UOMINI E NO
Marco Revelli
il manifesto 2012.09.19
Non è un
problema tecnico. Non c'era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o
finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu
presentato in pompa magna, che il piano «Fabbrica Italia» stava sulle nuvole.
Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle
650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli
destinati all'esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel
raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila)
in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi
di euro d'investimenti in Italia (i due terzi dell'intero volume mondiale del
Gruppo Fiat!), senza uno straccio d'indicazione sulla loro provenienza, senza un
piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul
tavolo verde.
Non è nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I
pochi - pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo scrissero, non
lo fecero perché «ideologicamente» ostili alla Fiat, o all'«impresa», o al
«capitale». Se gli uomini della Fiom, unica organizzazione nell'intero panorama
sindacale, capirono al volo che quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne
- sacrifici operai subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola
mortale, non lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché,
appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di fabbrica,
spalla a spalla con altri uomini e donne con cui condividevano difficoltà,
sentimenti e interessi.
Forse sta tutta qui la soluzione dell'arcano del «caso Marchionne». In una
questione di «antropologia»: nella materialità di una condizione umana e di un
sistema di relazioni su cui è passata come un rullo compressore una drammatica
«apocalisse culturale». È sicuramente il prodotto di un'apocalisse culturale
l'anti-eroe eponimo della vicenda, l'AD Sergio Marchionne, svizzero fiscalmente,
americano aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo sono i variopinti
eredi della famiglia Agnelli - i «furbetti cosmopoliti» di cui parla Della Valle
- figure ormai abissalmente distanti dal tipo umano dell'imprenditore del primo
e anche del secondo capitalismo. Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente
distruttore», calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e
irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i nuovi
manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui parola vale l'éspace
d'un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta («Siamo qui. Anzi io sono a
Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia», ha detto l'a.d. Fiat a Ezio
Mauro nell'intervista pubblicata proprio ieri da Repubblica, erettasi per
l'occasione a informale tramite tra Impresa e Governo). Marchionne non è un
imprenditore in senso stretto. Non sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora
i tedeschi, come la Volkswagen che ne produce 8 milioni all'anno e veleggia
verso i 10 milioni, e che investe in ricerca e sviluppo quasi 7 miliardi di
euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo più finanziati dalle banche italiane e
impegnati per trasferire oltre oceano la tecnologia Fiat.
Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l'anno di Fabbrica Italia, ha provocato
la più severa caduta sul mercato europeo mai registrata (la Fiat è scesa ad
appena il 6,7%) ma in compenso ha portato il proprio gruppo a guidare la
classifica della redditività per gli azionisti, «con un ritorno sul capitale del
33%»! Vale per lui quanto scritto da Richard Sennett sui manager globalizzati di
ultima generazione nel suo ultimo volume su La cultura del nuovo capitalismo:
gente che vive strutturalmente - in forza della distanza abissale, di reddito e
di stile di vita, che li separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la
divaricazione tra guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura.
Specializzati nel pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima
trimestrale, e a muoversi per improvvisazioni più che per programmazione e
pianificazione. Gente, diciamolo, di cui non fidarsi!
Ma prodotto di un'apocalisse culturale sono anche gli altri. Quelli che
dovrebbero stare di fronte a Marchionne, e che invece gli stanno dietro (o
sotto): i Bonanni, gli Angeletti, buona parte della politica, quasi tutta
l'amministrazione. Che cosa ha portato il capo della Cisl Raffaele Bonanni,
nell'aprile del 2010 a «brindare alla salute di Fabbrica Italia», definendola
«una minirivoluzione che potrebbe riportare l'Italia ai vertici produttivi di un
tempo»? E ancora l'anno successivo a dichiarare: «Sarà brusco, sarà crudo, ma
Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat.
