L'eutanasia nelle chiese cristiane
di Alessandro Speciale
“Micromega” n. 4 del maggio 2013
Da sempre, uno degli elementi chiave di ogni religione è la risposta offerta al mistero della morte, sia per dare speranza di fronte alla fine della vita, sia per trovare alla morte un posto all'interno dell'esperienza umana, sia infine per spiegarne il senso a chi sta per incontrarla o a chi ha perso da poco una persona cara. Storicamente, le comunità religiose di ogni tipo, epoca e regione del mondo hanno cercato quindi di fare proprio il momento della morte, di ricondurlo all'interno del ciclo della vita attraverso riti di passaggio o di commemorazione. Anzi, l'esperienza della morte e il processo che avvicina ad essa sono spesso considerati come occasione per un'esperienza spirituale, un momento chiave per la scoperta di sé e per la preparazione alla nuova vita che seguirà la morte.
Proprio per la centralità della morte nell'esperienza religiosa, non deve stupire che la maggior parte delle fedi vedano negativamente ogni tentativo umano di regolare i tempi, i modi e i percorsi di avvicinamento alla propria morte. Di qui l'opposizione esplicita di gran parte delle religioni al suicidio e, in tempi più moderni, all'eutanasia e al suicidio medicalmente assistito.
Questo rifiuto è però quasi sempre accompagnato da un parallelo rifiuto della difesa a oltranza della vita biologica fine a se stessa - dell'accanimento terapeutico, si potrebbe dire - nella consapevolezza che mantenere artificialmente in vita il corpo a volte non permette allo spirito di continuare a vivere.
I motivi di questa opposizione sono molteplici: alcune religioni affermano esplicitamente che Dio proibisce di togliere la vita ad altri esseri umani, e quasi tutte le fedi sottoscrivono in un modo o nell'altro il principio della sacralità della vita umana, che proprio perché creata da Dio appartiene a lui, e non agli uomini, e va quindi protetta e preservata in ogni caso. Alla vita umana viene quindi riconosciuta una dignità unica, che l'individuo non può permettersi di toccare nemmeno in se stesso. Negli ultimi anni, con il progresso della medicina, molte religioni hanno approfondito le complesse questioni suscitate dall'allungamento artificiale della vita e dallo sfumarsi del confine tra la vita e la morte. Nel presente saggio saranno passate in rassegna, in particolare, le posizioni espresse dalle varie Chiese e confessioni cristiane. Non tutte, in effetti, hanno preso il cammino di radicale negazione di ogni interferenza con il corso naturale della vita verso la sua fine preso dalla Chiesa cattolica, che rifiuta ugualmente eutanasia, suicidio assistito e accanimento terapeutico, e subordina il diritto individuale all'autodeterminazione al principio della sacralità della vita.
valdesi
In Italia, la principale voce cristiana che ha offerto un controcanto alle posizioni cattoliche è naturalmente quella della Chiesa evangelica valdese (Unione delle Chiese metodiste e valdesi). Negli ultimi anni, soprattutto tramite la loro Commissione bioetica, i valdesi sono intervenuti sui casi che hanno portato all'attenzione dell'opinione pubblica italiana i temi del fine vita, quelli di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby.
Nel luglio 2008, pochi mesi prima della morte della ragazza lecchese in stato vegetativo permanente, la Commissione bioetica valdese aveva ribadito che il punto di partenza per affrontare i temi del fine vita alla luce dei progressi della scienza medica fosse «un'idea della medicina come terapia rivolta a soggetti in grado di autodeterminarsi e in grado di decidere il proprio destino». «La libertà individuale non va guardata con sospetto e identificata con l'arbitrio», ribadiva il documento, riaffermando il sostegno valdese a una legge sulle direttive anticipate di fine vita. Un punto, questo, sostenuto già un anno prima, nel pieno di un dibattito parlamentare che non avrebbe però portato da nessuna parte.
La centralità dell'autonomia della persona, che «non può essere limitata per asserire particolari visioni appartenenti a tradizioni filosofiche o religiose», era oggetto della riflessione sui «Problemi etici posti dalla scienza» messa in campo dal sinodo valdese già dal 2000. Respingendo l'idea che la sofferenza abbia un «valore intrinseco», ma senza entrare nello specifico delle diverse opzioni etiche e mediche, vi si affermava che «l'essere umano ha diritto a un accompagnamento alla morte, nonché a una morte dignitosa» e che nella «fase terminale della malattia» le decisioni devono essere prese «alla luce del principio di libertà di scelta del malato stesso».
