“Quanti silenzi in passato dalla Chiesa ma da oggi con Francesco cambia tutto”
intervista a Luigi Ciotti a cura di Attilio Bolzoni
“la Repubblica” del 22 marzo 2014
Prima si sono presi per mano, lui e Papa Francesco. Poi il prete più amato dall’altra Italia gli ha detto: «Pensavo di trovare un padre e invece ho trovato anche un fratello». Ci confesserà pochi minuti dopo Luigi Ciotti: «È stato un momento storico, io al Pontefice gli avevo appena ricordato che non sempre la Chiesa è stata attenta alla mafia».
Don Luigi, cosa cambierà dopo queste parole di Papa Francesco sulla mafia?
«Sono state chiarissime, molto decise, determinate nella fermezza. Con queste parole si definisce culturalmente un passaggio storico: la cesura netta fra mafia e Chiesa ».
In quest’intervista, alla vigilia della «giornata della memoria» di oggi a Latina – terra di mezzo fra un Sud e un Nord sempre più vicini nell’oppressione criminale – e qualche minuto dopo la consegna al Pontefice dei «frutti» di Libera strappati alle terre dei boss (tarallini, ceci, pasta, melanzane, pomodorini e i vini Cento Passi in ricordo di Peppino Impastato e Anto’ alla memoria di Antonino Montinaro, capo scorta di Falcone) don Luigi racconta il suo memorabile faccia a faccia con il Papa insieme alle vittime innocenti di tutte le mafie.
I 900 rappresentati dei familiari delle vittime che erano con lei nella chiesa di San Gregorio Settimo avevano chiesto a Papa Francesco una parola chiara. Ci sembra che sia proprio arrivata.
«Sì, attraverso questo riconoscimento della testimonianza dei familiari delle vittime innocenti si definisce un altro modo di leggere la nostra storia».
Cosa faceva il Papa mentre nella chiesa rimbombavano i nomi di tutti quei morti, di tutti quegli italiani caduti in una guerra mai dichiarata?
«Lui ha chiuso gli occhi e ha sospirato mentre sentiva uno per uno tutti i nomi».
Come è cominciata questa grande giornata don Luigi? Prima vi siete presi per mano, poi vi siete abbracciati. E poi?
«Io gli avevo appena detto che troppi silenzi ci sono stati nella chiesa, troppe reticenze. Anche se gli ho raccontato di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi di Agrigento e delle parole di Benedetto XVI ai giovani di Palermo. Ma non basta, ho aggiunto».
Perché non basta? Che altro ha raccontato al Papa?
«Gli ho ricordato che non bisogna lasciare soli i testimoni di giustizia. Ma anche altri. Voglio fare un nome su tutti: il pubblico ministero palermitano Nino Di Matteo. E anche gli amministratori onesti, i giornalisti, i tanti cittadini coraggiosi che cercano verità. Come Vincenzo Agostino, il padre di Nino, poliziotto assassinato in Sicilia. Come i familiari di Attilio Manca a Viterbo, come quelli di Ilaria Alpi e Hrovatin».
Ma oggi forse c’è bisogno di qualcosa di più, non crede?
«Siamo finiti dentro una gabbia, prigionieri di un parlare vuoto dove tutto si confonde. Mafia antimafia, legalità illegalità, giustizia ingiustizia. Tutto è malleabile, a usoe consumo di convenienze e riti».
Cosa vuole dire esattamente?
«Bisogna uscire dai recinti e Papa Francesco ce l’ha appena indicato. Per esempio, la lotta alla mafia non può diventare un esercizio retorico. Mi disturba anche questa parola, antimafia: eliminiamola. Forse così smascheriamo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione». Don Luigi, sta lanciando una piccola grande rivoluzione?
«Dobbiamo rovesciare schemi vecchi, datati. Se le mafie sono presenti così da tanto tempo è anche perché lo abbiamo permesso. La mafia più pericolosa è il nostro immobilismo, il nostro promettere e non fare. Ci sono parole ormai svuotate di contenuto. Ad esempio, “legalità”. È diventata una parola flessibile, calibrata alle circostanze. C’è il rischio di fare della legalità uno strumento non di giustizia ma di potere».
Altre parole malate?
«Antimafia. È una di quelle che sarebbe il caso di abbandonare o almeno di ripensare. Cosa vuol dire essere antimafia? C’è forse oggi qualcuno che si dichiara apertamente a favore delle mafie? Lo stesso vale per “società civile”. Se proprio vogliamo dare un attributo alla parola società, scegliamo che sia responsabile. Non si è mai parlato tanto di legalità come in questi 20 anni e mai il livello di illegalità è tanto cresciuto».
Dobbiamo rivedere il nostro vocabolario, ma anche alcune certezze sulle mafie, non crede?
«Resiste un modo di vedere sorpassato. Si continua a dire che la mafia s’insinua, s’infiltra. La mafia non ha più bisogno d’infiltrarsi per il semplice fatto che ormai è presente dietro facce e opere insospettabili. Le analisi sulla mafie hanno bisogno di una grande scossa ».
Che cosa è la mafia di oggi?
«È una mafia che non ha più bisogno - salvo eccezioni - di fare violenza. Può contare sulla violenza “anonima”, in guanti bianchi, del denaro che circola solo per produrre altro denaro uccidendo il lavoro. Per i morti ammazzati che diminuiscono, cresce a dismisura il numero dei morti vivi, delle persone alle quali il potere economico delle mafie toglie ogni speranza».
Come si combatte questa nuova mafia?
«Non si può vincere senza una forte legge sulla corruzione, che è l’incubatrice di tutte le mafie. Ci vogliono buone leggi, spero che al più presto approvino la riforma del 416 ter sullo scambio politico mafioso ».
È difficile cambiare da un giorno all’altro, come si fa?
«Il cambiamento chiama in causa tutti, ma non può realizzarsi se viene frenato dall’alto. Grande è la lezione di umiltà e saggezza che ci sta dando il Papa. Mi aspetto dalla politica un simile atto di coraggio. Il potere non può essere un’eterna malattia. Quella per cui da un lato si annunciano codici etici e dall’altro si trova sempre l’eccezione, la scappatoia. Si è creato un meccanismo di complicità fra parte della politica e parte della società, basato sul tacito patto, a volte neanche tacito, di coprirsi a vicenda».