Le parole escluse dalle agende
Nella
nuova legislatura il vero tema sarà quello di una riforma del regime della
proprietà pubblica, non la ridicola giaculatoria delle “dismissioni” di beni
pubblici come bacchetta magica per risolvere i problemi del debito. Questa è una
vera riforma istituzionale della quale abbiamo bisogno.
di Stefano Rodotà,
la
Repubblica, 28 gennaio 2013
Bisogna essere capaci di guardare oltre le nebbie delle varie “agende” politiche
in circolazione; oltre il continuo degradarsi dei partiti in raggruppamenti
personali; oltre quello che giustamente Massimo Giannini ha chiamato il
“dissennato referendum sull’Imu”; oltre i vorticosi tour televisivi dei
candidati. Bisogna farlo, perché all’indomani delle elezioni ci troveremo di
fronte a una folla di problemi oggi ignorati, e che sarà vano pensar di
cancellare tirando fuori di tasca un fazzoletto da strofinare su qualche
poltrona. E soprattutto perché siamo immersi in mutamenti strutturali che
esigono quella forte cultura politica e istituzionale finora mancata.
Le parole, per cominciare. Negli ultimi mesi sono stati in gran voga i
riferimenti all’“equità”, presentata come la via regia per riequilibrare le
durezze imposte da una attenzione rivolta unicamente all’economia, anzi a un
mercato “naturalizzato”, portatore di regole presentate come inviolabili. Ma
equità è termine ambiguo, che occulta o vuol rendere impronunciabili proprio le
parole che indicano quali siano i principi oggi davvero ineludibili –
eguaglianza e dignità. I nostri, infatti, sono i tempi delle diseguaglianze
drammatiche e crescenti, che tra l’altro, come è stato più volte sottolineato,
sono pure fonte di inefficienza economica. E la dignità ci parla di una persona
che esige integrale rispetto, che non può essere abbandonata al turbinio delle
merci.
Confrontata con queste altre parole, l’equità finisce con l’apparire meno
esigente, accomodante, richiama quel “versare una goccia d’olio sociale” che
nell’Ottocento veniva indicato come lo stratagemma per rendere accettabili
scelte unilaterali e impopolari. In un contesto così costruito, l’eguaglianza
deve farsi “ragionevole”, diviene negoziabile, e la dignità può essere sospesa,
evocata solo in casi estremi. Queste non sono speculazioni astratte. Se si dà
un’occhiata alla più blasonata tra le agende, quella che porta il nome del
presidente del Consiglio, ci si imbatte nel riferimento a “un reddito di
sostentamento minimo”, formula anch’essa portatrice di grande ambiguità. Essa,
infatti, può riferirsi ad una sorta di reddito di “sopravvivenza”, a un grado
zero dell’esistere che considera la persona solo nella dimensione del biologico,
tant’è che viene agganciata all’esperienza non proprio felice della social card,
dunque alla condizione di povertà. Nessuno, di certo, può trascurare
l’importanza di misure contro la povertà in tempi in cui questa aggredisce fasce
sempre più larghe della popolazione. Ma, considerata in sé, questa è una
strategia che non corrisponde alle indicazioni costituzionali e che elude il
tema dell’integrale rispetto della persona in un mondo segnato da mutamenti
strutturali profondi.
L’articolo 36 della Costituzione, infatti, parla di “un’esistenza libera e
dignitosa” da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia. E l’articolo 34
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non si riferisce
soltanto alla povertà, ma pure all’esclusione sociale, e afferma anch’esso il
dovere di “garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di
risorse sufficienti”. Se la politica vuole ritrovare la sua nobiltà, e farsi
pienamente politica “costituzionale”, deve seguire il cammino così nitidamente
indicato, che ha come obiettivo il reddito di cittadinanza. Ripartire dal
lavoro, come giustamente si torna a dire, significa proprio questo, sì che
appare sorprendente il modo in cui è stata liquidata da quasi tutti i partiti e
i sindacati la suggestione appena venuta da Jean-Claude Juncker che, pur
parlando di salario minimo garantito, sostanzialmente si riferiva proprio alla
prospettiva appena indicata. Possibile che non ci si renda conto del fatto che
lo storico sistema degli ammortizzatori sociali, comunque bisognoso di
revisione, nasce in un tempo in cui ad essi veniva affidato il compito di
governare situazioni ritenute transitorie, mentre ora il rapporto
reddito-lavoro-vita deve fronteggiare una situazione strutturalmente mutata?