Gli anglicani
Nell'anglicanesimo, l'analisi della questione è in larga misura simile a quella cattolica. La Chiesa anglicana d'Inghilterra spiega concisamente sul suo sito di essere «contraria ad ogni cambiamento nelle leggi o nella pratica medica che renda il suicidio assistito ammissibile o accettabile».
Rowan Williams, l'ex arcivescovo di Canterbury — che in quanto primate della Chiesa d'Inghilterra riveste un ruolo di leadership spirituale, una sorta di primus inter pares, per le altre Chiese anglicane nel mondo — ha ammesso che chi presenta la morte medicalmente assistita come un atto compassionevole avanza un «argomento molto solido».
Tuttavia, nel febbraio 2012, nell'ambito del dibattito inglese sul suicidio assistito, lo stesso Williams ha affermato senza mezzi termini che la sua legalizzazione sarebbe un «disastro» per la società. E la tesi rimane la posizione accettata da parte della larga maggioranza della Chiesa anglicana.
Per Williams, che parlava al sinodo della Chiesa d'Inghilterra, assicurare ai malati terminali il «diritto di morire» sottoporrebbe a una pressione — anzi a una «minaccia», per usare le sue parole — difficilmente valutabile tanto i medici quanto gli stessi malati. Williams ha quindi sposato la tesi classica degli oppositori della "dolce morte", paragonandola esplicitamente all'aborto, e ha messo in guardia il parlamento britannico dall'approvare una legge che creerebbe circostanze in cui la vita viene
«ufficialmente dichiarata non degna di essere vissuta».
Nel 2009, un documento della Chiesa d'Inghilterra su suicidio assistito ed eutanasia riconosceva che coloro che vogliono legalizzare queste misure sono «spesso motivati da compassione e da un desiderio di vedere le persone trattate con dignità e rispetto». Tuttavia, già allora si affermava che, anche se la Chiesa anglicana condivideva queste motivazioni, e in particolare il «desiderio di alleviare il dolore fisico e psicologico, [...] il suicidio assistito e l'eutanasia volontaria non sono mezzi accettabili di raggiungere questi nobili obiettivi».
Sul piano etico, per la Chiesa anglicana i princìpi dell'autonomia della persona e della protezione della vita sono spesso complementari. Ma quando vengono in conflitto deve essere il secondo a prevalere, anche perché la dignità e il valore unico di ogni essere umano sono alla base non solo del «diritto alla vita», ma anche di buona parte dell'ordinamento penale su cui si regge la società. D'altra parte, argomentava il documento, se il suicidio assistito diventasse legale, i medici e il personale sanitario si troverebbero a giocare un ruolo «indesiderato» nella società, se non altro perché sarebbe praticamente impossibile, sul piano pratico, stabilire protezioni sufficienti contro gli abusi dell'eutanasia legalizzata. Ogni legge, anche quella formulata nel modo più cristallino, va interpretata e questo aprirebbe il fianco a «interpretazioni elastiche», sottolineava la Chiesa anglicana. Allo stesso tempo, sarebbe impossibile evitare che i pazienti e i medici si ritrovino soggetti a «pressioni occulte»: i malati terminali «si sentirebbero costretti dalla pressione morale, economica e sociale ad accettare il suicidio assistito». Quindi, la legalizzazione del suicidio assistito avrebbe cambiato «in maniera fondamentale e irrevocabile» il rapporto tra medici e pazienti.
Anche la Chiesa anglicana statunitense nota come Chiesa episcopaliana — generalmente condanna ogni forma di eutanasia attiva, anche se motivata dalle «sofferenze di una malattia incurabile». Tuttavia, si legge in un documento del 1991, «le cure palliative per alleviare il dolore di pazienti con malattie degenerative incurabili, anche se somministrate con la consapevolezza che potrebbero accelerare l'arrivo della morte, sono compatibili con la dottrina teologica della santità della vita umana» e «non c'è obbligo morale di prolungare il momento della morte con mezzi straordinari e a tutti i costi [...] se non ci sono ragionevoli possibilità di ripresa».
Nello stesso documento, la Chiesa episcopaliana riconosce che, nel caso di pazienti non più coscienti, le leggi sul «diritto a morire» devono rispettare il diritto degli individui di «formulare scelte informate» e che le dichiarazioni anticipate devono poter prevedere esplicitamente la sospensione o il rifiuto delle cure.
Ed è proprio negli Stati Uniti - dove il dibattito è esploso già negli anni Settanta e Ottanta con le vicende di Karen Ann Quinlan e Nancy Ann Cruzan, per poi diventare notizia da prima pagina con il caso di Terri Schiavo nel 2005 - che le diverse denominazioni e Chiese cristiane registrano le posizioni più esplicite, articolate e varie.
