Bergoglio lava più bianco. La rivoluzione a parole di papa Francesco
micromega - online del 24 luglio 2013
di Valerio Gigante
Quello che maggiormente sorprende in questa prima fase di
permanenza alla guida della Chiesa di papa Francesco è il coro pressoché unanime
di consensi che l’ex arcivescovo di Buenos Aires sta raccogliendo. Ma pauperismo
e «francescanesimo a puntate» sembrano più funzionali ad una gigantesca
operazione di marketing piuttosto che ad una reale riforma delle strutture della
Chiesa. Un'analisi controcorrente della “nuova Chiesa” di papa Bergoglio.
I fatidici 100 giorni sono trascorsi,
l’enciclica a “quattro mani” (ma con una sola una firma) è uscita, la visita a
Lampedusa è terminata. E mentre il viaggio in Brasile è in svolgimento, giornali
e riviste si sono già ampiamente scatenati nel tracciare un primo bilancio del
pontificato di Francesco. Quello che maggiormente sorprende in questa prima fase
di permanenza alla guida della Chiesa di José Mario Bergoglio è il coro
pressoché unanime di consensi che l’ex arcivescovo di Buenos Aires sta
raccogliendo, da destra a sinistra, nel mondo cattolico come in quello laico.
Se si escludono i soliti
mugugni dell’estrema destra cattolica, tutti, dai progressisti ai conservatori,
dai laici ai cattolici, dagli esperti di cose vaticane fino alle persone che
chiacchierano al bar, considerano questo papa una sorta di straordinario
miracolo, il grande riformatore che rinnoverà completamente la Chiesa e le sue
strutture. Sull’Espresso tempo
fa Sandro Magister ha parlato dell'«incantesimo di papa Francesco», della sua
capacità, cioè, di mietere unanimi, entusiastici consensi. Ed in effetti non c’è
gesto o parola di questo pontefice che non venga amplificata a dismisura,
definita un evento di portata storica, una novità assoluta, una rivoluzione, una
“svolta epocale”. Di fronte a tale enorme entusiasmo, proporre una lettura
critica, o anche solo dubitativa del pontificato di papa Francesco appare
difficile, se non impossibile.
Eppure è proprio del mestiere del giornalista
andare nelle pieghe dei fatti, dei personaggi, analizzare le dinamiche per
rilevare le contraddizioni ed i nodi eventualmente irrisolti e portarli poi
all’attenzione ed alla riflessione di chi legge, piuttosto che limitarsi ad
amplificare – non sempre con il doveroso distacco che dovrebbe caratterizzare la
professione – ciò che è già sotto gli occhi di tutti. Così, se è comprensibile –
seppure non giustificabile – che i giornali cattolici abbiano si siano prodotti
in entusiastici “osanna” e peana nei confronti di Bergoglio, assai meno lo è che
lo abbia fatto la stampa laica, che dovrebbe avere sui fatti religiosi un occhio
un tantino più disincantato, se non proprio vigile e critico.
Lavoro per un settimanale, Adista,
che da anni svolge una funzione di informazione-controinformazione su Chiesa e
politica, un osservatorio laico sui fatti religiosi che ha sempre costituito un
punto di riferimento per chi, da una prospettiva progressista, credente ma senza
essere clericale o “chiesastica”, è impegnato per un rinnovamento profondo delle
strutture ecclesiastiche e dei rapporti tra la Chiesa ed il potere mondano. I
nostri lettori sono stati quindi abituati ad un approccio assolutamente non
apologetico nei confronti dei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Sulle nostre pagine abbiamo pubblicato tanti documenti di teologi e vescovi che
criticavano la teologia tradizionalista e la pastorale conservatrice dei due
ultimi papi, l’indulgenza nei confronti di governi discutibili quando non
esecrabili, i legami del Vaticano e dello Ior con i poteri economico-finanziari,
gli intrecci tra gli uomini di Curia e le lobby intra ed extra ecclesiastiche.