Possibile che non si avverta come il potere contrattuale del sindacato non sia
intaccato dalla previsione ad ampio raggio di un reddito che rende la persona
più libera, sottratta ai ricatti legati al bisogno?
La prospettiva non è quella del tutto e subito, ma bisogna avere chiara la
direzione verso la quale si va. Proprio partendo dalla condizione materiale
delle persone, oggi dovremmo avere consapevolezza piena che l’esclusione rende
fragile la coesione sociale e mette sempre più a rischio la democrazia,
mostrando una volta di più la lungimiranza dei costituenti che, nell’articolo 1,
vollero la Repubblica democratica fondata sul lavoro. Siamo dunque di fronte ad
una situazione che chiama in causa la cittadinanza e il modo in cui questa si
costituisce. Sono proprio i diritti di cittadinanza l’asse intorno al quale, nei
luoghi più diversi, si discute, non solo per affrontare il tema dei migranti nel
mondo globale. La cittadinanza oggi significa un fascio di diritti che
accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, in
primo luogo la salute e l’istruzione, il lavoro e l’abitazione. Diritti ai quali
bisogna guardare in una logica egualitaria, per evitare il ritorno della
cittadinanza censitaria, respingendo le tentazioni di privatizzazioni dirette o
indirette. Diritti che rinviano ai beni necessari per la loro attuazione,
dall’acqua alla conoscenza, e che per questo sono detti “comuni”.
Di beni comuni si parla con tratti fortemente retorici nella campagna
elettorale, mentre nella realtà d’ogni giorno si opera nella direzione opposta.
L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha approvato un nuovo metodo
tariffario per l’acqua che viola l’esito del secondo referendum sull’acqua,
reintroducendo sotto mentite spoglie quella remunerazione del 7% del capitale
che il referendum aveva cancellato. Solo i Comuni di Napoli e Reggio Emilia
hanno adottato l’indicazione referendaria riguardante la gestione pubblica del
servizio idrico, mentre il sindaco grillino di Parma ha annunciato di voler
vendere le quote di proprietà pubblica dei servizi locali. Nella nuova
legislatura, dunque, il vero tema sarà quello di una riforma del regime della
proprietà pubblica, non la ridicola giaculatoria delle “dismissioni” di beni
pubblici come bacchetta magica per risolvere i problemi del debito.
Questa è una vera riforma istituzionale. E sempre la vicenda dei referendum
sull’acqua, che hanno visto la più larga partecipazione dei cittadini con i 27
milioni di sì, indica la via di una riforma costituzionale che non ripercorra le
vie ambigue della “governabilità”, ignorando il tema degli equilibri
democratici. Se si vuole recuperare concretamente la fiducia dei cittadini, si
devono quasi reinventare le istituzioni della partecipazione, a cominciare dal
referendum e dall’iniziativa legislativa popolare, nella prospettiva di un
ripensamento della rappresentanza. Se non si vogliono ancor più ridurre i
diritti sociali, è indispensabile introdurre correttivi alla brutale
subordinazione alle compatibilità economiche perseguita con le ultime modifiche
alla Costituzione. Negli anni passati, il sistema politicoistituzionale è stato
sconvolto in mille modi, a cominciare dalle manipolazioni della legge
elettorale, e ha portato a una drammatica riduzione della tutela dei diritti.
Questo è il mutamento strutturale che dovrà essere affrontato, e si dovrà
cominciare proprio dalla ricostruzione dell’insieme degli equilibri e delle
garanzie democratiche.