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“Ripensare la provvidenza”:
oltre l’immagine di un Dio che interviene nella storia

ADISTA n° 35 del 12/10/2013

DOC-2561. VALENCIA-ADISTA. La sfida è decisamente impegnativa: come conciliare la fede nella provvidenza divina con il superamento - imposto dalle acquisizioni della scienza moderna - dell’immagine di un Dio che interviene puntualmente nella realtà fisica e biologica? È possibile purificare il concetto della provvidenza dalla rappresentazione dominante intessuta di ex voto, di miracoli o semplicemente di preghiere di petizione? E come si pone tutto questo in rapporto all’irrisolvibile problema del male? È a tali questioni – presenti in misura crescente nella ricerca teologica più avanzata e più aperta al dialogo con le scienze (con esiti di assai diversa radicalità) – che cerca di rispondere il numero 254 (aprile-giugno) della rivista spagnola di pensiero cristiano Iglesia Viva, centrato proprio sul tema “Ripensare la provvidenza”

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, ampi stralci dell’intervento di Queiruga. (claudia fanti) 

L’autonomia umana e la creazione per amore

di Andrés Torres Queiruga

 

(...) L’ESPERIENZA BIBLICA NEL CAMBIAMENTO CULTURALE

(…) Concretamente, il concetto di provvidenza non solo ci giunge mediato da diverse interpretazioni, ma – e questo è per noi decisivo – la sua versione tradizionale nella teologia cristiana è anteriore all’enorme e irreversibile mutazione culturale operata dall’inizio della Modernità.

La teologia lo sa, ma non sempre prende sufficientemente in considerazione l’importanza decisiva della tensione introdotta da tale fatto. Tensione che spiega la crisi che soffre oggi la fede nella provvidenza (…), vista da molti come concezione magica, credenza ingenua e in ogni caso visione obsoleta, aliena alla vita reale. È qui che, nello stesso tempo, si presenta il vero volto del problema e si aprono possibili cammini di soluzione, i quali non possono passare né per una reazione fondamentalista (…) né per un affrettato abbandono, come se la fede nella provvidenza fosse qualcosa di incomprensibile e di definitivamente superato.

Il giusto atteggiamento teologico consiste nel distinguere tra la verità dell’esperienza viva che qui si enuncia e il modo o i modi della sua comprensione teorica. Risulta fondamentale tenerlo in considerazione, per due ragioni importanti.

La prima è che, da un genuino punto di vista teologico, la fede nella provvidenza è qualcosa di costitutivo e di irrinunciabile. Come già molti secoli fa aveva detto Lattanzio, negare la provvidenza equivarrebbe a negare la realtà di Dio (…). Quello che prima di tutto e al di sopra di tutto interessa è assicurare e chiarire la fede nella realtà della provvidenza, per fondare e favorire i modi di viverla. (…). La seconda è che, proprio per questo, conviene mantenere un attento equilibrio tra il rispetto per le interpretazioni ricevute dalla cultura passata e la necessità di elaborarle e ripensarle nella nostra. Perché il problema è di sempre, ma le interpretazioni rispondono ai presupposti culturali di ogni epoca. Cosicché la maggiore difficoltà per una comprensione attualizzata risiede nel continuare a studiare il problema senza rivedere i presupposti (…). 


LA PROVVIDENZA NELLA TRADIZIONE: DIFFICOLTÀ E RISPOSTE

(…) 1. Le difficoltà e le obiezioni si presentano fin dal principio su due fronti. C’è prima di tutto il problema del male: se c’è provvidenza, da dove vengono la sofferenza, i crimini e le catastrofi, e perché Dio non dispone tutto per la felicità umana? Il secondo fronte, più sottile ma effettivo e con crescente importanza nella storia, si riferisce alla libertà: se la provvidenza presiede a tutto, che ne è della libertà umana? Le risposte tendono a ripartirsi tra quelle che si collocano in maniera chiara e decisa agli estremi e quelle che si situano al centro, tendendo a un difficile e spesso confuso equilibrio (…).