Ma quando abbiamo scritto del passato di Bergoglio all’epoca della dittatura in
Argentina, quando abbiamo messo in evidenza le contraddizioni dei suoi primi
atti di governo, in diversi ci hanno scritto delusi ed a volte indignati. Quasi
avessimo “tradito” quel sogno di rivoluzione ecclesiale, di francescanesimo
realizzato che per anni avevano coltivato e che ora volevano vedere incarnato
nella figura di Bergoglio. E noi a sporcare questo idillio, per fare i bastian
contrari a tutti i costi, cercare il pelo nell’uovo, insinuare sempre e comunque
che il potere è brutto e cattivo.
In realtà non si tratta di avere un
pre-giudizio, sul papa o su chiunque altro. È anzi comprensibile il clima di
entusiasmo e speranza che le prime parole ed i primi gesti di Bergoglio hanno
suscitato in tanti credenti. Ma a chi scrive non compete essere supporter di
nessuno, men che meno di chi ha un ruolo istituzionale, connesso ad un potere e
ad una capacità di enorme influenza sulle masse.
E allora, prima di entrare nel merito
dell’attuale pontificato, vale forse la pena spendere qualche parola per capire
il perché di un così diffuso e clamoroso successo del papa presso l’opinione
pubblica. Certo, va fatta la necessaria tara all’entusiasmo che sempre
accompagna l’elezione di un papa. Ma i mesi passano, e le udienze del mercoledì
restano affollatissime, le colonne dei giornali piene delle parole e dei gesti
del papa, la simpatia ed il calore che lo accompagnano Bergoglio sono visibili,
palpabili. C’è, insomma, dell’altro oltre al fascino per la novità venuta “quasi
dalla fine del mondo”.
Una prima spiegazione sta forse nel linguaggio
di papa Francesco. Si tratta nella maggior parte dei casi di discorsi a braccio,
che danno l’impressione di evitare formalismi e cerimoniali tipici di una
gerarchia ingessata ed incapace di mettersi in sintonia con le folle cattoliche,
ma cui pure papa Raztinger era assai affezionato come forma di sacralizzazione
del suo ministero. Il papa attuale comunica invece con un linguaggio alla
portata di tutti, dice frasi di piccola filosofia spicciola, utilizza
un'oratoria colloquiale, imperniata su immagini o metafore di immediata presa
comunicativa.
Al di là dell’apparente immediatezza e
spontaneità, quella di Bergoglio pare in realtà una retorica assolutamente non
improvvisata ed anzi molto studiata. Le metafore e le immagini utilizzate sono
di notevole impatto ed efficacia comunicativa. Come quando papa Francesco parla
di «Chiesa babysitter» (17 aprile) per stigmatizzare una Chiesa che solo «cura
il bambino per farlo addormentare», invece che agire come una madre con i suoi
figli; o di "Dio spray" (18 aprile) per mettere in guardia dall'idea di un Dio
non cristianamente connotato, che va bene per ogni situazione (salvo poi
partecipare alla kermesse per eccellenza del “Dio spray”: quella Giornata
Mondiale della Gioventù che continua a riempire le piazze di effimeri entusiasmi
mentre le chiese ed i seminari continuano a svuotarsi); o quella dei "cristiani
satelliti", usata il 20 aprile per bollare quei cristiani che si fanno dettare
la condotta dal "senso comune" e dalla "prudenza mondana", invece che da Gesù.
Nell'omelia del Giovedì Santo, ha esortato i pastori della Chiesa, vescovi e
preti, a prendere «l'odore delle pecore».
Da tutti questi esempi, oltre la grande abilità
comunicativa, emerge uno sfondo teologico ed ecclesiale molto diverso da quello
che aveva connotato il pontificato di Ratzinger. I pastori sono pastori e le
pecore sono, appunto, gregge da guidare, il cristianesimo deve evitare ogni
sincretismo religioso ed indulgenza nei confronti della cultura contemporanea,
la secolarizzazione, i suoi valori, il suo relativismo vanno combattuti senza
esitazione. Il diavolo esiste (e il papa lo cita in continuazione) e si annida
nelle pieghe della realtà che ci circonda. Insomma, nella sostanza, non sembra
essere cambiato molto rispetto a Benedetto XVI.
