ADISTA n° 39 del 9/11/2013
Il vescovo episcopaliano John Shelby Spong esercita sicuramente un ruolo di grande rilevanza (tra i suoi libri, sono usciti in italiano, per iniziativa della Massari editore, Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo; Gesù per i non religiosi. Recuperare il divino al cuore dell’umano e Il quarto Vangelo. Racconti di un mistico ebreo; v. Adista Documenti nn. 94/10, 28/12 e 35/13)
La nuova visione della realtà trasmessaci dalla scienza (dalla nuova cosmologia alla fisica quantistica fino alla neurobiologia) come una sorta di nuovo racconto sacro porta con sé inevitabilmente anche una nuova immagine di Dio: se oggi non è più possibile immaginare un Dio che sta fuori, che sta sopra, che interviene nella storia al di fuori delle leggi naturali, sottraendo alla creazione l’autonomia di cui questa è stata dotata, dovrà di conseguenza cambiare radicalmente anche l’immagine della religione. Secondo lei il cristianesimo è pronto per questo salto?
Il cristianesimo è una religione molto tradizionale. Non è facile accettare cambiamenti per chi trae la propria sicurezza dalle immagini religiose offerte dalla tradizione. La gerarchia ecclesiastica non incoraggerà mai un tipo di dibattito destinato a fare spazio a nuove interpretazioni. Questo salto nel futuro avverrà inevitabilmente senza il sostegno della gerarchia, addirittura senza l’entusiasmo delle masse. Ma avverrà comunque. Non si può reprimere la verità semplicemente perché è inopportuna. Galileo l’ha dimostrato già nel XVII secolo. Certamente, all’interno della Chiesa cattolica, esistono già voci che invocano una riforma: basti pensare a studiosi di rilievo come Hans Küng, Edward Schillebeeckx, Charles Curran, Leonardo Boff, Matthew Fox o a teologhe cattoliche come Letty Russell, Rosemary Radford Ruether, Elizabeth Schussler-Fiorenza, Jane Schaberg e molte altre, tutte impegnate a mettere in discussione e a ripensare le immagini tradizionali, sviluppando nuove forme di teologia. Queste voci di frontiera continueranno a farsi sentire e a crescere di intensità a ritmo sempre più sostenuto, finché a un certo punto non si troveranno più ai confini della Chiesa ma al centro. È sempre in questo modo che avviene la riforma. Non bisogna, dunque, temere di essere i soli a esprimere una nuova prospettiva. Se quella prospettiva è autentica, si imporrà. Dobbiamo solo essere fedeli alla ricerca della verità.
Dalla sua ricerca teologica emerge la convinzione che, se il
cristianesimo vorrà continuare a parlare al mondo postmoderno, salvandosi
così da un’altrimenti sicura irrilevanza, lo dovrà fare sulla base di idee e
parole radicalmente nuove. Da dove partire per questo compito tanto
ambizioso? Quali sono, a suo giudizio, i primi irrinunciabili cambiamenti da
promuovere?
La verità non emerge dalla formulazione dei credo, ma da idee nuove. È l’esperienza di Dio a essere eterna: le spiegazioni umane di quell’esperienza sono sempre legate al tempo e ne sono condizionate. Queste spiegazioni perdono inevitabilmente peso quando una nuova verità supera quelle vecchie. Galileo distrusse il concetto biblico della Terra come centro di un universo strutturato su tre livelli. Isaac Newton spazzò via la visione di una natura operante secondo il miracolo e la magia. Louis Pasteur superò l’idea che la malattia fosse il risultato di una punizione divina. Charles Darwin scardinò l’immagine della “Caduta” e del peccato originale. Quando le nuove idee vengono sottoposte a processo, alcuni sceglieranno di combatterle. Ricordiamo che la Chiesa processò Galileo per eresia. Altri prenderanno atto di come le nuove verità tolgano rilevanza alla verità cristiana e quindi lasceranno la Chiesa per acquisire cittadinanza nella società secolare. Altri ancora – e saranno sempre una minoranza – si terranno invece saldi all’esperienza cristiana e cercheranno di sviluppare un modo nuovo di raccontare la storia cristiana alla luce delle nuove conoscenze. Questa è l’arena da cui emergerà la creatività di domani.
Nei suoi libri lei ha evidenziato come, per quanto sia oggi
impossibile prescindere dallo studio critico della Bibbia, i membri del
clero appaiano impegnati a sopprimere ogni conoscenza al riguardo «per paura
che il fedele medio, conosciuto il vero contenuto del dibattito, senta la
sua fede distrutta e, cosa più importante, non sostenga più il cristianesimo
istituzionale». Come se la verità e Dio possano mai risultare incompatibili.
Di certo non è facile, per il credente, scoprire che «così tanto di ciò che
è stato detto e scritto su Gesù non è affatto storia». Come pure rinunciare
all’idea di «un essere soprannaturale che ci faccia da genitore», che
intervenga da “lassù” in nostro aiuto. Ciò vuol dire che l’educazione dei
cristiani deve essere una sfida prioritaria per la teologia?
