BERTONE: ASCESA E DECLINO DELL’UOMO FORTE
ABBANDONATO DAI POTERI FORTI DELLA CHIESA

Valerio Gigante

ADISTA n° 31 del 14/9/2013

37285. CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Non si può dire che il card. Tarcisio Bertone in Vaticano non conti più nulla: lascia tanti dei suoi uomini nei posti chiave della Curia, del Governatorato, in qualche diocesi (non moltissime: su quel fronte l’ormai ex segretario di Stato ha perso diverse battaglie) e in tanta parte del “sottobosco” ecclesiastico. Ma soprattutto Bertone mantiene la carica di Camerlengo e quella (che non manterrà però a lungo) di presidente della commissione cardinalizia di sorveglianza sullo Ior. Ma certo, un’era si chiude con l’uscita di scena del cardinale salesiano e del sistema di potere che lo ha sostenuto.


Una carriera lenta, ma inarrestabile

Nato a Romano Canavese nel 1934, Tarcisio Bertone è il quinto di otto figli. Ha studiato in un “santuario” salesiano, l’oratorio di Valdocco a Torino, che, ancora giovane, lo attrasse verso la sequela di don Bosco. Ordinato il 1° luglio 1960, ha compiuto studi da canonista. Divenuto docente del pontificio Ateneo Salesiano, negli anni del postconcilio Bertone si segnala nell’università salesiana per essere nel gruppo di docenti progressisti (tra loro Bruno Bellerate, Ramos Regidor, Giulio Girardi) ironicamente ribattezzati “i manco 20”, che elaboravano documenti sul necessario rinnovamento della congregazione e dell’università. Una fase che per Bertone durò poco. I vertici dei salesiani infatti non gradivano l’intraprendenza del gruppo. Lo fecero sapere agli interessati. E diversi di loro rientrarono docilmente nei ranghi, condizione essenziale per poter fare carriera. Che per Bertone iniziò negli anni ’80, quando assunse il ruolo di consultore in diversi dicasteri della Curia Romana, soprattutto quello per la Dottrina della Fede. Poi, nel 1989, Bertone iniziò a bruciare le tappe: quell’anno venne eletto Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana. Appena due anni dopo, nel 1991, il papa lo chiamò alla guida della diocesi di Vercelli. Altri due anni appena e la Cei lo nominò presidente della Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace. Poi, nel 1995, Giovanni Paolo II lo volle segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, vice di Joseph Ratzinger.

Come segretario dell’ex Sant’Uffizio fu corresponsabile di molte discusse decisioni prese dal dicastero. Nel ’97 firmò l’incredibile scomunica al teologo progressista cingalese Tissa Balasuriya – uno degli esponenti più autorevoli della teologia asiatica – ritirata però dopo appena un anno. Collaborò alla stesura della Dominus Iesus, documento che, affermando l’unicità salvifica di Cristo che si realizza solo attraverso la sua Chiesa (ovviamente quella cattolica), comprometteva seriamente il dialogo ecumenico. Nel 2000 il papa lo incaricò di curare la pubblicazione della terza parte del “segreto” di Fatima e nel 2001 di “curare”, dopo il clamoroso matrimonio con Maria Sung, mons. Milingo, cui Bertone prescrisse un lungo (e misterioso, giacché del vescovo guaritore non si ebbe alcuna notizia per diversi mesi) “ritiro spirituale”. Poi, nel 2003, Bertone succedette, dopo una lunga lotta tra le correnti curiali, a Tettamanzi come arcivescovo di Genova: la città della lanterna era, all’epoca, l’ultima sede cardinalizia ancora disponibile, utile ad ingrossare le file o dei “progressisti” o dei “conservatori” in vista del Conclave. La conquista di Bertone dei vertici della Curia – compiutasi nel 2006 con la nomina a segretario di Stato al posto del card. Angelo Sodano – fu molto osteggiata. Tanto che la fuga incontrollata di notizie che davano per avvenuta la sua nomina già una settimana prima della ratifica ufficiale aveva forse il significato di tentare in extremis di “bruciarne” la candidatura, dandola in pasto alla stampa. Del tutto inusuale, poi, il modo con cui avvenne l’avvicendamento tra Sodano e Bertone, con il papa che si limitava ad annunciare una nomina che sarebbe stata effettivamente ratificata solo il 15 settembre successivo. Un pasticcio, insomma, che evidenziava chiaramente la volontà del papa di mettere una toppa ad una situazione che rischiava di sfuggirgli di mano, anticipando una decisione che i rapporti di forza interni stavano rendendo sempre più difficile da imporre, poiché sul nome di Bertone, in Vaticano, si stava facendo il vuoto. L’imbarazzo del papa coinvolse anche i fedeli della diocesi di Genova, cui Ratzinger aveva sentito il bisogno di scrivere una lettera, pubblicata su Avvenire il 23 giugno di quell’anno, in cui chiedeva loro il “grande sacrificio” di privarsi di Bertone. Del resto, alla faccia del “carrierismo ecclesiastico” sempre criticato da Benedetto XVI, ma sempre alimentato dal papa tedesco, Genova, dall’epoca del card. Giuseppe Siri, non ha più un arcivescovo che “duri” più di pochi anni. O che, come nel caso di Bagnasco, faccia il pastore a tempo pieno. 


