Nel nome del Padre, del Figlio e della ’ndrangheta
di Giuseppe Salvaggiulo
“La Stampa” del 27 ottobre 2013
Negli ultimi anni, la ’ndrangheta ha occupato il centro della scena criminale e mediatica, non solo italiana. Grazie a clamorosi fatti di sangue (delitto Fortugno, strage di Duisburg), a inaudita penetrazione istituzionale (dai tribunali alla Regione Lombardia) e a un modello di business modernamente glocal che combina saldo radicamento territoriale, alte e diffuse professionalità, proiezione transnazionale.
Nella narrazione giudiziaria e pubblicistica, la religiosità ’ndranghetista è un aspetto che, pur ricorrente, galleggia nel limbo del bozzetto folkloristico. Si riducono a routine le cronache della processione della Madonna nel santuario di Polsi, ritrovo dell’onorata società citato per la prima volta in un processo nel 1894. Trascolorano i blitz nei bunker adornati come sagrestie (in quello bucolico del boss Gregorio Bellocco i carabinieri catalogarono un crocifisso, un rosario con grossi grani rossi, una foto di Padre Pio, un’immagine della Madonna del Monte Carmelo e un bassorilievo con l’immagine di Gesù sormontata dalla scritta «Dio proteggi me e questo bunker»). Con un’alzata di spalle, come di fronte a bizzarrie esoteriche proprie di una società arcaica, si liquidano i colpi di pistola indirizzati alle canoniche o certi interventi di presuli di segno opposto. Un grave errore. Il difetto di analisi pregiudica la comprensione dei fenomeni sociocriminali e ne ostacola, ogni giorno e concretamente, il contrasto. Il rapporto tra ’ndrangheta e Chiesa non è una sovrastruttura intrisa di tradizionalismo, forma degenerata di marketing territoriale. Appartiene a pieno titolo alla struttura criminale e come tale va sviscerato. Lo fanno Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, e Antonio Nicaso, studioso di organizzazioni criminali, nel libro Acqua santissima in uscita martedì da Mondadori.
Cristiani sono i manovali della ’ndrangheta, addirittura «cristianuni» i capibastone. Ostentatamente devoti, battezzati due volte: prima nella comunità cattolica con l’acqua benedetta, poi nel sodalizio criminale con il fuoco, lo spillo infilato in un dito, le gocce di sangue sull’immagine di san Michele Arcangelo.
La singolare cristianità ’ndranghetista ha molteplici declinazioni e rafforza consenso e controllo sociale: la sosta di una processione sotto la casa di un boss, con tutto il paese ad amplificare l’omaggio; la direzione dei comitati civici che organizzano le feste patronali; il monopolio delle estorsioni ad ambulanti, giostrai e e giocolieri durante le celebrazioni; i fuochi di artificio al passaggio del santo. Già nel 1916 i vescovi calabresi denunciavano «una quantità di abusi inqualificabili» che «rendono le processioni non solo profane ma scandalose e ridicole». Ma ancora oggi i sacerdoti che prendono provvedimenti rischiano l’isolamento della comunità e l’abbandono delle gerarchie.
Talvolta le vendette coincidono con le feste religiose, l’infame ammazzato viene simbolicamente privato della gioia di un Natale o di una Pasqua. E anche da morti, i boss strumentalizzano il rapporto con la Chiesa. I funerali devono essere solenni, pubblici, memorabili. Le omelie indulgenti come quella per Michele Bruni, nel Duomo di Cosenza: «Chi può dire cosa è bene e cosa è male nella nostra vita? Noi?».
Questo rapporto viene sviscerato dagli autori scavando negli archivi e nei faldoni giudiziari e mettendo in fila decine di episodi e personaggi, in gran parte sconosciuti o dimenticati. Preti omertosi, conniventi, complici, armati ma anche disarmati, coraggiosi, visionari, stimati, solitari. Preti «non mafiosi, ma galantuomini». Preti che scomunicano pubblicamente gli ’ndranghetisti e altri che scomunicano i pentiti, suggerendo comportamenti più «prudenti».
Fino agli anni 50, i boss garantivano un contributo alla tenuta dell’ordine sociale minacciato dalla secolarizzazione. La Chiesa ricambiava ammantando di indifferenza, se non di negazionismo, gli «effetti collaterali» della loro devozione. Per esempio certificando la buona condotta dei mafiosi con lettere che servivano a evitare il confino. Negli anni 70 comincia la stagione dell’impegno, della denuncia. Oggi il panorama è contraddittorio. Nella piana di Gioia Tauro, a pochi chilometri di distanza, convivono don Pino Demasi, referente di Libera, che nega l’ingresso in Chiesa della salma di un boss, e don Memè Ascone, che testimonia appassionatamente in tribunale in difesa di tre imputati di associazione mafiosa.
La tesi di Gratteri e Nicaso è che questa «doppia anima» non sia subita dalla Chiesa-istituzione, ma alimentata con l’equivoco di una cronica e non più tollerabile assenza di chiari e precisi indirizzi pastorali. Norme di comportamento per i sacerdoti, che rafforzi l’opera dei migliori e tolga alibi ai peggiori. «Ma ora la speranza c’è e si chiama Francesco».