera uscita, argini sopra il livello delle strade, case diventate villette e poi ville – attenti al cane, nel senso attenti a non investirlo col Suv – e laboratori diventati fabbrichette, e poi fabbriche, e poi fabbriconi. Il famoso territorio che da una ventina d’anni questi campioni governano, sì, ma come? Battezzando in padano i nomi dei paesi, sai che riforma. O inventandosi la parata medievale in posti che nemmeno esistevano non dico nel Trecento, ma nemmeno cinquanta o sessanta anni fa.
Barbari ripugnanti
Ora che l’inganno si svela, un po’ di luce appare. Primo raggio di sole: ma il padano vero, il nordico laborioso, il lombardo un po’ calvinista con la sua etica del lavoro, cosa diavolo c’entra con questa marmaglia traffichina? Con le lauree comprate, coi macchinoni pagati dal partito, col gigolò che gorgheggia “Kooly noody”, con la scorta di undici ceffi che protegge (ma non da se stesso) il Trota? Non era dunque un esproprio quello perpetrato da questi magliari, esproprio ai danni di un’etnìa (?) intera che al 20, al 30 per cento ci è pure cascata? E ancora, per restare alla luce che emerge dalle tenebre leghiste, oltre alla beffa di figurare ladroni dopo aver gridato ladroni a tutti gli altri, cos’hanno prodotto ‘sti campioni della pulizia etnica? Federalismo? Zero. Indipendenza? Peggio che andar di notte. Meno tasse? Figurarsi! Più decentramento? Manco per sogno. Insomma, il bilancio è sottozero, e in più si aggiunge a mo’ di ciliegina, la storica figura di merda.
E non stupisce trovare tra gli orfanelli della Lega i grandi commentatori. I grandi esperti, e osservatori, e politologi, e strateghi della stampa che conta, che piangono la dipartita di questa forza “vitale e innovativa” che avrebbe dato al nord del Paese un’identità. Incredibile. Come se posti che hanno prodotto Gadda, Montale, Olivetti, Fo e altri geni lombardi, avesse bisogno, per farsi un’identità, di un Calderoli, di un Borghezio. Il mondo alla rovescia.
Ecco, a loro, anche a loro, la Lega mancherà. E infatti già ne auspicano la rinascita. Magari attraverso quel Bobo Maroni che si propone come il nuovo, ma che per accreditarsi ai militanti deve ricordarsi vecchio, accanto al capo deposto mentre imbrattava muri e incollava manifesti. Leghista di nuovo conio, “ma anche” (direbbe Veltroni) della prima ora, moderno ma anche antico, bossiano ma anche no. Ministro dell’Interno capace di autoincensarsi ad ogni arresto di boss, ma incapace di sentir odore di marcio in casa. Insomma, a dirla con l’antico linguaggio politico, democristiano sognante, ascendente furbetto. Uno che grida: “Pulizia, pulizia, pulizia!” per ereditare il trono di Re Bolso, Umberto Primo della Lega. Parlandone da vivo, s’intende. E al netto dei dané.