Il cardinale e la politica

Dal punto di vista pastorale e dottrinario Bertone è sempre stato un duro. Con poca propensione al dialogo interreligioso. Come vescovo di Genova, nel 2004, in un intervento pubblicato il 13 giugno sulla testata diocesana Settimanale cattolico (che ora si chiama Il cittadino), giudicò la lettera scritta dai parroci di Cornigliano per osteggiare la costruzione di una moschea nel loro quartiere «un intervento stimolante» e, pur ribadendo il «diritto di ogni comunità religiosa di avere il suo proprio luogo di culto», invocava il principio di reciprocità. Sempre da arcivescovo, il 20 luglio dello stesso anno, decise di presenziare, accanto al presidente della Repubblica Ciampi, al ministro della Difesa Martino e al Capo di Stato Maggiore della Marina Biraghi, all’inaugurazione della portaerei “Cavour”, la più grande della flotta militare italiana, impartendo – proprio lui che era stato presidente della Commissione Cei Giustizia e Pace – la sua benedizione alla nave da guerra ancorata nel porto di Genova.

Da segretario di Stato, nella Lectio magistralis tenuta in occasione dell’apertura, ai primi di dicembre 2008, dell’anno accademico della Facoltà di Diritto Canonico San Pio X di Venezia, chiuse ogni spazio al dibattito sulla democrazia nella Chiesa e l’uguaglianza tra i suoi membri. Nella Chiesa, affermò il segretario di Stato vaticano, «la fondamentale e uguale dignità e partecipazione che tutti hanno in forza dell’unico battesimo, viene esercitata secondo una diversità di funzioni», avendo quindi come risultato «distinzione e ineguaglianza tra i membri». Non è pensabile, proseguì il cardinale, una Chiesa «che riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza», perché diverrebbe «una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni, in cui quest’ultime sostituiscono la fede».

A livello di azione politica, Bertone sarà ricordato come l’uomo che ha condotto la Chiesa all’abbraccio mortale nei confronti del berlusconismo. Ma anche colui che tentò, riuscendoci solo in parte, di avocare alla Segresteria di Stato il compito di gestire i rapporti con la politica italiana e le sue istituzioni. Esautorando di fatto la Cei del dopo-Ruini, che per più di un quindicennio, come presidente della Cei, era stato l’arbitro assoluto delle scelte politiche della Chiesa in Italia.

Tutto iniziò con la direttiva del card. Bertone contenuta nella lettera al neoeletto presidente della Conferenza episcopale italiana Bagnasco, quando il 27 marzo 2007 il segretario di Stato invitò il capo della Cei a «riservare priorità all’evangelizzazione, alla catechesi dei giovani e degli adulti, ad una recuperata e motivata disciplina del clero e ad un impegno comune per la promozione specifica delle vocazioni al ministero presbiterale», facendo nel prosieguo della missiva intendere che era alla Segreteria di Stato vaticana che spettava la gestione dei rapporti con lo Stato italiano e con i partiti. La lettera doveva restare personale,  ma Bertone la fece pubblicare sull’Osservatore Romano. Il messaggio era chiarissimo, ma restò in gran parte inascoltato dalla presidenza della Cei, col risultato di dare avvio ad una lotta durissima all’interno della gerarchia cattolica, durato sino allo scandalo Vatileaks.

