Puglisi, il prete che voleva convertire i mafiosi
di Luigi Ciotti
“La Stampa” del 7 maggio 2013
«Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite».
Un uomo di mafia divenuto collaboratore di giustizia parla così a un magistrato. Venticinque giorni dopo, don Puglisi verrà assassinato.
Pino Puglisi, dunque, come sacerdote di una Chiesa che interferisce. Ma che cosa significa
«interferire»? E da dove nasce, in don Pino, questo «interferire» che avrebbe pagato con la vita? Il bel libro di Mario Lancisi aiuta a capirlo.
Nato a Palermo nel 1937, don Pino viene ordinato sacerdote nel 1960, quando la Chiesa è mossa da quei fermenti che troveranno forma nel Concilio Vaticano II, aperto da papa Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962. Il vento del cambiamento non coglie don Puglisi impreparato. È uno di quei preti che, all’inizio degli anni Sessanta, sperano ardentemente in una Chiesa più aperta al mondo, più capace di saldare il Cielo e la Terra, più determinata a contribuire al progresso umano denunciando anche le radici sociali e politiche dell’ingiustizia. Una Chiesa, nondimeno, capace di avviare anche dentro se stessa un processo di purificazione dal potere per rendersi più povera ma, proprio per questo, più forte dinanzi a ogni potere.
È in questo fermento che don Pino intraprende il suo sacerdozio e scopre la sua vocazione educativa. Il libro di Lancisi ritorna spesso su quest’aspetto della personalità di don Puglisi, sul suo essere dotato della qualità che contraddistingue da sempre i grandi educatori: l’ascolto. Qualità che don Pino affina alla fine degli Anni 60 all’epoca della «contestazione», quando i giovani non riescono più a identificarsi in una società sentita per troppi versi autoritaria e selettiva, fossilizzata in costumi incapaci d’intercettare il loro bisogno di partecipazione e di protagonismo.
In quegli anni don Pino insegna religione in un liceo di Palermo e riesce a farsi benvolere da tutti, anche da chi si sente ideologicamente avverso a una Chiesa considerata come una realtà reazionaria, ostile ai cambiamenti. Don Puglisi ascolta, dialoga – forte di una cultura alimentata da una gran curiosità intellettuale e da profonde e non «canoniche» letture – e a poco a poco suscita in quei giovani fiducia, apertura, confidenza, accettando di misurarsi sul terreno della vita, quello delle grandi domande che scuotono la coscienza di ognuno a prescindere dai riferimenti religiosi e culturali, lasciando da parte ogni pretesa di «proselitismo». «Nessun uomo è lontano dal Signore» avrà modo di scrivere. «Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto si aprirà».
Ma l’attitudine pedagogica di don Pino, il suo profondo interesse per le vite degli altri, incontrerà presto altre e ben più ardue prove. Inviato negli anni Settanta a Godrano, borgo incastonato nelle Madonie a settecento metri d’altezza («sono diventato il prete più altolocato della diocesi », annoterà autoironico) trova una comunità segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. A Godrano si sente chiamato per la prima volta a «interferire» in relazioni umane caratterizzate da dinamiche drammatiche e violente, e si rende conto come certi modelli culturali possano trovare indiretta sponda in «una religiosità insterilita nel chiuso della sacrestia o delle pratiche devozionali e bigotte».
Ma è nel ritorno a Palermo, la Palermo degli anni Ottanta insanguinata dagli omicidi e dagli attentati, che don Puglisi prende coscienza della forza criminale delle logiche mafiose, capaci di condizionare non solo le menti ma le strutture politiche ed economiche. Don Pino cerca di aprire varchi nel muro di omertà e connivenza che protegge il potere mafioso, e moltiplica il suo impegno nel campo educativo, consapevole che le indagini e gli arresti non bastano a estirpare un male destinato a riprodursi se non viene aggredito nelle sue origini sociali e culturali. Ai suoi giovani insegna la tenacia e la forza dell’impegno collettivo, e li mette in guardia da tre pericoli: la «sindrome del torcicollo», tipica di chi è prigioniero del passato; quella dell’immobilismo, frutto di esercizi d’intelligenza troppo compiaciuti per passare all’azione; e quella, non meno insidiosa, dell’ansia frenetica, tipica di chi, volendo cambiare tutto sull’onda dell’emozione, finisce per cedere al richiamo delle scorciatoie. Sembra quasi un gioco del destino quello che lo riporta, all’inizio degli anni Novanta, a Brancaccio, il quartiere natio, «la borgata più dimenticata della città», dove la mafia, dirà un collaboratore di giustizia, esercita un «comando geloso». È in realtà una scelta consapevole: «D’altronde sono fatto così. Appena mi dicono che in quel posto non vuole andare nessuno, avverto immediatamente l’impulso a precipitarmi proprio lì». Il libro di Mario Lancisi ricostruisce il cammino esistenziale e spirituale di don Puglisi fino a quel tragico 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno. È un libro toccante e documentato, arricchito dalle testimonianze di chi ha conosciuto don Puglisi e ha voluto bene a questo prete che interferiva come dovrebbe interferire nella nostra vita la voce della coscienza e il desiderio insaziabile di giustizia.
Mi limiterò, nel mio piccolo, a due ultime riflessioni. Le mafie – sempre attente nell’ostentare una religiosità di facciata, non vincolante sotto il profilo etico – non sempre hanno trovato sulla loro strada una Chiesa che interferisce . Hanno anzi incontrato spesso atteggiamenti di neutralità se non, addirittura, di compiacenza e di collusione. Questo ovviamente non oscura l’impegno, ieri e oggi, di tanti uomini di Chiesa nei contesti più difficili, così come la storica «invettiva» di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento, quando, qualche mese prima degli omicidi di don Puglisi e di don Peppe Diana, definì la mafia un «peccato sociale» e «una civiltà di morte», invitando i mafiosi a convertirsi. Seconda riflessione. L’impegno contro la mafia non è dunque solo politico, culturale ed educativo, ma può e deve essere anche evangelico. Il Vangelo come strumento di giustizia, di affermazione della dignità e della libertà umana, non può che chiedere agli uomini di Chiesa parole di denuncia e un impegno netto contro le mafie e tutte le forme di abuso, di corruzione, di illegalità che delle mafie sono spesso l’anticamera. È augurabile, dunque, che la Chiesa prosegua nel suo processo di purificazione, spoliazione e povertà di fronte al potere. A farla «ricca» sono e saranno le tante espressioni di responsabilità e impegno che saprà alimentare al suo interno.
Solo così la memoria di don Puglisi continuerà a vivere nel cuore e nelle opere di ciascuno di noi.