Tra i cristiani battisti, ad esempio, è possibile riscontrare uno spettro abbastanza ampio di posizioni. Da una parte, ci sono le American Baptist Churches - che contano circa 5.200 comunità e 1 milione e 300 mila fedeli - che hanno approvato un documento ufficiale che chiede ai suoi membri di «adoperarsi all'interno della comunità medica per una maggiore enfasi sul fine assistenziale della medicina, per preservare la dignità umana e minimizzare la sofferenza dell'individuo, nel rispetto delle scelte personali sui trattamenti da ricevere al termine della vita».
Dall'altra, invece, c'è la Southern Baptist Convention, molto più numerosa e con circa 16 milioni di affiliati che ne fanno la più grande Chiesa protestante degli Stati Uniti, tradizionalmente di stampo evangelico e marcatamente conservatore. La Convention rifiuta l'eutanasia e il suicidio assistito come una violazione della santità della vita umana. Anzi, una risoluzione del 1992 non solo afferma esplicitamente che acqua e cibo non possono essere considerati un «trattamento medico straordinario» e che quindi «l'alimentazione e l'idratazione devono continuare a essere visti come mezzi ordinari e compassionevoli di cura medica e di trattamento umano», ma chiede addirittura ai governi di condannare penalmente i medici che praticano l'eutanasia o aiutano i loro pazienti a commettere il
suicidio.
Un discorso leggermente diverso viene fatto invece da parte di altri gruppi evangelici. La National Association of Evangelicals, che riunisce 45 mila Chiese locali di 40 diverse denominazioni tutte legate al movimento evangelico, da una parte rifiuta esplicitamente l'eutanasia e il suicidio medicalmente assistito . Dall'altra, però, afferma che «in casi in cui i pazienti siano malati terminali, la morte appaia imminente e le cure non offrano alcuna speranza medica di una ripresa, è moralmente appropriato richiedere di staccare
le macchine per il sostegno vitale per permettere alla morte naturale di verificarsi». Il documento tuttavia sottolinea che «in questi casi va presa ogni misura necessaria perché i pazienti non soffrano fisicamente e va offerto al paziente sostegno spirituale ed emotivo fino al momento del trapasso».
I luterani
Ancora più esplicita è la Chiesa evangelica luterana d'America, che conta 10 mila comunità e oltre 4 milioni di fedeli. Un documento sul fine vita approvato nel 1992 approva esplicitamente la morte medicalmente assistita. «Il personale medico non deve usare tutti i trattamenti medici a disposizione in ogni circostanza. Le cure possono essere limitate in alcuni casi, in modo da permettere alla morte di avere luogo». Anche la Chiesa evangelica luterana d'America, però, si oppone nettamente all'eutanasia perché
«distruggere deliberatamente la vita creata a immagine e somiglianza di Dio è contrario alla nostra coscienza cristiana». Il documento della Chiesa, ad ogni modo, riconosce la difficoltà delle scelte di fronte a cui si trovano i medici, chiamati spesso a scegliere il «male minore» in situazioni complesse e posti di fronte a dilemmi spinosi e paralizzanti - ad esempio, quei casi in cui il dolore di un paziente è così forte da rendere «la vita indistinguibile dalla tortura». In caso di direttive anticipate lasciate dal paziente o di rifiuto delle cure, i medici devono rispettare la volontà dell'individuo, anche quando sono in disaccordo.
In Germania, la Chiesa evangelico-luterana ha elaborato insieme ai vescovi cattolici un documento sulle «Dichiarazioni anticipate del paziente cristiano». Questo documento, preparato nel 1999 e rivisto nel 2003 e di nuovo nel 2009, da una parte dice «no» all'eutanasia attiva, ma dall'altra ritiene giuridicamente ed eticamente ammissibili tanto l'eutanasia passiva - ovvero l'interruzione o la non somministrazione di cure volte al prolungamento della vita nel caso di malati inguaribili - quanto quella indiretta - ossia quando al morente vengono prescritti dal medico «farmaci sedativi del dolore che [...] come effetto secondario involontario possono accorciare la vita del paziente». Nei due casi dell'eutanasia passiva e indiretta, secondo luterani e cattolici tedeschi, è possibile formulare un testamento biologico.
Anche in Italia, nel 2004, i luterani si sono pronunciati sul tema. Ma lo hanno fatto con accenti leggermente diversi dai loro «cugini» tedeschi. Il punto di partenza è il riconoscimento che «le paure umane di non poter morire con dignità vanno prese seriamente».