Tappa di questo scontro, il cosidetto “caso Boffo”, dal nome del plenipotenziario di Ruini nel settore delle comunicazioni, Dino Boffo, dimessosi nel settembre 2009 dalla direzione di Avvenire, Sat2000 ed Inblu dopo le rivelazioni del 28 agosto 2009 fatte dal Giornale su una sua pregressa condanna penale per molestie. La “polpetta avvelenata” nei confronti del direttore di Avvenire era stata probabilmente preparata in ambito ecclesiastico ben prima di arrivare sulla scrivania del direttore del Giornale. A parte il fatto che il dossier su Boffo circolava da tempo, sia all’interno dell’Università cattolica di Milano che tra i vescovi, a confermare la pista “interna” fu, il 1° febbraio del 2010, proprio un incontro tra Boffo e Feltri. Avvenne a Milano, da Berti, uno dei ristoranti più frequentati dal jet set politico cittadino, con tavolo ben visibile, vicino all’entrata del locale. E infatti il giorno dopo ne parlarono tutti i giornali. Feltri ribadì a Boffo ciò che aveva appena detto in un’intervista al Foglio di Giuliano Ferrara (31/1/2010), e cioè che la copia del decreto penale (vera) e la velina (di oscura provenienza) su Boffo provenivano da ambienti istituzionali del Vaticano: «Una personalità della Chiesa di cui ci si deve fidare istituzionalmente mi ha contattato e fatto avere la fotocopia del casello giudiziale dove veniva riportata la condanna a Boffo e, assieme, una nota informativa che aggiungeva particolari sulla notizia». Feltri non svelava il nome della fonte, ma insisteva su un punto: era una persona di cui ci si doveva «istituzionalmente fidare», perché «non si poteva dubitare di lei». «Il suo emissario arrivò da me per portarmi la fotocopia, poi mi lasciò un foglietto che era un riassunto degli atti processuali, almeno così mi fu detto. In questa velina era scritto che chi aveva fatto questa molestia era un omosessuale». Velina anonima, che il ministro degli Interni Roberto Maroni escluse potesse essere stata redatta da fonti investigative o allegata ad alcun fascicolo giudiziario.

Per molti la “fonte” era Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano molto vicino a Bertone. All’epoca, oltre che per l’egemonia sui rapporti con la politica, lo scontro Bertone-Ruini e Bertone-Cei si giocava sull’assalto del segretario di Stato ad alcune roccaforti del potere economico di Comunione e Liberazione nel campo della sanità. Complice il sostegno dell’Opus Dei, che ha accompagnato l’astro di Bertone fino all’epoca dello scontro sul tema strategico della “riforma” dello Ior, Bertone ambiva all’epoca a prendersi l’Istituto Toniolo, che attraverso il suo “Comitato permanente” controlla l’Università Cattolica di Milano, ma anche gli atenei di Brescia, Cremona, Piacenza, Roma, Campobasso, il Policlinico Agostino Gemelli di Roma, nonché la casa editrice Vita e Pensiero. Saldamente in mano di Ruini attraverso il rettore Lorenzo Ornaghi, ma anche in forza di una solida alleanza con Comunione e Liberazione e la Curia milanese, nel 2010 gli assetti di potere all’interno del Toniolo furono messi in discussione dal tentativo di Bertone di piazzare diversi suoi uomini nel Comitato Permanente dell’Istituto. La presa del Toniolo si inseriva nel più ampio progetto di acquisizione di ospedali cattolici da parte del Vaticano: il San Raffaele di Milano, il Bambin Gesù, l’Idi e il Policlinico Gemelli di Roma e la Casa Sollievo di San Giovanni Rotondo. Poi, progressivamente, a partire dal fallimento della cordata per l’acquisizione del San Raffaele guidata dal manager Giuseppe Profiti, dal presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e dal finanziere Vittorio Malacalza, il progetto naufragò. Anche perché l’Opus Dei, che aveva sostenuto l’intraprendenza economico-finanziaria, oltre che quella politica, del card. Bertone, iniziò a far venire meno il proprio potente sostegno al segretario di Stato.