Nella Grecia antica, le teorie estreme sono chiaramente rappresentate dallo stoicismo e dall’epicureismo. Lo stoicismo è il primo a inquadrare sistematicamente il problema, con la sua identificazione della provvidenza con la ragione interna al mondo, con il logos che regge e orienta tanto l’ordine cosmico quanto la storia umana. La Libertà consiste nel riconoscerlo e adattarsi (“vivere conforme al logos”): in ciò risultano per lo stoico la saggezza, la grandezza e la vera felicità. La nostra cultura secolarizzata non coglie la profonda valenza religiosa di tale atteggiamento, che poteva procurare una viva sensazione di protezione e di ricchezza di senso (…), ma neppure si può disconoscere come non sia possibile in tal modo una vera libertà. L’epicureismo si pone all’estremo opposto: non esiste un logos che tutto regge, ma tutto è frutto dello scontro casuale tra gli atomi. Non esiste, pertanto, provvidenza: gli dei esistono, ma vivono beati nel cielo senza preoccuparsi dei fatti umani. (…). La posizione intermedia era stata esposta, con rara e geniale sensibilità, da Platone, (…) il quale afferma (…) che la divinità si prende cura di tutte le cose, piccole e grandi, e che tutti apparteniamo agli dei, (…) ma che non possiamo aspettarci che la provvidenza divina soddisfi sempre la nostra convenienza personale, in quanto noi siamo solo parte di un tutto più ampio ed è a questo tutto che guarda la provvidenza. (…).

2. Tutto ciò si rafforzerà con l’accentuazione del problema della libertà, già molto presente in S. Agostino, ma in maniera più esacerbata con (…) Lutero nella Riforma. Il primato assoluto della grazia e la (terribile) idea della predestinazione non hanno contribuito a chiarire il problema, ma lo hanno condotto in nuovi vicoli senza uscita. Emil Brunner, che parla di un «determinismo dall’alto», in quanto in tale visione «tutto ciò che avviene, compresa l’azione umana, si deve alla provvidenza divina», è netto nel segnalare le conseguenze, indicando come ciò faccia di Dio la causa del male e del peccato. (…).


PROVVIDENZA E CAMBIAMENTO CULTURALE: L’IMPATTO DELL’AUTONOMIA

Questa breve e schematica esposizione (…) mostra in quale impasse si trovi la comprensione della provvidenza. Guardandola già dalla prospettiva che il suo studio ci offre dal di qua della rottura moderna, è il caso di segnalare i presupposti fondamentali che hanno caratterizzato in maniera decisiva l’approccio tradizionale, a cominciare dall’interpretazione letterale della tradizione biblica. Non si può negare che, grazie ad essa, l’idea della provvidenza sia giunta a noi con due valori essenziali e irrinunciabili: il carattere personale di Dio e la certezza della sua cura amorevole nella dedizione e nella gratuità assolute. Ma queste certezze radicali ci sono giunte avvolte in un’interpretazione teologica che, rispondendo alle esigenze di quella cultura, non risponde ad alcune delle esigenze irrinunciabili della nostra.

1. (…). In una cultura attraversata dalla critica non è più possibile affermare la provvidenza e continuare a prendere alla lettera, per la mera ragione che così è scritto nella Bibbia, il fatto che «Dio dà la morte e la vita», che manda la peste e ordina di annientare intere città. (…). Neppure è possibile richiamarsi alle espressioni di San Paolo relative all’“elezione” e al destino di Israele (Rm 9-11), che sono circostanziali e in ogni caso profondamente condizionate culturalmente, per continuare a parlare di “predestinazione” («un’idea di Dio che ci fa rabbrividire», come diceva già molto tempo fa Berthold Altaner). (…).

La seconda esigenza per noi irrinunciabile, la principale e la più decisiva, consiste nella scoperta dell’autonomia mondana, nel senso che «le cose create e la società stessa godono di proprie leggi e valori» (Gaudium et spes, n. 36). Perché il prenderla sul serio, quale acquisizione legittima e irreversibile, rende non solo anacronistica, ma anche culturalmente impossibile l’interpretazione della provvidenza come se agisse mediante un continuo “interventismo” divino. (…). Di fatto, oggi non si può pensare che sia Dio che “manda” la pioggia, “scarica” il fulmine o “provoca” lo tsunami. Ciò ha rivoluzionato profondamente il problema del male, tanto strettamente legato a quello della provvidenza (…).

2. Tenerne conto significa invertire radicalmente il discorso, che non deve più partire “dall’alto”, cioè da quello che Dio “potrebbe” fare in astratto, in termini di potentia absoluta (…): cercare di verificare cos’è che in concreto ha senso quando parliamo di onnipotenza divina, cioè di ciò che pensiamo che Dio “possa o non possa” realmente fare, è possibile soltanto esaminando con sommo rigore le strutture della realtà mondana (…).