Certo! L’educazione cristiana dev’essere fatta uscire dalle accademie di istruzione superiore e portata tra i banchi delle nostre chiese. Se il cristianesimo ha paura della conoscenza, morirà. Se la nuova conoscenza è in grado di distruggere la fede in Dio, allora vuol dire che Dio è poco più che un idolo creato dall’essere umano. Se il clero avesse il coraggio di insegnare alla gente tutto ciò che sa riguardo alla Bibbia, ho l’impressione che le persone risponderebbero con entusiasmo. È stata questa, almeno, l’esperienza vissuta in ogni chiesa in cui ho svolto il mio ministero sacerdotale. Per far questo, è necessario che il clero dia prova di coraggio, sensibilità e amore: cosa di certo possibile.Bisogna, però, fare attenzione. Un’istruzione cristiana efficace non cala dal pulpito durante le celebrazioni attraverso le parole tradizionali della nostra liturgia. Nelle nostre chiese deve esserci la stessa atmosfera che si respira in una scuola, dove le persone possano fare domande, mettere in discussione posizioni, persino opporsi a nuove idee e mettere pubblicamente sotto processo una nuova verità, e possano farlo secondo i loro tempi. Ciò non può aver luogo durante la liturgia, dove la verità sembra calare dall’alto e dove l’autorità del prete non può essere discussa. Né la Chiesa istituzionale né la gerarchia ecclesiastica possiedono la verità ultima. Possono soltanto indicarla e procedere nella sua direzione. L’educazione cristiana deve mettere in discussione le rivendicazioni autoritarie e perciò deve aver luogo in uno spazio in cui sia possibile un processo di apprendimento e non in cui si eserciti il culto.
Nel libro Il Quarto Vangelo, lei cita la frase di John A. T.
Robinson: «Più invecchio, più profondamente credo e meno credenze ho».
Significa che, come diceva Karl Rahner, il cristiano di domani o sarà un
mistico o non sarà?
Mistica significa che le parole umane non possono mai cogliere la verità ultima di Dio. Ciò riguarda anche le parole umane della Scrittura, dei credo e delle dottrine. Più si scende in profondità nel mistero di Dio e più le parole rivelano la propria inadeguatezza e il culto diventa uno “stupore senza parole”. Ecco cosa significa la mistica. Quindi Karl Rahner ha ragione: le credenze aiutano, ma è la qualità del credere, inteso come fiducia, che ci spinge verso la libertà sfuggendo alla schiavitù delle interpretazioni ecclesiastiche radicate nel passato.
Il pontificato di Bergoglio sta generando molte aspettative riguardo a una serie di riforme nella Chiesa cattolica. Lei pensa che tali riforme potranno favorire la nascita di “un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo” o serviranno soprattutto a restituire prestigio a un’istituzione ancorata irrimediabilmente al passato?
Papa Giovanni XXIII ha dato certamente una spinta innovativa alla Chiesa. E papa Francesco sembra muoversi nella stessa direzione. È troppo presto per poter emettere un giudizio chiaro sul suo pontificato. Dobbiamo aspettare e vedere, per esempio, quali vescovi, arcivescovi e cardinali verranno nominati. Dobbiamo vedere che cosa farà per garantire alla teologia cattolica la libertà di cercare nuovi significati. Un buon segnale sarebbe quello di riabilitare completamente teologi come Hans Küng, Matthew Fox e Leonardo Boff e riammettere al sacerdozio studiosi del rango di Anthony Padovano e James Carroll. Lo dirà il tempo. Io sono ottimista.
Come valuta l’impegno delle Chiese sul fronte della difesa della
vita sulla Terra, un’emergenza rispetto a cui ogni altra questione, per
quanto importante, è inevitabilmente destinata a passare in secondo piano?
La Chiesa ha dimostrato una scarsa capacità di svolgere una funzione di guida nella tutela dell’ambiente, per quanto a mio giudizio non possa far molto su questo tema. Tuttavia, dobbiamo far sentire le nostre voci nell’arena pubblica quando cerchiamo di diffondere una maggiore consapevolezza riguardo al disastro imminente che ci attende. Di fatto la Chiesa cattolica dimostra di essere parte del problema, quando afferma che il nostro compito come esseri umani su questo pianeta è “sottomettere la Terra” per fare in modo che risponda alle esigenze degli esseri umani. Cooperare con la natura per il bene di tutta la creazione: questa sarebbe la prospettiva giusta. In base alla mia esperienza, la devastazione della Terra è una parte del prezzo che paghiamo per il fatto che la Chiesa ha adottato un modello patriarcale che prevede una leadership esclusivamente maschile. “Terra” è un termine femminile in quasi tutte le lingue del mondo. Parliamo di “Madre Terra” e di “Madre Natura”. Stabilendo una normatività maschile sulle donne, la Chiesa svela una mentalità profondamente sessista. Ed è proprio questa mentalità che occorre superare affinché la “Madre Terra” possa essere salvata dallo sfruttamento umano. L’ammissione delle donne al sacerdozio, l’introduzione del celibato facoltativo, l’apertura ai gay e alle lesbiche non sono temi a sé. Sono tutti temi legati alla realtà patriarcale e al privilegio maschile. Proteggere l’ambiente e combattere l’abuso della natura da parte dell’umanità deve diventare la questione prioritaria per la Chiesa. Tuttavia, si tratta solo di uno degli aspetti del patriarcato, e occorre affrontarli e risolverli tutti insieme.