di Marco Revelli,
da il
manifesto, 19 luglio 2013
La crisi italiana si avvita, con velocità ogni giorno maggiore, trascinata dal
doppio mulinello che travaglia le due principali forze di governo: la crisi
giudiziaria che fa fibrillare il Pdl (diviso tra falchi e colombe ma unito nella
difesa perinde
ac cadaver del
Capo). E la crisi morale che sta devastando il Pd, sempre più evidente da troppi
segnali, eternamente oscillante tra gesuitismo e indecisione, che si tratti
degli F35 o del salvataggio di Alfano, come dimostrano i fatti dell’ultima
settimana e non solo.
Si pensi ad esempio al cosiddetto Appello dei 70, che personalmente considero
più una conferma – se ancora ce ne fosse bisogno – del disordine mentale che si
è impadronito di quel partito che non un segnale di vita interna, con
quell’invito patetico allo «scatto d’orgoglio», come se ci fosse qualcosa di cui
andare orgogliosi nella pratica degli ultimi mesi. Nella condivisione del lutto
per l’attribuzione da parte della Cassazione alla sessione estiva del processo a
Berlusconi (ridotto, con una ragionieristica gestione dell’indignazione, da tre
giorni a uno solo…). Nel silenzio imbarazzato di fronte alla perentoria sentenza
del processo Ruby. Nello spettacolo degradante della liquidazione, uno dopo
l’altro, di tutti i possibili candidati decorosi alla Presidenza della
Repubblica e (prima) alla guida del Governo, che avrebbero potuto rappresentare
una discontinuità rispetto all’ibrida maggioranza che aveva sorretto l’infelice
esperienza Monti.
O si pensi alla proposta Mucchetti-Zanda, forse in teoria (ma molto in teoria)
apprezzabile come primo tentativo di regolare il «conflitto d’interesse», ma per
i tempi e per i modi della presentazione evidente escamotage per evitare al
partito un voto imbarazzante sull’ineleggibilità del Caimano, e gettare, come si
suol dire, la palla in tribuna. Come stupirsi se tutto questo semina sconcerto
nel (residuo) elettorato, e conflitto all’interno del partito? Se, appunto, ogni
iniziativa presa finisce per generare uno sciame di polemiche e distinguo in un
gruppo dirigente (si fa per dire) perennemente sull’orlo di una crisi di nervi?
La verità – inutile nasconderlo – è che la nascita sconsiderata del governo
delle «larghe intese», lungi dal garantire stabilità, ha in realtà dato vita a
un meccanismo endemicamente e tendenzialmente auto-dissolutivo: un circolo
vizioso nel quale le tensioni all’interno di entrambi i partiti di maggioranza
logorano di continuo la stabilità dell’Esecutivo (ne costituiscono una
permanente minaccia) e, simmetricamente, il carattere coercitivo del Governo (la
necessità di mantenerne in vita l’ibrida maggioranza) alimenta di continuo le
tensioni interne ai partiti che lo sostengono. Ha cioè istituzionalizzato
l’instabilità, facendone un carattere strutturale del nostro sistema politico.
Per questo, contrariamente a Tonino Perna (sul Manifesto del
13 luglio), non credo che la tecnica del temporeggiamento – il ruolo di Letta
cunctator – ci permetta di guadagnare tempo. Che giochi, in qualche misura, a
favore di un’opposizione dal basso tutta da costruire in lunghi mesi di tregua.
Temo al contrario che sia un fattore di accelerazione dei processi di crisi,
tanto più in questi «quarantacinque giorni di Badoglio» – quelli che
intercorsero, appunto, nel 1943, tra il 25 luglio con la caduta di Mussolini e
il suo arresto al Gran Sasso e l’8 settembre con la dissoluzione dello Stato –
in cui ci apprestiamo a entrare.
Né possiamo nasconderci i guasti, enormi, che in questi mesi sono stati prodotti
sia sul piano dei comportamenti che su quello degli assetti istituzionali, e che
rischiano di aggravarsi nei mesi a venire. Il primo guasto, forse ormai
irreversibile, riguarda la questione morale. L’assetto etico – ma forse dovremmo
dire, meglio, «antropologico» – di questo Paese. Il comune sentire. Le forme del
giudizio e del comportamento. Questi mesi sono stati una gigantesca palestra di
anestetizzazione morale di fronte ai vizi privati e pubblici. Sono stati
«sdoganati» comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni. E’
stato autorevolmente autorizzato l’inaccettabile per qualunque comunità civile,
come se l’appartenere al circolo magico del potere permettesse tutto.
Nel matrimonio di interesse (o di necessità) che ha dato vita al governo
Letta-Berlusconi è stata cancellata – neutralizzata, assimilata, condivisa –
l’anomalia italiana costituita dalla persona di Silvio Berlusconi, dalla sua
trasgressione di tutti i caratteri di virtù pubblica e privata. E per questa via
è stata sancita «unanimemente» l’ammissibilità della compravendita dei corpi e
delle menti, della frode e dell’evasione fiscale, dell’ostentazione del
privilegio e della pratica del «non sa chi sono io», della menzogna sistematica
e della falsificazione dei fatti.