3. (…) Sono sempre più convinto che o prendiamo questo sul serio o la teologia dovrà riconoscere la propria sconfitta rispetto all’inevitabile deriva atea del Dilemma di Epicuro nella cultura attuale, e naturalmente rinunciare al tentativo di rendere comprensibile e credibile la realtà della provvidenza divina. Perché, se un mondo perfetto fosse possibile e Dio, potendo, non volesse farlo, non sarebbe buono né provvidente (i mali sono così terribili e “ingiustificabili” che, se potesse, qualunque persona minimamente onesta lo farebbe); e, se, volendo, Dio non potesse, non sarebbe onnipotente e pertanto neppure potrebbe essere provvidente.

Negare, più o meno oscuramente, la bontà divina o metterne in discussione, in maniera più chiara, l’onnipotenza significa rendere impossibili l’idea di Dio e la fede nella sua realtà. (…). Di fatto, rinunciare a una teodicea critica e debitamente rinnovata finisce per dar ragione a quanti, come J. L. Mackie, affermano che è veramente miracoloso continuare a credere in Dio, e, in fondo, equivale al riconoscimento che qualcosa di molto serio non funziona e che c’è bisogno di un cambiamento radicale.


L’AZIONE DIVINA AL DI LÀ DEL “DEISMO INTERVENTISTA”

(…). La finalità di tutto lo sforzo e il criterio ultimo del suo successo deve consistere proprio nel contribuire ad una comprensione che, da un lato, risulti critica e coerente e, dall’altro, incoraggi la fede e alimenti la fiducia nella cura provvidente di Dio. (…). E la verità è che esistono possibilità per un’interpretazione che – se si procede con spirito aperto e sintonia di cuore – non solo non perda nulla di ciò che c’era prima, ma che riveli anche una nuova ricchezza. (…).

Il principale punto di forza risiede proprio lì dove si è manifestata la maggiore difficoltà: nel prendere sul serio l’autonomia del mondo, interpretando a partire da questa il senso dell’azione divina nel cosmo e nella storia. Non è risultato facile, ma è chiaramente possibile.

È ben noto che la prima reazione è stata quella del Deismo: se l’universo è come un orologio perfetto che funziona secondo le proprie leggi, la provvidenza si rende superflua: l’azione divina è ridotta alla creazione iniziale e al giudizio finale. Una soluzione (…) risultata intollerabile per l’esperienza religiosa autentica. (…).

La cosa grave è che non si è operata una vera sintesi tra le due evidenze, tra la realtà viva dell’azione divina, da un lato, e la sua non interferenza empirica con i processi naturali, dall’altro. Quella che si è stabilita è stata una soluzione ibrida ed eclettica: una specie di deismo interventista che, in modo non sempre confessato ma molto efficace, immagina un dio nel cielo ma anche presente nel mondo, da cui ci si aspetta che di tanto in tanto, soprattutto in occasioni di speciale necessità, intervenga supplendo o completando ciò che non può ottenere l’azione umana: (…) in casi estremi, si chiede un miracolo e addirittura lo si può esigere come prova empirica per una canonizzazione. Il risultato per la comprensione della provvidenza in una coscienza mediamente critica all’interno della cultura attuale è devastante: le infermità restano non sanate e le catastrofi continuano a uccidere, senza che la “provvidenza” appaia. Ed è ancora peggio quando si dice che sia apparsa, affermando l’esistenza di un caso miracoloso, perché allora piovono le domande: perché agli uni sì e agli altri no; perché così pochi casi, considerando le tante necessità; perché continuano a morire di fame milioni di bambini innocenti, se il miracolo è possibile e il potere è infinito e senza sforzo? (…).

La cosa sorprendente è che la vera risposta è nella stessa Bibbia, quando attraverso la sua accidentata lettera riusciamo a leggere l’autentico senso della creazione (…). In una parola, la risposta cercata è nella creazione-per-amore.


LA PROVVIDENZA A PARTIRE DALLA CREAZIONE-PER-AMORE

La mentalità condizionata da ciò che ho chiamato deismo interventista e accentuata dal letteralismo biblico delle narrative tradizionali ha impedito di trarre tutte le conseguenze dall’enorme fecondità racchiusa nell’idea della creazione. (…). L’atto creatore non è un inizio che risale al passato, ma un «inizio che sempre accompagna il cammino» (O-H. Pesch). Che accompagna come iniziativa assoluta e dedizione incondizionata d’amore: creazione-continua-per-amore.