La risposta, però, «non può essere cercata nella liberalizzazione dell'eutanasia attiva, ma nel
miglioramento di misure palliative, lotta effettiva al dolore, organizzazione della cura domiciliare e
negli ospizi, come in un'attenzione maggiore alla volontà del paziente». Tanto più che «in questi
tempi di riduzione delle spese sociali in tutta l'Europa» la «soluzione tecnica e a buon mercato
dell'eutanasia» può finire per «controbilanciare la ricerca di un accompagnamento umano del morente». E
se è vero che i «testamenti [biologici] dei pazienti possono dare, in persone non coscienti, informazioni
importanti su una possibile volontà [...] il medico non è l'esecutore testamentario del paziente: non ci si
può attendere da lui un'azione contraria all'etica come l'uccisione su richiesta».
Altre posizioni protestanti
I metodisti, ovvero i cristiani che si rifanno all'insegnamento del teologo inglese John Wesley,
vissuto nel XVIII secolo, in genere, accettano la libertà di coscienza dell'individuo, anche quando si
tratta di determinare il momento e le modalità della propria morte. Negli Stati Uniti, anzi, alcuni
gruppi regionali di metodisti si sono pronunciati espressamente a favore della legalizzazione del
suicidio assistito.
In generale, però, la maggioranza delle Chiese nate dalla Riforma protestante condannano l'eutanasia
e il suicidio assistito. La Chiesa cristiana riformata del Nordamerica - una Chiesa di impronta
calvinista con circa 300 mila membri negli Stati Uniti - durante un sinodo tenutosi nel 1972 ha approvato
una risoluzione che condanna, in nome del comandamento «Non uccidere», «la distruzione insensata e
arbitraria di ogni essere umano ad ogni stadio del suo sviluppo dal momento del concepimento al
momento della morte». Anche se il documento era originariamente riferito all'aborto, la sua
interpretazione è stata successivamente estesa anche al fine vita .
I presbiteriani equiparano senza mezzi termini l'eutanasia - e le altre misure di «dolce morte» -
all'«omicidio». Tuttavia, si legge in un documento del 1988 sui «Provvedimenti eroici», «rifiutare o
sospendere le cure [...] non costituisce eutanasia», ma solo quando questa decisione deriva
dall'impossibilità di un pieno recupero e non viena presa con l'obiettivo di «alleviare il dolore».
Anzi, il documento afferma esplicitamente che «ridurre la sofferenza non è mai un motivo che
giustifichi l'abbreviamento della vita di una persona».
Anche i mormoni condannano l'eutanasia, definita come «l'atto di mettere deliberatamente a morte
una persona che soffre di una condizione o malattia incurabile» e anzi affermano che chiunque
cooperi con la fine volontaria della vita di un altro individuo, anche nel caso del suicidio assistito,
«viola i comandamenti di Dio». Tuttavia, la Chiesa dei santi degli ultimi giorni riconosce che
quando una persona arriva alle fasi finali di una malattia incurabile ci si trova di fronte a decisioni
difficili, che possono portare a scelte che vanno nella direzione della riduzione dell'accanimento
terapeutico. In quei casi, si legge nell'edizione 2010 del manuale «L'amministrazione della Chiesa»
rivolto ai membri della Chiesa, «quando la morte è inevitabile, dovrà essere considerata una
benedizione e una parte dell'esistenza eterna con un suo preciso scopo. I fedeli non devono sentirsi
obbligati a prolungare questa vita mediante il ricorso a mezzi irragionevoli». Il manuale spiega che
«questa decisione può essere presa al meglio dai familiari dopo aver ricevuto consigli medici saggi
e competenti e dopo aver chiesto la guida divina mediante il digiuno e la preghiera».
Il cristianesimo scientista - Christian Science, uno dei pochissimi movimenti cristiani fondato da
una donna, Mary Baker Eddy, nel 1879 - sottolinea che la missione della Chiesa è la guarigione. Per
questo motivo, affrettare il momento della morte non è espressione di fede genuina ed è anzi una
negazione della presenza e del potere curativo di Dio. Allo stesso modo, la Chiesa dei discepoli di
Cristo - un'altra denominazione protestante americana, risalente alla prima metà dell'Ottocento e che
conta circa 600 mila aderenti - rifiuta l'eutanasia perché le ragioni generalmente addotte da chi cerca
o sostiene la «dolce morte», come la sofferenza o una condizione incurabile, sono in contraddizione
con la testimonianza biblica che dà senso e valore al dolore e schiude al credente la possibilità di
una guarigione miracolosa.