Che messaggio è stato veicolato da quell’udienza al Quirinale, il giorno dopo la
condanna a sette anni per concussione e prostituzione minorile? Come
interpretare la simpatetica condivisione del lutto processuale per un uomo di
governo accusato di una delle più gigantesche frodi fiscali ai danni dello Stato
che continua a rappresentare? E, insieme, la disponibilità, affermata con
studentesca irresponsabilità, a metter mano con quella bella compagnia alle
parti più delicate della Costituzione, compreso quel 138 che costituisce
l’articolo di chiusura che dovrebbe garantirci, tutti, contro i colpi di mano di
aggregazioni corsare…
D’altra parte nel mantra che ogni giorno ci ammanniscono coloro che per mandato
dovrebbero costituirne l’antitesi, nella sempre più stanca ma non per questo
meno insistita affermazione secondo cui «le questioni giudiziarie di Berlusconi
non devono avere rilevanza politica» (e neppure i fatti relativi alla sua «vita
privata»), c’è in realtà un messaggio devastante: l’idea che la politica sia una
sorta di terra di nessuno, in cui né l’Etica né la Legge hanno rilevanza. Che
Morale e Diritto debbano arrestarsi al confine del Potere. Solo il Carl Schmitt
degli anni trenta berlinesi era arrivato a questo grado di «realismo», a cui
oggi approdano i meno titolati cinici del sottobosco romano.
Il secondo guasto – anch’esso potenzialmente mortale – è di tipo istituzionale.
Riguarda il rapporto tra potere Legislativo e potere Esecutivo, costitutivo
della nostra «forma di Governo». Lo rivelano i commenti, quasi unanimi, dei
principali opinion leaders, e l’invito pressante ai partiti affinché mettano da
parte le loro differenze (reciproche e interne) e si concentrino
sull’essenziale, che sarebbe la sopravvivenza del governo Letta-Berlusconi. Che
facciano tacere quei contrasti endemici i quali, come si è visto, stanno nella
struttura stessa di questa maggioranza, perché, appunto, la normale dialettica
Parlamentare è diventata una minaccia mortale. E la vita interna dei partiti un
potenziale e permanente sabotaggio. E’ un mutamento di scenario, perché noi
saremmo, costituzionalmente – non dimentichiamolo – una democrazia parlamentare.
E la nostra Carta fondamentale sancisce tuttora il primato del potere
Legislativo sull’Esecutivo. Del Parlamento sul Governo.
Quello che invece qui si teorizza, sotto la pressione di uno stato d’eccezione
divenuto cronico, è non solo la primazia, ma l’assolutizzazione del Governo e
della sua permanenza in vita rispetto a tutte le altre istanze. Il silenzio
degli organi di rappresentanza di fronte all’imperativo dell’azione di governo.
O meglio, alla necessità primaria della sua esistenza in quanto, in realtà, a
voler essere sinceri, questa formula di governo riesce solo a dilazionare le
decisioni. A prolungare la propria esistenza in vita rinviando le scelte, fino a
quando queste irromperanno con la forza degli eventi naturali. Più che una forma
di Amministrazione la sua è una forma di Sopravvivenza. Ma tant’è: è sufficiente
ad alimentare il coro greco dei sacerdoti della governabilità fine a se stessa.
E della riduzione della democrazia a esangue simulacro.
Per tutto questo non credo che un Quinto Fabio Massimo – un Temporeggiatore –
possa aiutare. Piuttosto, che so?, un Cincinnato, che almeno veniva dalla
campagna, da fuori delle mura. O, meglio, un Socrate, che ricordi la superiorità
del «governo delle leggi» su quello degli uomini. Comunque qualcuno consapevole
che «non c’è più tempo». Che nel precipitare delle cose la costruzione di un
punto di riferimento alternativo è terribilmente urgente, perché il tessuto
democratico di questo Paese – che c’è, e potrebbe giocare un ruolo: si pensi
alle oltre 30.000 associazioni di cui parla Salvatore Settis nel suo Azione
popolare -, non si coagula da solo, per semplice iniziativa «dal basso».
Ha bisogno di un catalizzatore. Di qualcuno – un gruppo di donne e di uomini –
che «dall’alto» dia un segnale, con pochi, semplici denominatori comuni: una
affermazione intransigente dei valori costituzionali (questa Costituzione va
applicata più che cambiata), la difesa dei diritti e dei beni comuni, il primato
del lavoro non a parole ma nei fatti, la verità sullo stato comatoso
dell’economia e delle finanze pubbliche, un messaggio chiaro all’Europa
sull’insostenibilità dell’attuale dogma fallimentare, l’irrinunciabilità della
bonifica morale del Paese come condizione per liberare le energie indispensabili
per sopravvivere. E soprattutto il dichiarato proposito di una discontinuità
netta di linguaggio, pratiche e facce con l’abbandono dei bizantinismi attuali.
Fuori da ciò, ne sono più che mai convinto, se si rimane entro le mura sempre
più soffocanti di Bisanzio, ogni giorno perduto è un passo verso la caduta.