Semmai, rispetto al papa-teologo, l’immaginario
religioso di Bergoglio è intriso di un devozionismo molto tradizionale e
popolare, simile a quello tardo ottocentesco (un periodo non a caso in cui la
Chiesa cercava di recuperare terreno presso le masse, “distratte” da anarchia,
socialismo, scientismo, materialismo) fatto di madonnine oleografiche, di Gesù
zuccherosi, indulgenze plenarie (nuovamente concessa a tutti i partecipanti alla
Gmg brasiliana) e fervorini contro il demonio. E di una Chiesa che resta l’unica
solida guida per i credenti e l’unico strumento di salvezza. Il 12 aprile, ad
esempio, parlando alla pontificia commissione biblica, papa Francesco ha
ribadito che "l'interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto
uno sforzo scientifico individuale, ma dev’essere sempre confrontata, inserita e
autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa". Il 22 aprile, in un'altra
omelia mattutina, ha detto con forza che Gesù è «l'unica porta» per entrare nel
Regno di Dio e «tutti gli altri sentieri sono ingannevoli, non sono veri, sono
falsi». Il giorno dopo, nell'omelia della messa con i cardinali nella Cappella
Paolina per la festa di S. Giorgio, ha detto che «l’identità cristiana è
un’appartenenza alla Chiesa, perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è
possibile».
Per non parlare dell’enciclica Lumen
fidei,
scritta in gran parte da Ratzinger, ma firmata da Francesco: un testo costruito
nella contrapposizione tra fede cristiana e mondo moderno, nella polemica contro
il relativismo, finalizzata ad ancorare la ricerca teologica all’obbedienza al
Magistero. Insomma, il testo che doveva essere insieme il testamento spirituale
di Ratzinger e il programma pastorale di Bergoglio, finisce per rivelare, come
ha sottolineato Vito Mancuso su Repubblica (6/7)
«al di là di differenze contingenti, la totale consonanza dottrinale con papa
Benedetto sulle cose fondamentali quali la fede e la morale». Altrimenti
l’enciclica poteva restare nel cassetto (non fu così per quella di Pio XI sul
nazismo e l’antisemitismo, che il successore, XII, si guardò bene dal
pubblicare?), oppure l’enciclica poteva portare (con un gesto certamente
inedito, ma che da un papa come Francesco ci si poteva anche attendere) la
doppia firma, quella del papa regnante e quella del vescovo emerito di Roma.
Anche sul versante delle donne, non pare che da
papa Francesco ci sia da attendersi grandi sorprese: «Siate madri, non zitelle»,
ha detto Francesco alle 800 suore convocate all’assemblea dell’Unione delle
superiori generali l’8 maggio scorso. La castità, ha spiegato, deve essere
«feconda», generatrice, come insegna la figura di Maria Madre. «Che cosa sarebbe
la Chiesa senza di voi? Le mancherebbe maternità, affetto, tenerezza, intuizione
di madre!». Insomma, le suore come indispensabili procreatrici spirituali,
curatrici di corpi e anime altrui. Dal punto di vista teologico, la semplice
riedizione del ruolo materno celebrato attraverso la figura della mamma acrobata
che concilia casa e lavoro. Ma che non deve rinunciare all’accudimento dei figli
come funzione che ne caratterizza la dimensione “naturale”, oltre che sociale.
Cambia la forma, non la sostanza
Insomma, alla fine di questa rapida analisi si
può concludere che se i contenuti di papa Francesco non sono diversi dai suoi
predecessori, il modo di comunicarli quello sì, è radicalmente diverso.
In questa sua enorme capacità comunicativa
Bergoglio appare simile al Wojtyla pope-star, quello che agitava la mani,
ritmava i canti assieme ai giovani che assiepavano gli stadi delle Gmg, parlava
in romanesco al clero romano, celebrava messe negli stadi e faceva continui
bagni di folla. Ma a differenza di quest’ultimo l’attuale pontefice ha un’arma
in più: riesce ad avere un rapporto quasi personale con la folla. Bergoglio ha
iniziato la sera stessa della sua elezione, salutando con un semplice
«buonasera», chiedendo alla folla di benedirlo (così almeno hanno detto tv e
giornali: in realtà, in modo assai meno rivoluzionario, ha semplicemente chiesto
ai fedeli di pregare affinché Dio facesse scendere sul papa la sua benedizione,
prima che fosse il papa stesso ad impartire la sua, Urbi et Orbi), presentandosi
semplicemente come il «vescovo di Roma» (poi però se si va a guardare
sull’Annuario Pontificio pubblicato due mesi dopo i titoli tradizionalmente
attribuiti capo della Chiesa cattolica ci sono tutti: «Successore del Principe
degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, Primate d’Italia,
Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana, Sovrano dello Stato della
Città del Vaticano, Servo dei Servi di Dio»).
