Facciamolo ora, per non arrivare ultimi
di Moni Ovadia
“l'Unità” del 9 maggio 2013
L’Italia politica, a ogni circostanza che lo consenta, rivela la sua incorreggibile vocazione maggioritaria a essere retrograda. Lo stendardo dell’arretratezza, è stato portato con ostentato orgoglio - e continua a esserlo - dalle forze conservatrici delle destre. Da tutte quelle forze disseminate in diversi settori del Paese, nei partiti di destra e nei centri di potere e di espressione che, in quei partiti, vedono interpretati i loro interessi o i loro privilegi. Il pertinace contrasto al progresso civile e sociale del nostro Paese, si nutre anche della propensione alla pavidità e al compromesso al ribasso di non pochi esponenti dello schieramento di centrosinistra che, pur con modalità graduate, dovrebbero fare del progresso civile verso l’uguaglianza, ovvero la pari dignità di tutti i cittadini, un punto di forza e di chiarezza.
L’Italia delle cittadine e dei cittadini invece, quando riesce a esprimersi in orizzonti transpartitici, si rivela sempre molto più aperta e avanzata. Di fronte alle trasformazioni del tessuto sociale, purtroppo questa sfasatura fra il sentire concreto del Paese reale e quello del Paese partitico- ideologico, gioca a favore di chi vuole contrastare il progresso della cultura dei diritti anche solo in termini dilatori. Ciononostante noi italiani, presto o tardi, avremo i Pacs e le nozze per gli omosessuali, avremo l’affermazione piena dello ius soli, l’affermazione dell’autentica parità di condizione delle donne, ma ci arriveremo buoni ultimi, come sempre. Riusciremo a essere in fondo alla graduatoria. Per certi aspetti riusciremo ad arrivare anche dopo la maggioranza di quei Paesi che, con supponenza colonialista, insistiamo a chiamare «terzo mondo».
Dalla conquista sistematica dell’ultimo posto, i conservatori e i reazionari trarranno meschini vantaggi elettorali e una perversa soddisfazione: essere riusciti a protrarre lo stillicidio di sofferenze e vessazioni grandi a piccole ad esseri umani incolpevoli, grandi e piccoli, le cui vite potrebbero essere migliori, meno dure, più giuste e persino felici. Quanto a chi si batte per il progresso della qualità delle relazioni sociali, si rimboccherà una volta di più le maniche per non farsi sopraffare dalla frustrazione di vivere in un Paese che riesce sempre a essere nelle retroguardie del mondo civile e rilanciare la lotta per cambiare questo umiliante stato di cose.
Oggi, in questa particolare congiuntura, si presenta per noi cittadini un’occasione particolarmente importante. Il ministro per l’integrazione del governo Letta, la signora Cécile Kyenge – primo politico italiano, nato fuori dai confini nazionali e con genitori non italiani a essere chiamato al ruolo di Ministro - si propone di fare varare una legge che affermi anche in Italia lo ius soli, ossia il diritto della cittadinanza garantita sulla base del luogo di nascita e rimuova la barbara anticaglia dello ius sanguinis, ossia il «diritto del sangue», il cui solo nome è in sé un obbrobrio di stampo nazista.
Questa legge renderebbe cittadini italiani tutti i bambini che nascono sul nostro territorio a prescindere dall’origine dei loro genitori. Questa legge sarebbe un passo fondamentale verso la piena integrazione di tante persone che, de facto, sono già cittadini italiani, ci collocherebbe in un futuro di dignità nazionale e ogni passo verso la dignità è una benedizione. Un certa Italia che si vorrebbe cattolica, millanta a ogni piè sospinto le proprie radici cristiane e giudaico-cristiane. Ricordiamo alle loro labili memorie, i rudimenti fondamentali del cammino, senso di queste radici: il patriarca Abramo dà avvio all’avventura monoteista facendosi straniero sulla base di un precisa sollecitazione della voce divina, esce dall’occlusione della dimensione «nazionalista» per farsi straniero ed accogliere l’universalismo. La terra promessa che gli viene indicata, è una terra in cui davanti all’Eterno il cittadino è straniero e lo straniero è cittadino ed entrambi sono solo meticci avventizi (Levitico 25, 23).
Per questo, il comandamento più ripetuto di tutta la scrittura biblica è: «Amerai lo straniero come te stesso, ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto, io sono il Signore». Ma se l’Antico Testamento fosse sospetto a certuni di troppa «giudaicità», ricorderò che San Paolo attribuisce a Gesù queste parole: «Ciò che fai allo straniero lo fai a me».
C’è bisogno di altro perché un Paese che si definisce orgogliosamente cristiano, sostenga con forza l’iniziativa del ministro Kyenge?