Grazie a Dio c'è un abruzzese come Marchionne». Che cosa ha spinto il segretario
della Cisl torinese Nanni Tosco - che pure dovrebbe essere un po' più vicino ai
luoghi della produzione - a sbilanciarsi definendo il piano di Marchionne
«un'opportunità irripetibile per il sindacato e assolutamente da cogliere,
evitando di infilarsi tra le ombre del 'piano B'»? E il futuro sindaco Fassino,
alla vigilia del famigerato referendum sull'accordo a Mirafiori, a dichiarare
senza esitazione che se fosse stato un operaio Fiat (sic) avrebbe votato sì? Ma
è pressoché tutto il mondo politico ad aver assistito ai preparativi della fuga
di Marchionne - come ha scritto Loris Campetti - «con il cappello in mano,
spellandosi le mani ad applaudire le prodezze di un avventuriero». Perché?
Non erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il leggendario
segretario della Camera del lavoro di Torino venuto dagli anni duri), ma nemmeno
i Cesare Delpiano, gli Adriano Serafino, i Pierre Carniti, i responsabili della
Cisl piemontese e nazionale che guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva
conoscere e valutare gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e
rispettava gli uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i
Berlinguer, i Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e
persino il vecchio sindaco Giuseppe Grosso... In mezzo, tra questi due diversi
«tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata, come un vomere, la
lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro. Di un arretramento epocale
nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle remunerazioni e dei
salari dei lavoratori, e insieme nel ruolo stesso che il lavoro gioca nello
spazio sociale, nella sua capacità di parola e di presenza.
Luciano Gallino, nel suo splendido La lotta di classe dopo la lotta di classe
calcola che nel corso del ventennio a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo
lo spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i 250
miliardi di euro all'anno: l'equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime
e sangue. E' la misura della perdita di potere del lavoro, che è stata anche sua
«privatizzazione». Espulsione del lavoro dalla sfera pubblica (quella in cui
l'aveva riconosciuto anche formalmente l'art. 1 della nostra Costituzione), e
suo confinamento nella dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da
rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici. Di
questa dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di questa sua privatizzazione
(a cui hanno assistito passivamente e collusivamente) sono figli, gli attuali
politici maggioritari e i sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di
turno. L'insostenibile leggerezza del loro essere è il riflesso di una
strutturale perdita di terreno. L'evaporare della politica e della
rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola eterea dei
sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la comunicazione pubblica come un
involucro asfissiante (la «cattura cognitiva» di cui parla Gallino), riflette
questa liquefazione.
Ora, se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona
parte dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle forme
ultimative che la crisi impone, con la dimensione gassosa della nuova
imprenditoria globale - con il Marchionne di turno - il risultato è scontato:
essa è destinata ad esserne dissolta e fagocitata irrimediabilmente, con la
comune rovina di se stessa e di noi tutti. Dovrebbe farci pensare il fatto che
gli unici a confrontarsi, con durezza, con Marchionne sono i «forti», altri
«padroni» come lui, mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono
flebili vagiti e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della
corte». Se una speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita si può
immaginare, essa consiste nei punti di resistenza di ciò che ha saputo restare
«solido» nel generale processo di dissolvimento. Mantenere un rapporto col
proprio suolo, culturale, sociale, produttivo. Per questo tanta ammirazione -
anche al di fuori del campo ristretto delle tradizionali sinistre - avevano
saputo suscitare quel 40% di «inattuali» che a Pomigliano avevano avuto il
coraggio di dire NO, e quel quasi 50% di Mirafiori. Per senso di dignità, prima
che per calcolo di utilità. Sapendo di giocare una partita disperata (perché il
ricatto di Marchionne lasciava solo l'alternativa tra «arrendersi o perire»).
Oggi sappiamo che vedevano più lontano degli altrettanto disperati operai che
votarono Sì. Come vedeva lontano la Fiom, a cui andrebbe fatto un monumento per
aver saputo mantenere aperto un varco, attraverso cui tentare di passare oltre.
Di esistere ancora, nel mondo che verrà.