Al "Regina Coeli" di domenica 21 aprile, ha
risposto alla folla che lo acclamava: «Grazie tante per il saluto, ma anche
salutate Gesù. Gridate 'Gesù' forte!». Con la conseguenza che il grido “Gesù,
Gesù” si è levato immediato ed altissimo da piazza San Pietro. Più in generale,
quando è in mezzo alla gente, sembra capace di un rapporto diretto ed immediato
con le persone. Anche all’interno di eventi collettivi, sembra cioè capace di
interloquire con i singoli, ad avere una parola, un abbraccio, un gesto
particolare per ciascuno. Rompe l’anonimato dei raduni di massa con piccoli e
accurati “fuori programma” (conversazioni, battute, gesti di quotidianità,
carezze, abbracci) che danno la sensazione di un papa che individua e cerca
proprio te, in mezzo a tanti. E questo colpisce indubbiamente molto i fedeli. Ma
anche i media che continuamente rilanciano le immagini del papa vicino ad un
malato, con in braccio un bimbo, che parla di aspetti quotidiani della vita con
qualcuno dei fedeli che riesce ad avvicinarlo, che parte per il Brasile con una
borsa in mano (fatto di per sé insignificante, ma che i media di tutto il mondo
hanno trasformato in un evento), che augura “buon pranzo” alla fine dell’Angelus
domenicale. Che saluta, sorride e gesticola come una persona qualunque.
Denunce a perdere
Quando invece parla, i
temi affrontati dai discorsi di papa Francesco sono ispirati a concetti molto
generici: la misericordia, il perdono, i poveri, le "periferie", gli esclusi dal
sistema, i poteri finanziari che schiacciano la dignità umana, l’amore e
l’egoismo (una delle frasi più ricorrenti del papa è «non fatevi rubare la
speranze»: l’espressione – la cui vaghezza è evidente a tutti – si ritrova anche
nell’enciclicaLumen
fidei).
Mancano sempre i nomi, le circostanze, i responsabili. Cioè tutti quegli
elementi che contribuirebbero a dare forza e profezia alle parole di un vescovo,
quello di Roma in particolare. E questo vale anche per la visita del papa a
Lampedusa, dove alla grande attenzione per le vittime non ha fatto da pendant
quella nei confronti dei loro “carnefici”, cioè delle leggi e delle scelte
governative italiane ed europee (legge Turco-Napolitano, legge Bossi-fini,
respingimenti, sostegno a dittatori e autocrati nordafricani ed asiatici di ogni
tipo, guerre e sfruttamento economico), che hanno consentito che il Mediterraneo
divenisse un cimitero di disperati.
Ma ad un papa non spetta fare questo tipo di
denunce, si dirà. Giusto, se questo valesse anche per i temi su cui la Chiesa è
sempre intervenuta direttamente e pesantemente nella vita politica, lanciando su
questioni come i matrimoni gay, la fecondazione assistita, i “diritti”
dell’embrione, il divorzio breve, l’aborto, l’eutanasia, ed il testamento
biologico anatemi e scomuniche di ogni tipo. Lo stesso Bergoglio, quando era
arcivescovo di Buenos Aires ha parlato di aborto ed eutanasia come di «crimini
abominevoli», dei movimenti pro-choice come
di organizzazioni che promuovono una «cultura della morte»; si è opposto alla
distribuzione gratuita di contraccettivi nel suo Paese, all'insegnamento
dell'educazione sessuale nelle scuole, all’adozione da parte di coppie
omosessuali, alla legge che nel 2010 fu varata dal governo per legalizzare i
matrimoni gay, definita un provvedimento «ispirato dall’invidia del diavolo»,
«un attacco devastante ai piani di Dio», divenendo il punto di riferimento delle
manifestazioni a favore della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna che si
susseguirono tra la primavera e l’estate del 2010.
