di Juan José Tamayo
ADISTA n° 4 del 2.2.2013
Lo scorso 17
gennaio si è spenta a Colombo la voce di Tissa Balasuriya, dopo un lungo
tragitto vitale intellettuale e accademico attraverso tutti i continenti e
tutti i campi del sapere. Era uno dei teologi cattolici più prestigiosi del
continente asiatico. Godeva di un’eccellente formazione interdisciplinare,
che gli permetteva di parlare autorevolmente di economia, ecologia,
sociologia, filosofia, ecc. La sua prima laurea fu in Economia nel 1945,
studio che completò con un dottorato in Economica Agricola presso
l’Università di Oxford. All’Università Gregoriana conseguì altri due titoli
– in Filosofia e Teologia – che poi ampliò presso l’Istituto Cattolico di
Parigi e presso la facoltà di Sociologia di Parigi. Apparteneva alla
congregazione degli Oblati di Maria Immacolata.
Negli anni ’70 diede vita al Centro per la Società e la Religione, luogo di
formazione e dibattito cui accedono prestigiosi politici, accademici e
studenti delle differenti tendenze ideologiche sui problemi economici,
sociali, politici e religiosi su scala nazionale e internazionale. In quegli
stessi anni, fondò insieme a vari colleghi l’Associazione Ecumenica di
Teologhe e Teologi del Terzo Mondo (Asett, o Eatwot in lingua inglese), che
riunisce le più notevoli figure della Teologia della Liberazione dell’Asia,
dell’Africa e dell’America Latina.
La sua teologia si colloca nell’orizzonte delle tradizioni culturali e
religiose asiatiche in dialogo fecondo e mutuo con il cristianesimo,
religione minoritaria in Asia. È una teologia che mette in questione
l’universalità della teologia occidentale, libera il discorso religioso dal
colonialismo culturale e lo reinserisce nel contesto del pluriverso
religioso. Il risultato di tale investimento ermeneutico è una riflessione
teologica non dogmatica, pluralista, in dialogo interreligioso e
interculturale e in prospettiva critica rispetto al neoliberismo.
Una delle sue opere più emblematiche è Maria e la liberazione umana, dove
riformula alcuni dei dogmi su Maria di Nazareth come la verginità e la
maternità divina; pone in discussione la dottrina del peccato originale;
sottolinea il carattere rivoluzionario del Magnificat e presenta la madre di
Gesù come la donna forte che accompagna il figlio fino al momento
dell’esecuzione capitale. Il libro va letto nel contesto nel quale è stato
scritto: il continente asiatico multireligioso, multiculturale e
multietnico, caratterizzato da ingiustizia strutturale e molteplice
conflittualità. Il Vaticano lo considerò inficiato da errori, lo condannò e
obbligò – ma senza risultato – il teologo a firmare la seguente professione
di fede sessista: «Riconosco che Cristo, chiamando solo gli uomini a
seguirlo come apostoli, non fu guidato da motivi sociologici e culturali
propri del suo tempo, ma agì in modo totalmente libero e sovrano. Per
questo, accetto e credo fermamente che non è nella facoltà della Chiesa
conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne».
Balasuriya rifiutò di firmarla e il cardinale Ratzinger, allora prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, gli notificò la scomunica
ratificata dal papa.
La scomunica dovette pesare molto sulla coscienza di entrambi i committenti
vaticani, visto che poi gli fu tolta, certo non senza esigere che da quel
momento in poi il teologo sottoponesse previamente i suoi testi alla censura
ecclesiastica. Balasuriya non ammise gli errori di cui lo si accusava e
continuò ad intervenire in numerosi forum di Teologia della Liberazione,
come quello celebrato a Porto Alegre nel 2005, dove ebbi modo di conoscerlo
personalmente.
Per evitare in futuro comportamenti autoritari simili e sofferenze inutili a
persone ingiustamente condannate, l’alternativa alla scomunica non è che il
dialogo intra e interreligioso, come proponeva Raimón Panikkar, pioniere
della teologia e della filosofia interculturali. Questa è la migliore
eredità che ci lascia il teologo dello Sri Lanka scomparso.
* teologo, docente presso l’Università Carlos III di Madrid. Questo articolo – qui in una nostra traduzione – è stato pubblicato sul quotidiano spagnolo “El País”, il 22 gennaio 2013