1. Tale visione, esaminandola in sé e non a partire da una mentalità abituata a leggere l’azione divina unicamente in termini di interventi puntuali e palpabili, non solo non implica passività, ma presuppone la massima e permanente attività. (…). Dio non ha bisogno di “entrare” nel mondo per agire, perché è già sempre attivo nel suo “più profondo centro”; né ha bisogno di essere pregato e invocato per rispondere e aiutare, perché sta sostenendo, promuovendo, invitando e incoraggiando affinché noi si possa essere e agire. L’iniziativa è sempre sua: assoluta, incessante, amorevole. Può esserci e c’è passività e inerzia in noi, ma mai nel suo amore infinito, sempre attivo e rivolto unicamente al bene e alla realizzazione di ciascuna delle sue creature.

Una volta scoperta, questa è un’evidenza che sorge spontanea dal più intimo dell’esperienza religiosa viva, che per questo si rivolge sempre a Dio, intuendo che nel suo amore c’è rifugio e forza, protezione avvolgente e garanzia ultima (…): non esistono limiti alla cura amorevole di Dio e tutto quello che possiamo dire o proclamare riguardo alla sua provvidenza sarà sempre poco. Perché, rispetto (…) a ciò che Dio vuole e desidera per la sua creazione, non saremo mai sufficientemente ottimisti (…). Quel che avviene è che ciò che Dio vuole e persegue con amore infinito per le creature deve realizzarsi in e attraverso la precaria e sempre lacunosa finitezza di queste. L’esperienza religiosa ha dovuto apprenderlo duramente dalla storia passata e dalla realtà presente. (…) Da qui il compito irrinunciabile di interpretazioni che cerchino di spiegare quello che sembra una dolorosa contraddizione. Restano sottintese le enormi difficoltà dell’impresa e il fatto ovvio che ogni epoca deve affrontarla con le proprie risorse.

La nostra è, lo ripetiamo, profondamente caratterizzata dalla scoperta dell’autonomia, la quale, certamente, ha dato grande rilievo alle difficoltà, ma offre anche possibilità nuove e feconde. (…). Perché prendere sul serio la creazione, come azione libera e amorevole di Dio, significa comprendere che questa ha senso solo affinché la creatura sia se stessa, cioè affinché realizzi il proprio essere e operi con i propri dinamismi. Sarebbe assurdo che Dio avesse portato all’esistenza creature distinte da sé per poi riassorbirle annullandole o che le facesse attive per poi sostituirsi alla loro attività.

2. Al riguardo, conviene distinguere con speciale attenzione tra natura e libertà, tra ciò che agisce secondo la regolarità necessaria delle leggi naturali e ciò che avviene attraverso il consenso e la libera decisione umana.

Riguardo alla natura, la provvidenza consiste nel mantenerla nel suo essere e nel renderla capace di realizzarsi conformemente alla regolarità delle sue leggi (…), senza altri limiti che quelli inevitabili legati agli urti, alle incompatibilità e ai conflitti nell’incontro delle finitezze. Le realtà finite (…) non sempre possono realizzarsi né nella propria pienezza né in armonia con le altre: derivano da qui i cosiddetti “mali naturali”.

Cosa distinta è la libertà (…). In questo caso la provvidenza (…) può consistere solo nel fondare la libertà nel suo orientamento fondamentale al bene e appoggiarla nel suo sforzo per conseguirlo. Ma è chiaro che questo non può avvenire sostituendo la libertà, né (…) annullandola quando decide di operare male o forzandola ad operare il bene. Entrare in questa logica comporterebbe irrimediabilmente l’annullamento della libertà o l’arbitrarietà assurda di un creatore che porterebbe all’esistenza creature libere per togliere loro la libertà quando esse vogliono esercitarla, cancellando così con la mano sinistra quanto creato con la destra.

3. (…). Se mi considero realmente creato-per-amore, posso rendere continuamente grazie a Dio perché mi sta sostenendo nell’essere dotandomi delle leggi fisiche che rendono possibile la mia vita. E poiché credo nel suo amore, so che vuole per me una vita il più piena e sana possibile: neppure un capello della nostra testa sfugge alla sua cura, ha insegnato Gesù di Nazareth.