In quei casi le denunce furono circostanziate e
puntuali.. Sui poveri, gli sfruttati, i derelitti, i perseguitati, invece, solo
generiche critiche al “sistema” che produce marginalità e disperazione.
Eppure nella storia della Chiesa è accaduto
spesso che preti e vescovi denunciassero i meccanismi reali di esclusione e
miseria. Senza voler citare il caso di Romero, finito vittima di un sicario al
soldo del leader del partito nazionalista conservatore Roberto D'Aubuisson, e
ucciso mentre celebrava messa, si potrebbe citare il recente caso del vescovo di
Nola, mons. Beniamino Depalma, che si è apertamente e concretamente dalla parte
di chi sta lottando per i propri diritti sindacali, presentandosi lo scorso 15
giugno davanti ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano d'Arco (Napoli), in
occasione della protesta contro due sabati di recupero lavorativo, susciti la
dure reazione dei dirigenti della Fiat, che hanno sostenuto che il vescovo si è
collocato «dalla parte dei violenti e prevaricatori».
Senza nomi e cognomi, i discorsi restano,
inevitabilmente, delle prediche buoniste e ireniche, che muovono e commuovono le
coscienze, ma che hanno scarsa o nessuna incidenza nelle dinamiche dei processi
reali. E infatti, non risulta al momento che nessuno dei “poteri forti” chiamati
quasi quotidianamente in causa da Bergoglio abbia mai veramente reagito in alle
generiche critiche papali, a parte qualche infastidita ed estemporanea
dichiarazione di pochi leghisti ed esponenti del centrodestra dopo la visita
papale a Lampedusa. Senza fare nomi o accuse ai politici o ai governanti, poteva
il papa decidere di stanziare una parte dell’8 per mille (più di quella misera
parte – circa il 20% – attualmente destinata dalla Chiesa alle opere di carità)
a favore dei migranti e delle strutture che si occupano di loro? Poteva mettere
a disposizione una minima parte dell’immenso (circa un quinto degli edifici
esistenti, solo in Italia) patrimonio immobiliare italiano che la Chiesa
possiede per l’accoglienza di una parte di questi disperati? Poteva, e senza
grandi difficoltà, ma non l’ha fatto.
Più in generale, il papa che paga il conto
dell’albergo dove ha alloggiato per il Conclave, che ha deciso di rinunciare
all’appartamento papale, che gira senza l’auto blindata e che si richiama
continuamente alla sobrietà ed alla povertà come condizione indispensabile per
la Chiesa, poteva – solo per restare in ambito italiano (il dramma di Lampedusa
si consuma infatti nel nostro Paese) – chiedere di rinegoziare il Concordato o
almeno qualcuno dei privilegi di cui gode la Chiesa (che dal 1999 non paga allo
Stato italiano nemmeno la fornitura di acqua, che ammonta a circa 5milioni di
metri cubi l’anno) come l’ampia esenzione dal pagamento dell’Imu; il pagamento a
carico dei contribuenti dei docenti di religione cattolica, dei cappellani
militari, delle carceri, ospedalieri; l’8 per mille garantito anche per quella
parte di gettito che proviene dalle quote non espresse (cioè da coloro che non
hanno barrato alcuna casella nella dichiarazione dei redditi, ma i cui soldi
vengono ugualmente ripartiti tra lo Stato e le confessioni religiose in maniere
proporzionale alle quote espresse); contributi statali alle scuole cattoliche ed
all’editoria cattolica; finanziamenti pubblici a parrocchie, oratori e scuole
materne; esenzioni per Ires e canone tv; benefits per
lo Stato della Città del Vaticano ed i suoi cittadini, ecc. ecc.?