Il caso Ior e l’inesorabile declino

L’episodio clou di questo divorzio fu il caso Ior. Dal 2010 in Vaticano si gioca infatti la partita “trasparenza” nella gestione dello Ior. C’è chi vorrebbe entrare nella white list dei Paesi virtuosi dal punto di vista della trasparenza finanziaria, che passa necessariamente per il positivo giudizio di Moneyval (la Commissione di esperti sulla valutazione delle misure di antiriciclaggio monetario e di terrorismo finanziario del Consiglio d’Europa) e che consentirebbe all’istituto una maggiore facilità nei rapporti finanziari con gli altri Paesi, Italia in testa. Senza questo lasciapassare potrebbero inoltre ripetersi casi eclatanti come il clamoroso stop, ad inizio 2013, ai pagamenti tramite bancomat e carte di credito all’interno delle mura vaticane imposto da Bankitalia a Deutsche Bank Italia, che aveva la gestione dei terminali Pos, cioè le macchinette dove “strisciare” le carte in Vaticano, priva dell’autorizzazione necessaria per operare in Stati che agiscono fuori dalle normative dell’Unione Europea, come appunto è ancora il Vaticano.

D’altro canto, in Vaticano c’è però ancora chi preferirebbe mantenere il più possibile lo status quo, perché, con le severe norme internazionali e gli organismi di garanzia previsti per vigilarne il rispetto, le finanze vaticane passerebbero di fatto sotto il controllo dei poteri bancari e giudiziari italiani ed europei; inoltre, agendo di fatto come banca offshore, lo Ior è stato sinora il punto di riferimento di Paesi, banchieri e faccendieri che lo hanno utilizzato come canale di transito per capitali con destinazioni che dovevano restare segrete, o per operazioni illecite di ripulitura e riciclaggio. O per fondi destinati a sostenere la guerriglia controrivoluzionaria in America Latina o i regimi dittatoriali in Centro e Sud America; o per i soldi destinati a finanziare Solidarnosc ed altri movimenti di opposizione al socialismo reale nell’Est Europa; o per pagare la maxitangente Enimont. Ad incarnare queste due diverse visioni del futuro dello Ior due diverse fazioni di ecclesiastici. Uomini di Curia come i cardinali Angelo Sodano, Giovanni Battista Re, Agostino Cacciavillan, Jean-Louis Tauran, Attilio Nicora, sostenuti dalle lobby cattoliche più vicine agli interessi finanziari del capitalismo italiano ed europeo (Opus Dei, Cavalieri di Malta), hanno decisamente optato per una riforma dello Ior. Altri, più vicini agli interessi del capitale Usa (i Cavalieri di Colombo, ricchissima lobby statunitense vicina ai Repubblicani, che ha un immenso patrimonio investito nel campo sanitario ed assicurativo), hanno fatto perno sulla Segreteria di Stato e sul vecchio establishment ecclesiastico per boicottare le riforme. Il risultato è stato una lotta tra fazioni la cui intensità non ha conosciuto paragoni negli ultimi decenni. E che, invece che rimanere confinata all’interno dei Sacri Palazzi, è stata combattuta a colpi di rivelazioni, denunce, dossier fatti pubblicare sulla stampa di mezzo mondo.Dentro questa lotta di potere, anche il siluramento, nel 2011, del presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, opusdeista e sostenitore della necessità della riforma dell’Istituto da lui guidato. L’operazione fu capitanata da Carl Anderson, membro del consiglio di sovrintendenza dello Ior, ma soprattutto capo supremo dei Cavalieri di Colombo. Alla fine, però, a sostituire Gotti Tedeschi è stato un uomo della cordata avversa a quella dei Cavalieri di Colombo: il presidente del ramo tedesco dei Cavalieri di Malta Ernst von Freyberg. La vittoria dell’ala “riformatrice” all’interno del Vaticano ha segnato irrimediabilmente la fine di Bertone. E delle sue ambizioni egemoniche.