So anche che, malgrado tutto, si produrranno errori e sofferenze, a volte terribili, e che giungerà la morte. Ma comprendo che tutto questo è inevitabile, come possibilità costitutiva della vita finita, che in altro modo non potrebbe semplicemente esistere. Per questo non lo vivo come abbandono o disinteresse da parte di Dio, bensì sapendomi accompagnato dalla sua provvidenza (…). Che ci riesca o meno, come credente sono convinto che Dio, (…) per quanto a volte tutto indichi il contrario, non mi abbandona mai e che, quale che sia l’oscurità, vivo avvolto e protetto nella sua provvidenza. (…). 


IL SENSO ULTIMO E RADICALE DELLA PROVVIDENZA

(…). Senza negare quello che di vero c’è nell’intuizione della coscienza comune, quando afferma che “Dio scrive dritto su linee storte”, è necessario purificarla da ogni contaminazione magica o meccanicista. (…).

Paul Tillich lo ha espresso in un sermone universitario, breve ma di grande intensità religiosa, in cui commenta Romani 8,38-39 (…), nel duro contesto dei terribili episodi della guerra mondiale, con i suoi crimini e le sue catastrofi, con la distruzione di corpi e di anime, di individui e popoli, affermando che è «in questo tempo, e proprio in questo tempo, che possiamo presumere che nulla di questo può separarci dall’amore di Dio». E chiarisce: «La fede nella provvidenza divina è la fede nel fatto che nulla può impedirci di compiere il senso ultimo della nostra esistenza. La provvidenza non significa una pianificazione divina per cui tutto è predeterminato, come in una macchina efficiente. Piuttosto, la provvidenza significa che in ogni situazione è implicata una possibilità di creatività e di salvezza, che non può essere distrutta da nessun avvenimento».

Il che conduce alla grande domanda riguardo al senso definitivo della storia e, insieme a questa, al fondamento ultimo della speranza cristiana. (…). Tradizionalmente, la teologia ha affrontato la questione a partire dal potere di Dio sul destino del mondo e dell’umanità. Con una doppia prospettiva: quando ha posto l’accento sull’amore, come in Origene, ha aspirato alla apokastasis ton panton, la restituzione di tutta la realtà alla sua origine divina; quando, invece, ha posto l’accento sul giudizio, come nell’aspetto più infelice della teologia agostiniana, ha interpretato la provvidenza come rigorosa predestinazione, agli uni la salvezza e agli altri la condanna, anteriormente alle decisioni della libertà. Qualcosa si è detto sull’orrore a cui può condurre questa seconda prospettiva. La prima, invece, continua ad esercitare il suo fascino, (…) accentuando la forza dell’amore creatore e della sua «benedizione originale» (M. Fox), mai venuta meno. (…). Ma oggi non è il caso di trascurare la presenza decisiva della libertà come componente intrinseca della realizzazione della creatura. Per questo non avrebbe senso una “restituzione” che fosse un semplice ritorno al principio, in quanto, in definitiva, condurrebbe a un riassorbimento indifferenziato in Dio, rendendo inutile la storia e privandola di ogni significato (…).

Continuando ad insistere sul collegamento tra creazione per amore e significato storico, sembra possibile accogliere il meglio di questa prospettiva, come ho provato a fare interpretando la grave questione della “condanna eterna” (…). Nel senso che non mi pare possibile una rottura totale con l’amore creatore di Dio da parte di una libertà finita e pertanto mai totalmente padrona di se stessa. Ma, considerando che la libertà finita resta comunque una libertà reale, è necessario tenere conto che gli effetti della sue decisioni finitamente cattive non sono senza conseguenza. Il che permette di interpretare la condanna come perdita eterna, impedendo una maggiore pienezza nell’accoglienza della salvezza data da Dio. (…). In ogni caso, con maggiore chiarezza parla san Paolo nella sua misteriosa allusione a una salvezza «come attraverso il fuoco» (1Cor 3,15). Soprattutto quando (…) propone la visione insuperabile del finale glorioso della storia umana: «L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. (…) E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti».

Tutto in tutti. Ma non un “tutto” di semplice ritorno al principio, a una indifferenziazione iniziale, bensì un tutto di avanzamento e maturazione verso l’incontro cosciente e amorosamente personale. Un tutto arricchito dal carico della storia vissuta, avvolta e protetta dalla provvidenza amorevole che cerca per noi e con noi la crescita verso una pienezza autentica, in comunione irristretta, apertura fraterna e comunione senza frontiere.


LA SPIRITUALITÀ DELLA PROVVIDENZA

Affacciarsi ai vertici di questa visione gloriosa non può ridursi a una mera speculazione. Non avrebbe senso se non conducesse a un’intensa cura interiore e a una realizzazione pratica.

