Gesualdi: «Il debito ci ha rubato lo Stato»
Paolo Lambruschi
Avvenire del 10/10/2013
Soffriamo di ansia da spread, ma chissà quanti sanno cosa sia il differenziale
con i bund tedeschi. Segno di come la cultura del mercato abbia pervaso il
quotidiano, tanto da condizionare con rigore di bilancio e tagli la politica
economica italiana dal governo Amato del ’92 a oggi. Ma non tutti i sacrifici
erano inevitabili secondo Francesco Gesualdi, che guida da anni il Centro nuovo
modello di sviluppo ed è stato da bambino allievo a Barbiana di don Lorenzo
Milani. Gesualdi propone anzi di aprire altre porte per un futuro più solidale,
liberi dalla schiavitù degli enormi interessi sul deficit nazionale. È il tema
delle Catene del debito (sottotitolo: e come possiamo spezzarle)
pubblicato da Feltrinelli (pagine 160, euro 11,00), nel quale offre una visione
decisamente critica della situazione economica del Belpaese.
Gesualdi, come si è generato questo debito pubblico mostruoso?
«Dall’intreccio perfetto di tre componenti. Nel corso degli anni ’80 e in parte
degli anni 90 la spesa pubblica è andata fuori controllo e si è creato il debito
che ci troviamo, composto in larga parte da interessi che non siamo stati capaci
di ripagare. Poi è entrata in campo l’Europa con le sue scelte di sovranità
monetaria. Ha preferito difendere a tutti i costi l’alto valore dell’euro per
calmare i mercati, la terza componente. L’Italia ha accettato di soggiogare la
propria politica e il valore dell’euro alle esigenze dei mercati finanziari».
Con quali conseguenze?
«Da 20 anni la politica soffre di paralisi da debito. Alla fine governi di tutti
i colori tagliano con la scure le solite voci di spesa, previdenza sociale,
sanità e scuola. Negli ultimi anni sono stati tolti 8 miliardi alla scuola. Un
euro tolto alla scuola, alla pubblica amministrazione si moltiplica per 1,5
secondo il Fondo monetario. Come se avessimo tolti 12 miliardi».
Che avrebbe detto don Milani, il Priore, dei tagli alla scuola?
«Che tagliando sulla scuola tagliamo la capacità di crescere culturalmente dei
più poveri e quindi danneggiamo la democrazia. Occorre razionalizzare le spese.
Direbbe che invece non tagliamo mai le spese militari, anzi ci stiamo
impelagando sempre più in guerre umanitarie per giustificarle. Ma accresciamo
queste spese per far piacere ai potenti della Terra e mantenere un ordine
economico ingiusto».
Chi sono i nostri creditori?
«In larga parte banche e investitori istituzionali esteri che detengono il
35-40%, la maggioranza relativa, dei titoli di stato italiani. L’altro 60% è
suddivisa tra banche italiane, assicurazioni, fondi pensione e, buon ultimo
insieme alla Banca d’Italia, compaiono le famiglie, che ne possiedono circa un
decimo».
Tuttavia i debiti si pagano.
«Ma noi abbiamo già tagliato la spesa per pagarli, il problema è l’interesse. Se
nel 2000 ci battemmo per cancellare il debito dei Paesi poveri, ora lanciamo una
campagna per autoridurre gli interessi del Sud Europa. Ci siamo messi in
trappola con le nostre mani, oggi il nodo è lo scontro tra Stati e mercati così
potenti da ingoiarci perché glielo abbiamo permesso. Si sono presi la nostra
sovranità, guardi la Grecia. E da noi chi ha deciso di trasformare la cassa
depositi e prestiti, che usava i soldi dei conti postali per aiutare gli enti
locali in una spa? O di costruire opere pubbliche in project financing con
capitale privato per pagarle di più? Dobbiamo invece avere il coraggio di
sfidare i mercati per tutelare i più deboli. Allora cominciamo a dire ai
creditori che ci autoriduciamo gli interessi perché non siamo in grado di
restituire i capitali in scadenza, li dilazioniamo. È già successo e non è mai
crollato il mondo».
Come si fa?
«Nella storia c’è una procedura legale: il debito odioso. Ad esempio tutto il
debito accumulato per ruberie ed evasione fiscale non lo paghiamo, non possiamo
far pagare ai deboli gli errori dei forti. Lo Stato non è un’azienda o una
famiglia, direbbe Keynes. Ha altre funzioni, oltre a mantenere un certo rigore
finanziario. L’Ue ha diviso la Banca centrale dalla politica negandole la
possibilità di soccorrere gli Stati sacrificando politiche sociali e
occupazionali. O si sgancia da questa logica o sarà difficile proseguire».
Anche lei propone di uscire dall’euro?
«No perché sono contro i nazionalismi, bisogna starci per cambiare. Aprire le
frontiere e costruire piuttosto un’Europa equa e solidale tra le zone. La sfida
è culturale, le multinazionali e i super ricchi si sono organizzati per
arricchirsi ancor di più, la società civile deve rivalutare i concetti di
interesse comune e di solidarietà. Papa Bergoglio ci sta dando una mano
ricordando che il sistema è pensato per servire i mercati, non le persone e che
per dare anche ai deboli la possibilità di vivere dignitosamente occorre
un’economa solidale e sostenibile».
Paolo Lambruschi