Stesso discorso, non sorprendentemente, viene fatto anche dall'Esercito della salvezza e dai
Testimoni di Geova.
C'è però una Chiesa protestante per cui il suicidio medicalmente assistito non solo è una scelta
morale ma che arriva addirittura a teorizzare l'obbligo religioso dei credenti di richiedere
l'approvazione di leggi che assicurino questo diritto. Si tratta della Chiesa unitariana universalista,
nata nel 1961 dall'unificazione di due tradizioni cristiane nordamericane, gli unitariani e gli
universalisti. Si tratta di una Chiesa che si autodefinisce
liberal, che si riconosce nella tradizionegiudaico-cristiana ma che non ha un credo definito. Nel 1988, la Chiesa ha adottato la risoluzione
sul «Diritto a morire con dignità» che difende il diritto «all'autodeterminazione nella morte» e
chiede la depenalizzazione dei reati commessi da chi ha agito per «onorare il diritto dei malati
terminali di scegliere il momento della loro morte». Gli unitariani universalisti si impegnano quindi
a sostenere leggi che «offrano protezione legale al diritto di morire con dignità, in accordo con le
proprie scelte».
I cristiani ortodossi
Come per i cattolici, anche per i cristiani ortodossi, tanto l'eutanasia quanto ogni altra forma di
morte medicalmente assistita è moralmente e teologicamente inaccettabile, perché in contrasto con
la sovranità di Dio e con la santità inviolabile della vita.
Il patriarcato di Mosca, da cui dipendono poco più della metà degli ortodossi al mondo, per un
totale di circa 150 milioni di persone, condanna l'eutanasia come una «combinazione di omicidio e
suicidio», come spiegato nel 2011 dal portavoce, arciprete Vsevolod Chaplin. Anche se chi non è in
grado di sopportare il dolore fino alla fine non va condannato, «conosciamo molti casi di persone a
cui i medici non avevano dato alcuna speranza ma che sono stati curati da Dio, spesso con un
miracolo». «Questo», secondo Chaplin, «ci insegna a mantenere la speranza fino agli ultimi istanti,
a obbedire a Dio e a continuare a combattere per la vita. Credo che in questi casi sia molto più etico,
in un certo senso, conservare la vita della persona e incoraggiarla a combattere per la propria vita».
Il patriarcato moscovita, come la maggior parte delle altre Chiese cristiane europee, a cominciare da
quelle cattolica e anglicana, mette anche in guardia dal rischio, «nelle società moderne, di
trasformare l'eutanasia in un modo per risolvere problemi economici e sociali: è facile immaginare
una situazione in cui si mette pressione a pazienti non abbienti per convincerli a mettere fine alla
loro vita. Questa pressione è assolutamente immorale».
Tuttavia, due anni prima, lo stesso Chaplin aveva offerto all'agenzia Interfax una posizione più
sfumata, almeno nei casi di pazienti in stato vegetativo irreversibile. Chiamato a commentare il caso
di Eluana Englaro, il portavoce del patriarcato di Mosca aveva infatti trovato ingiustificato
mantenere in vita artificialmente per molti anni una persona senza possibilità di ripresa, sostenendo
che in questo caso non si poteva parlare di eutanasia. «Certamente ci sono casi in cui non è chiaro
se l'anima è ancora presente nel corpo quando da molti anni il corpo non dà segni di coscienza,
anche se alcuni organi e funzioni sono ancora attivi», aveva osservato Chaplin.
Anche la Chiesa greco-ortodossa, che riconosce la leadership spirituale del patriarca ecumenico di
Costantinopoli Bartolomeo I, condanna l'eutanasia come un'«alienazione morale», mettendola sullo
stesso piano dell'omosessualità e dell'aborto. Nell'ortodossia greca, scrive Stanley S. Harakas,
sacerdote ortodosso esperto di bioetica che ha lavorato anche al Consiglio ecumenico delle Chiese,
«la morte è considerata il male in sé, un simbolo di tutte quelle forze che si oppongono alla vita
donata da Dio e alla sua pienezza. La salvezza e la redenzione sono generalmente intese nel
cristianesimo orientale come una condivisione della vittoria di Gesù Cristo sulla morte, il peccato e
il male tramite la sua crocifissione e resurrezione. La Chiesa [greco-]ortodossa ha una posizione
nettamente pro-life che si esprime, tra l'altro, nell'opposizione a chi promuove l'eutanasia». Allo
stesso tempo, però, la Chiesa greco-ortodossa, alla luce degli avanzamenti della scienza medica,
rifiuta l'accanimento terapeutico e ogni atteggiamento che «ignori l'inevitabilità della morte
corporale».