Più in generale, allargando la questione dalla
Chiesa italiana a quella universale, poteva il papa decidere di utilizzare una
piccola parte dei 55milioni di euro che ogni anni lo Ior stanzia a favore del
bilancio della Santa Sede a favore di poveri e migranti, o di utilizzare a
questo scopo una parte dei proventi delle speculazioni finanziarie su valute,
azioni ed obbligazioni che da diversi anni tengono in attivo i conti della Santa
Sede?
Il papa poteva farlo. Ma, almeno finora, non
l’ha fatto.
La “rivoluzione” a parole
Certo, questo papa – contrariamente al suo
predecessore – è stato finora attentissimo a non lanciarsi in anatemi espliciti
contro la modernità, la secolarizzazione, le coppie di fatto, la ricerca
scientifica, l’Europa scristianizzata. A tentare di accontentare tutti,
annunciando la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II (e anche
quella del successore di Escrivà de Balaguer alla guida dell’Opus Dei, Álvaro
del Portillo…). Ma la linea della Chiesa, come dimostra l’enciclica Lumen
fidei,
resta la stessa. Ed anche per quanto riguarda la necessaria riforma
dell’istituzione ecclesiastica, da molti invocata ed implicitamente promessa
dall’avvento di un papa dal nome così impegnativo, per ora è accaduto poco o
nulla.
La Curia è sempre lì, in testa il segretario di
Stato. Se qualcosa cambierà allo Ior sarà per le pressioni che da anni la
comunità internazionale sta facendo sul Vaticano affinché si adegui agli
standard europei sull’antiriciclaggio (e che se hanno consentito finora enormi
vantaggi stanno però restringendo sempre più il campo dei partner bancari a cui
il Vaticano può affidarsi, come il caso del blocco del servizio bancomat gestito
da Deutsche Bank all’interno
delle Mura Leonine all’inizio del 2013 ha dimostrato). Anche sul campo
dottrinario nulla sembra profilarsi di particolarmente nuovo all’orizzonte. Il
15 aprile, il papa ha confermato la linea severa della congregazione per la
dottrina della fede nel trattare il caso delle suore degli Stati Uniti riunite
nella Leadership Conference of Women Religious, messe sotto inchiesta dal
Vaticano per la loro pastorale troppoliberal.
Tutti ricordano il caso del cardinale scozzese
Keith Patrick O'Brien, arcivescovo emerito di St. Andrews ed Edinburgo, che
aveva ammesso le sue responsabilità nello scandalo sulle molestie sessuali che
lo aveva coinvolto e che per questo motivo era stato indotto dalle pressioni
dell’opinione pubblica a rinunciare a partecipare al Conclave. Ebbene, a metà
maggio il papa ha condannato O’Brien – udite udite – ad un esilio di qualche
mese del cardinale in un luogo di preghiera e di penitenza. Come ha scritto
Francesco Merlo su Repubblica (17/5)
«sembra un rimbrotto burbero, una tirata d'orecchie complice che solo in Italia
è ruffianamente raccontata come un giro di vite papale, una tolleranza zero
della Chiesa verso gli abusi sessuali dei sacerdoti». Un provvedimento simile a
quello preso da Ratzinger nei confronti del fondatore dei Legionari di Cristo
Maciel, indotto nel 2006 a ritirarsi dalle sue cariche all’interno della sua
potente congregazione ed a fare penitenza. Niente scomuniche allora, niente nel
caso di O’Brien. E niente dimissioni – per l’uno come per l’altro – dallo stato
clericale. Nonostante i gravissimi crimini.
Ma dal punto di vista del marketing,
anche sul fronte pedofilia il papa si è mosso benissimo. E mentre della risibile
punizione ad O’Brien nessuna o quasi ha detto nulla, tutti hanno parlato
all’inizio di luglio della «rivoluzione nella legislazione vaticana»,
«l’ennesimo strappo di papa Francesco»: in pratica, l’abolizione dell’ergastolo
(quanti ergastolani ci sono nella Città del Vaticano?), la ridefinizione, con
relativo inasprimento di pene, di alcuni reati come la vendita di minori, la
prostituzione minorile, la violenza sessuale su minori, gli atti sessuali su
minore, la pedopornografia, la detenzione di materiale pornografico,
arruolamento di minore. Più altre norme per chi attenta alla sicurezza, agli
interessi fondamentali o al patrimonio della Santa Sede, modificate in relazione
alla Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione. Tutti
provvedimenti che riguardano ovviamente solo i delitti commessi nella Città del
Vaticano o negli uffici di Curia (oltre alle nunziature ed al personale
diplomatico) e che sono peraltro in parte adeguamenti alle Convenzioni
internazionali richiesti proprio da quell’organismo, Moneyval, dal quale ormai
da diversi anni il Vaticano si aspetta di poter essere ammesso nella white list
dei Paesi finanziariamente “virtuosi”.
