UN GRANDE VECCHIO

 

Ettore Masina

 

Il manifesto del 12.2.2013

 

Alla notizia delle dimissioni di Benedetto XVI mi è tornata alla mente un'immagine disegnata tanti anni fa da Dino Buzzati per una rivista milanese di cui mi occupavo. Mostrava l'interno di un'immensa chiesa, deserta. Fra le colonne della navata, selva inquietante di pietra e di ombre, la figura esile, poco più di un filo, di un vescovo - o forse proprio di un papa, le braccia levate al cielo. Il titolo, mi disse Buzzati, era «Solitudine». Il mio primo sentimento davanti alla straordinaria (e, per un cattolico, sconvolgente) vicenda di Joseph Ratzinger è stato infatti di solidarietà per la solitudine profondissima di un personaggio della nostra epoca al quale avevo cercato di portare rispetto ma che non amavo e da cui mi ero sempre sentito lontano.
Milioni di persone lo chiamavano padre (anzi: padre santo) ma, per quanto andiamo sapendo, nessuno ha condiviso come un figlio la sua «scandalosa» drammatica decisione. Vengono (venivano) a vederlo grandi folle (turisti che amavano effigiarlo come un papa-re in mezzo al rutilante splendore delle guardie svizzere, contadini di remoti villaggi travolti dall'avventura dei pellegrinaggi low-cost, suore pigolanti e missionari di vita eroica); lui cercava di accontentarli come poteva. Invecchiando, come spesso succede ai vecchi, aveva assunto un aspetto un po' femminile e le sue scarpette rosse erano diventate oggetto di calembour.
I suoi discorsi erano spesso difficili. Lui se ne rendeva conto e, su richiesta dei cerimonieri, cercava di assecondare le richieste dei fedeli: erano usciti dalle sacrestie di San Pietro i paramenti liturgici più preziosi della basilica e qualche giornalista irriverente scrisse che talvolta sembrava il re Eldorado.
Non credo che sia stata soltanto mia la sensazione che non riuscisse a farsi amare, come sinceramente avrebbe voluto. Ratzinger faceva parte delle grandi élites della nostra epoca: grande teologo, grande scrittore e forse anche grande mistico; ma, come la gente delle élites (non soltanto vaticane) suscitava l'impressione che i poveri, anche quando li difendeva con l'esercizio acuminato della ragione e la riflessione dei mistici fossero per lui, nonostante la sua conoscenza del vangelo, delle astrazioni. Per questo li aveva dolorosamente colpiti e fatti colpire quando le loro avanguardie avevano osato leggere il vangelo in maniera inedita. Da questo punto di vista si può dire che aveva continuato a gestire con la rigidità di Wojtyla la crisi disastrosa del cattolicesimo latino americano. L'atteggiamento ondivago a proposito della canonizzazione del vescovo Romero ne è un aspetto evidente.
Certamente il suo pontificato fu costretto al logorio derivante da fenomeni nuovi o emersi da una più o meno compiacente oscurità curiale. La pustola della pedofilia, l'impasse del rapporto fra grandi religioni, lo scandalo continuato della presenza dello Ior accanto alla tomba di Pietro, la lettura minimalista del Concilio con le connessioni ai lefebvriani palesi e occulti, le piccole (o grandi?) congiure fra cortigiani hanno imposto a Ratzinger notti insonni e giorni opprimenti. Si può giudicare variamente la risposta che egli ha dato a questi inediti accadimenti. Per quanto mi riguarda, oggi è viva in me l'ammirazione per questo vecchio: con la sua decisione certamente sofferta e coraggiosa si è rifiutato di consentire che il mito dell'onnipotenza pontificia prevalesse ancora una volta sui limiti della persona umana con esiti disastrosi.