Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco
In un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c'è ancora spazio per la gratuità, l'amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa
di VITO MANCUSO
la Repubblica
14 Marzo 2014
E se papa Francesco fallisse? Non ci sono dubbi che dietro le aperture riformiste del cardinal Kasper e di altri cardinali ci sia proprio il Papa, ma che cosa avverrebbe se le riforme auspicate non andassero in porto e le attese di una nuova primavera si rivelassero solo illusioni?
Nella relazione al
Concistoro straordinario sulla famiglia Kasper ha affermato che "dobbiamo essere
onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla
famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso".
Quanto affermato per la famiglia vale a mio avviso per molti altri ambiti della
dottrina cattolica, anzi io penso che valga per il concetto stesso di dottrina,
intesa come sistema di verità stabilite che il credente è tenuto a professare e
su cui vigila la Congregazione per la Dottrina della Fede, che prima del 1965 si
chiamava Sacra Congregazione del Sant'Uffizio e prima del 1908 si chiamava Sacra
Congregazione della Romana e Universale Inquisizione.
Elencare i molti elementi
che rendono l'insegnamento della Chiesa "lontano dalla realtà e dalla vita" non
è difficile. Oltre alla dottrina sul matrimonio vi sono la regolazione delle
nascite con il clamoroso fallimento pratico e teorico dell'Humanae Vitae di
Paolo VI, l'identità sessuale e l'omosessualità al cui riguardo occorre cessare
di parlare di malattia come ancora spesso si fa, il ginepraio della bioetica da
cui non si esce continuando a ripetere solo dei no soprattutto sulla
fecondazione assistita, il destino degli embrioni congelati, la diagnosi degli
embrioni prima dell'impianto, il principio di autodeterminazione a livello di
testamento biologico. Vi sono poi i problemi ecclesiologici che già nel 1987
Hans Küng definiva "noiose vecchie questioni", cioè la scarsità delle vocazioni
sacerdotali e religiose, il celibato del clero, i criteri di nomina dei vescovi,
la collegialità come metodo di governo, la questione laicale, la questione
femminile, la riforma della curia romana, il rispetto dei diritti umani
all'interno della Chiesa (di cui "la tratta delle novizie" denunciata dal Papa è
solo un aspetto), la libertà di ricerca in ambito teologico.
Qui non accenno neppure ai
molti problemi teologici, sia in sede di teologia fondamentale sia in sede di
teologia sistematica, che mostrano tutta la fragilità della tanto celebrata
dottrina, se non per dire il problema vero e proprio concerne l'identità del
messaggio cristiano, al cui riguardo ci si deve chiedere: qual è oggi la buona
notizia di ciò che viene detto vangelo?
Penso che questo sia il
nodo decisivo e che per scioglierlo occorre alzare la mente e ragionare per
secoli. Se si impara a farlo, si vedrà più lontano, si capirà "che cosa lo
Spirito dice alle chiese" e ci sarà meno paura e meno pessimismo. Occorre saper
vedere infatti non solo quello che muore, ma anche quello che nasce, perché a
qualcosa che muore si lega sempre qualcosa che nasce. Che cosa muore?
Sant'Agostino diceva che egli non avrebbe potuto credere al vangelo se non
l'avesse spinto l'autorità della chiesa cattolica (Contra ep. Man. 5,6: "Ego
vero evangelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas"),
fondando così il modello della fede che fa del cristiano un ecclesiastico, cioè
un membro di una struttura di cui deve accettare la dottrina. Oggi questo
modello sta morendo, l'epoca della fede dogmatico-ecclesiastica che implica
l'accettazione di una dottrina e di un'autorità è ormai alla fine perché il
metodo sperimentale della scienza è entrato anche nella vita spirituale dove ora
il soggetto vuole sperimentare in prima persona, e con ciò la fede di seconda
mano mediata dall'autorità ecclesiastica è superata. Al suo posto sta nascendo
un cristianesimo non-dogmatico che dall'esteriorità dottrinale passa
all'interiorità esistenziale, che all'autorità istituzionale preferisce
l'autenticità personale. Il passaggio da Benedetto XVI a Francesco è una
manifestazione di questo movimento epocale, così come lo sono i risultati del
sondaggio mondiale commissionato dal Vaticano che mostrano una grande distanza
tra la dottrina ufficiale e la fede realmente vissuta.
Ne viene che se il cristianesimo vuole tornare a essere percepito come una buona notizia che risana e rallegra l'esistenza, e insieme come verità di quel processo che chiamiamo generalmente mondo, si deve sottoporre a riforma. La dottrina sulla famiglia è solo il primo inevitabile passo. Se non lo fa, l'esito è segnato dalle parole di un giovane riportate nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini: "Non so che farmene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa?". È il pensiero della gran parte dei giovani europei.
Qualcuno teme che questa
riforma possa inquinare l'identità cristiana. Ma per il cristianesimo la
rilevanza è parte costituiva dell'identità, non qualcosa che viene dopo.
Un'identità irrilevante non può essere un'identità cristiana, tanto meno
cattolica cioè universale. "Voi siete il sale della terra" (Mt 5,13), "voi siete
la luce del mondo" (Mt 5,14): l'identità cristiana è da subito relazionale, è
essere-per, prende senso solo nella relazione, così come il sale ha senso solo
in relazione ai cibi o il lievito alla farina (Mt 13,33: "Il regno dei cieli è
simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché
non fu tutta lievitata"). Ne consegue che se viene meno la relazione, viene meno
l'identità. Il cristianesimo vive della logica della relazione con l'alterità e
tale logica lo spinge inevitabilmente verso la riforma, obbedirle non è una
concessione al relativismo, è semplicemente un dovere verso il Vangelo.
Ma se papa Francesco non
ce la farà? Se non riuscirà a sanare lo Ior, a rendere il governo della Chiesa
cattolica più conforme al volere del Vaticano II, a incidere sul rapporto con la
politica italiana facendo cessare per sempre la compravendita di favori tra
cardinali e ministri troppo sensibili agli interessi della Chiesa, a mettere
ordine tra i vescovi e i superiori degli ordini religiosi richiamando tutti a
uno stile di vita sobrio e conforme ai valori evangelici, a dare il giusto
spazio alle donne a livello di condivisione del potere aprendo al diaconato e al
cardinalato femminili, a riformare la morale sessuale, a impostare su basi nuove
il reclutamento e la formazione del clero, a dare finalmente più libertà alla
ricerca teologica? Se papa Francesco fallisse in tutto ciò?
Ha scritto qualche giorno fa un non credente come Eugenio Scalfari che grazie a Francesco "Roma è ridiventata la capitale del mondo... Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo". Scalfari parlava ovviamente della leadership spirituale, di cui l'occidente ha un immenso bisogno per continuare a credere nei grandi ideali dell'umanità, tradizionalmente definiti come bene, giustizia, uguaglianza, solidarietà, fratellanza. In un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c'è ancora spazio per la gratuità, l'amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa nell'esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l'esistenza, e con Roma che tornerebbe a essere periferia del mondo sarebbe la fine per gli ideali della spiritualità in occidente. Se lo ricordino i cardinali, i monsignori e i teologi che stanno facendo di tutto per bloccare e far fallire l'azione riformatrice di papa Francesco.