La collegialità del potere
Ma, si potrebbe eccepire, questo papa sta
lavorando per fare della Chiesa una istituzione più collegiale. In questo senso
andrebbe la nomina degli otto cardinali come suoi «super-consulenti» per
assisterlo nel governo della Chiesa e nel progetto di riforma della Curia
romana, definita unanimemente una «svolta epocale», una «rivoluzione», anche da
diversi studiosi ed osservatori di questioni ecclesiastiche e di storia della
Chiesa. Se lo storico Giuseppe Ruggieri ha già chiarito che la nomina di
consiglieri per la riforma della Curia «riprende un istituto tradizionale della
Chiesa» risalente «già al primo millennio» e tutt'ora esistente nella Chiesa
ortodossa orientale (intervistato dall’Ansa il 13 aprile scorso), ancora non
sono del tutto chiare le reali competenze dei cardinali nominati e sui poteri
che il nuovo organismo potrà effettivamente esercitare, al di là del suo ruolo
consultivo. Inoltre diversi commentatori hanno fatto notare che il nuovo
organismo, che pure il papa ha voluto rappresentativo dei cinque continenti, è
però composto di soli cardinali, senza preti, vescovi, laici e donne (nemmeno se
suore).
Infine la biografia degli ecclesiastici nominati
da Bergoglio non sono certo inattaccabili. Dal cardinale Oscar Andres Rodríguez
Maradiaga (peraltro grande amico di Bergoglio) che ha sostenuto il golpe che nel
giugno 2009 portò alla deposizione del presidente dell’Honduras Manuel Zelaya,
al cardinale “bertoniano di ferro” Giuseppe Bertello. C’è poi il segretario
della commissione mons. Marcello Semeraro, al centro di molte polemiche nella
sua diocesi, quella di Albano, come nel 2007, quando tre suore missionarie di
Santa Gemma, inviate dalla loro superiora nella diocesi retta da Semeraro per
essere impiegate nei servizi della catechesi e della pastorale giovanile nella
parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Aprilia, furono da lui cacciate per non
aver accettato di fare da colf a due anziani sacerdoti presenti nella parrocchia
(800 euro al mese, da dividere in tre…). E poi c’è la storia di p. Marco
Agostini, prete pedofilo nei confronti del quale nel maggio 2006 la Procura di
Velletri – che aveva appena ottenuto dal Gip la misura cautelare – chiese alla
Curia di poter avere le informazioni raccolte dalle autorità ecclesiastiche.
Semeraro disse no, appellandosi all’articolo 4 comma 4 del Concordato, secondo
il quale gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra
autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per
ragione del loro ministero. Non c’era obbligo, ma nemmeno divieto. Eppure
Semeraro preferì non collaborare.
Membro della commissione è
inoltre il cileno Francisco Javier Errázuriz Ossa che nel 2006 celebrò i
funerali religiosi di Pinochet («Che Dio lo perdoni e tenga conto di ciò che ha
fatto di buono», disse) e propose al governo, nel 2010, l’indulto generalizzato,
in nome del “perdono cristiano”, per i militari sostenitori della dittatura. E
che fu anche accusato di avere cercato di insabbiare le indagini su uno dei casi
di violenza sessuale più tristemente conosciuti in Cile, quello su James
Hamilton, che ha subìto abusi sessuali per oltre venti anni da parte di p.