1. Implica, in primo luogo, lavorare per una vera conversione noetica, una metanoia, cioè un “cambiamento di mente”, che abitui a vedere tutto dal punto di vista della provvidenza divina. Cominciando dalla percezione di base, radicale: quella di interpretare il mondo e la vita non come un prodotto casuale e arbitrario (…), ma come frutto dell’amore personale e viscerale di Dio. Di un amore rivolto instancabilmente verso la nostra vita di figlie e di figli, non di sudditi o servitori. (…).

Su questo fondamento generale, è necessaria una revisione degli abiti mentali e affettivi. Prima di tutto, rispetto a Dio stesso, spazzando i fantasmi che lo presentano come padrone e signore che chiede “gloria” ed esige “servizio”, ricompensando con premi o minacciando con castighi. (…). Conviene alimentare con attenzione la sicurezza salda in una provvidenza che mai si ritira nell’assenza né si occulta nel silenzio, come tante volte si dice (…). Perché Dio, nella sua provvidenza, è più interessato che noi stessi alla nostra stessa salvezza e resta sempre presente e attivo, cercando di far sentire la sua presenza, di aprire le nostre orecchie e di rompere le nostre resistenze. (…). Credere realmente nella provvidenza significa, in definitiva, lasciarsi guidare dai cammini che essa, come continuità della creazione per amore, cerca di aprire per l’autentica realizzazione della nostra vita.

E spero che a questo punto si comprenda la mia insistenza sull’importanza decisiva di riesaminare il tema cruciale della preghiera di petizione. (…). Se quanto visto fin qui è fedele a ciò che vi è di più genuino e originario, non risulta difficile notare come (…) ciò che nella petizione si dice inverta radicalmente il senso della provvidenza. Prima di tutto perché inverte i ruoli, collocando l’orante al posto di Dio e Dio al posto dell’orante: non è più Dio che risveglia la coscienza e convoca all’accoglienza e all’azione, ma è l’orante che sollecita Dio cercando di ottenere che accolga e operi. (…). Come possiamo noi chiedere a Dio di essere compassionevole, di ricordarsi dei poveri e di avere pietà di coloro che muoiono di fame o vengono assassinati? (…). Sarebbe bene che la teologia (…) si concentrasse sugli effetti tanto evidenti di molte pratiche della pietà popolare e sull’impatto che una tale immagine divina sta esercitando sulla cultura generale.

2. Alla conversione noetica la spiritualità della provvidenza deve unire la conseguenza pratica. (…). Il contrario equivarrebbe a una fede morta, a un’adorazione a parole. (…).

La visione premoderna (…) poteva ancora conciliare l’autonomia con la fede in interventi puntuali divini sul decorso naturale. Ma la situazione è cambiata. È ormai evidente che tutto quello che succede empiricamente nel mondo, cioè nell’ambito delle leggi relative al suo funzionamento, che siano fisiche, sociali o psicologiche, ha una causa interna al mondo. Cosicché quello che noi non facciamo resterà irrimediabilmente non fatto. Espresso in termini evangelici, se il samaritano non fosse passato per quella strada, il ferito sarebbe morto dissanguato, allo stesso modo in cui oggi, se non cambiamo le politiche alimentari, milioni di bambini continueranno a morire di fame. (…). Il nucleo della confessione cristiana ci insegna che, se qualcosa manca nella realizzazione del progetto di salvezza, non è mai dal lato dell’iniziativa e dell’azione divine, ma dal lato della risposta umana. Perché, lo ripetiamo, solo nella nostra risposta, in quanto costitutivamente necessaria, può l’azione trascendente di Dio convertirsi “samaritanamente” in efficacia storica. (…).

È anche il caso di toccare il tema affascinante della libertà umana come unico luogo in cui l’iniziativa divina, senza violare l’autonomia creaturale, può cambiare e migliorare il corso del mondo. Questo è il vero, universale e continuo miracolo che avviene sulla terra, ogni volta che qualcuno cura un infermo, consola un afflitto o accresce di qualche punto la gioia e il benessere dell’umanità. E va notato che l’insistenza sui (miracoli) empirici, così apparentemente pia, sta nascondendo l’evidenza di questa magnifica verità. Che, quando è presa sul serio (…), non solo rende visibile la legge fondamentale dell’incarnazione, ma si traduce, malgrado tante accuse (…), nella massima “fedeltà alla terra”. (…)