Fernando Karadima, prete con un forte carisma presso i giovani dell’élite di
Santiago del Cile.Last
but not least,
l’australiano George Pell, arcivescovo di Sydney, ultraconservatore, tra i
cardinali che hanno scelto di celebrare la messa con rito tridentino, implicato
tra l’altro nella vicenda di un prete della diocesi di Ballarat, 120 chilometri
ad ovest di Melbourne, Gerald Francis Ridsdale, condannato a 19 anni di carcere
per aver abusato di decine di bambini. Quando il 27 maggio 1993, il tribunale di
Melbourne aprì un processo a carico di Ridsdale per aggressione sessuale ai
danni di nove ragazzi, il prete venne accompagnato in tribunale e sostenuto
proprio da George Pell, che nel frattempo era divenuto vescovo ausiliare di
Melbourne. «Ho vissuto con lui – disse Pell nel 1996, dopo la condanna
definitiva – ma sulla sua condotta non circolava nemmeno un sospetto». Tuttavia,
il processo del 1994 provò che Ridsdale era stato inviato dai suoi superiori da
uno psicologo già nel 1971, e che era stato spostato da una parrocchia all’altra
a causa delle denunce arrivate in Curia.
Almeno dal punto di vista
delle varietà delle presenze, la Commissione sullo ior (3 ecclesiastici e 2
laici, fra cui una donna) e quella sulla finanza vaticana (1 ecclesiastico e 7
laici, fra cui una donna), recentemente istituite dal papa, parrebbero meglio
rappresentare la pluralità della Chiesa. Salvo che la composizione delle
commissioni – come sottolinea anche Ignazio Ingrao suPanorama (27/6)
rispecchia proprio quei conflitti intestini all’interno delle lobby economico
finanziarie interne alla Chiesa che dovrebbero essere l’oggetto della riforma
papale: la Pontificia Commissione sullo Ior vede infatti al suo interno una
componente statunitense (con l’assessore monsignor Peter Brian Wells e la
professoressa Mary Ann Glendon) che sostiene i Cavalieri di Colombo (di cui è
massima espressione è Carl Anderson cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo,
nel board dello Ior e principale artefice della defenestrazione dell’ex
presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi) e una francese (rappresentata in
Commissione dal cardinale Jean-Louis Tauran, che invece sostiene i Cavalieri di
Malta (dei cui interessi è massimo garante l’attuale presidente dello Ior, Ernst
von Freyberg). Insieme a loro, con il ruolo di coordinatore (è colui che
fisicamente si recherà allo Ior per l'acquisizione di documenti) anche il
vescovo spagnolo Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, membro dell'Opus Dei.
Di area Opus Dei sono anche Francesca Immacolata Chaouqui e Lucio Angel Vallejo
Balda, membri della commissione di inchiesta sulle finanze vaticane.
Provvisorie conclusioni
Va bene, si potrebbe infine obiettare, ma questo
papa che va a Lampedusa e parla dei poveri sarà pur sempre meglio di chi lo ha
preceduto, vestito di ermellino e chiuso nella sua impenetrabile fortezza
teologica, sempre pronto a lanciare strali contro chi a suo avviso assedia la
cittadella fortificata della fede. È vero, se non fosse che – fino a prova
contraria sempre possibile, seppure improbabile –pauperismo e «francescanesimo a
puntate» (come in una canzone di De André) sembrano più funzionali ad una
gigantesca operazione di marketing piuttosto che ad una reale riforma delle
strutture della Chiesa.
Insomma, per l’emorragia di fedeli (nei Paesi
dove esistono sistemi diversi dall’8 per mille, ciò corrisponde a minori
introiti per le Chiese nazionali), di offerte (il bilancio vaticano lamenta da
tre esercizi il calo a livello mondiale dell’Obolo di S. Pietro, le offerte che
in tutto il mondo si raccolgono in favore della carità del papa, il 29 giugno),
di vocazioni, di credibilità, l’arrivo di papa Francesco ha costituito finora
un’ottima operazione. Per i divorziati risposati, i gay credenti, i laici, le
donne, per tutti coloro che si battono per una maggiore collegialità nella
Chiesa, per la libertà di parola e di opinione, di ricerca teologica e di azione
pastorale, per coloro che desiderano una riforma che cambi strutture e classe
dirigente, ecco, per tutti loro certamente un po’ meno.
(24 luglio 2013)