Perché Wojtyła non è un santo
di Giovanni
Franzoni *
da “Karol Wojtyła, Il grande oscurantista”, MicroMega, aprile 2011
Dopo l’apertura della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II un gruppo di teologhe e teologi cattolici, partendo ciascuno dalle proprie conoscenze e dalle proprie sensibilità ferite durante l’esercizio del pontificato di questo papa, ha diffuso un appello nel quale sono confluite le principali obiezioni al processo di canonizzazione. Si è voluto così rispondere all’invito della congregazione competente affinché fossero esposte sia le testimonianze favorevoli sia quelle contrarie alla beatificazione.
Personalmente, oltre che dalla repressione del pensiero teologico cattolico attuata da Wojtyła, ero fortemente colpito da quanto avevo appreso a Managua, nella segreteria del Centro Valdivieso, circa il doloroso isolamento di monsignor Oscar Arnulfo Romero che – ricevuto in udienza privata dal papa affinché potesse riferirgli delle scomparse e delle uccisioni di cittadini, sindacalisti e sacerdoti salvadoregni che avevano sostenuto la causa dei contadini nella presa di possesso delle terre loro concesse dalla riforma agraria – vide disprezzata questa documentazione, si sentì esortare ad andar d’accordo comunque col governo salvadoregno e non riscontrò alcun calore pastorale nel papa.
Per i dettagli di questo doloroso isolamento rinvio alla deposizione già consegnata al tribunale del vicariato di Roma [pubblicata qui di seguito, n.d.r.]. Aggiungo solo due considerazioni maturate in seguito a quella deposizione.
Quando è emerso lo scandalo degli abusi sessuali su minori compiuti da religiosi cattolici, e non per un atto di consapevolezza da parte della Chiesa ma grazie ai procedimenti legali e risarcitori intentati dalle vittime, l’attenzione del mondo si è rivolta alle responsabilità non solo dei religiosi abusanti ma anche delle autorità della gerarchia che avevano celato il fenomeno agli organi inquirenti laici e si erano accontentate di ammonimenti e di trasferimenti in altre sedi dei preti pedofili (che infatti, in molti casi, hanno proseguito nei loro perversi comportamenti).
Questa modalità di copertura degli scandali oltre a essere contrastante con la lettera dell’Evangelo, secondo il quale è bene che gli scandali siano manifesti perché ci sia chiarezza nella comunità, è risultata anche offensiva nei confronti del rapporto fra corpo ecclesiastico e società laica. Alcuni vescovi costretti tardivamente a dare le dimissioni in seguito all’esplosione degli scandali hanno pubblicamente detto che consultandosi con la Congregazione per la dottrina della fede, di cui era prefetto l’attuale pontefice, avevano operato nella convinzione di essere in armonia con la volontà del papa.
Quanto poi allo scandalo che ha coinvolto l’arcivescovo di Vienna, Hans Hermann Groër, costretto alle dimissioni da una corale richiesta dei vescovi austriaci, è noto che la sua promozione da abate benedettino ad arcivescovo fu promossa personalmente da Giovanni Paolo II che aveva stretto un rapporto di amicizia e collaborazione con Groër già da quando era vescovo di Cracovia.
Una seconda considerazione più che la figura di papa Wojtyła riguarda la scelta dell’attuale pontefice di procedere alla cerimonia di beatificazione in una data – il 1° maggio 2011 – che evidentemente viene sottratta alla celebrazione e alla frequentazione di masse di lavoratori organizzati fra i quali vi sono notoriamente cattolici e non cattolici, credenti religiosi e diversamente credenti.
Questa «invasione di campo» costringe alcuni cattolici a scegliere fra partecipazione socio-politica e partecipazione a aventi ecclesiastici. Si tratta di un antagonismo di cui non sentivamo il bisogno. (g.f.)
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L’apertura ufficiale, il 28 giugno 2005, della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, ha sollecitato tutti i cattolici, uomini e donne, che si sentono partecipi e responsabili della vita della loro Chiesa, a inviare le loro testimonianze sulle opere del romano pontefice scomparso il 2 aprile precedente.
Come era stato correttamente annunziato, potevano essere inviate, all’ufficio competente del vicariato di Roma, sia testimonianze a favore che testimonianze contrarie alla glorificazione di Karol Wojtyła, purché tutte fondate su dati obiettivi.
Valutando, in tutta scienza e coscienza, il pontificato di Giovanni Paolo II, un gruppo di cattolici (teologi, teologhe, storici), al quale mi sono unito, ritenne che le dichiarazioni pubbliche sul pontefice scomparso, e le iniziative suscitate per favorire la sua causa di beatificazione, fossero spesso caratterizzate da una valutazione superficiale e acritica del suo operato.
E perciò, nel rispetto – ovviamente – di altri e differenti pareri, lo stesso gruppo a dicembre 2005 pubblicò un appello, confermato e firmato anche da altri esattamente un anno dopo e quindi inviato al vicariato di Roma, nel quale metteva brevemente in luce quelli che, a parere dei sottoscrittori, erano dei pesanti limiti del pontificato. Limiti così grandi da ostare alla beatificazione.
Quell’appello si limitava a indicare alcuni punti critici del pontificato. I firmatari, comunque, confidavano, e confidano, che l’apposito Tribunale del vicariato approfondirà adeguatamente le piste segnalate per fare maggior chiarezza.
È naturale che un pontificato durato quasi 27 anni sia carico di eventi, variamente valutabili. Se, in quell’appello, erano sottolineati quelli, a giudizio dei firmatari, «negativi», non si presumeva certo, con questo, ignorare gli aspetti «positivi» del pontificato, e perciò, en passant, si ricordava in particolare l’impegno di Wojtyła contro la guerra.
Nello stesso spirito dell’appello, e lasciandolo sullo sfondo, in questa deposizione, e come testimonianza personale, vorrei precisare le ragioni delle mie fondate riserve alla beatificazione di papa Wojtyła, il che naturalmente non mi fa dimenticare gli aspetti a mio parere luminosi dell’azione del pontefice (ad esempio, già a suo tempo lo lodai con una lettera pubblica per il suo impegno contro la guerra in Iraq nel 2003).
Ho detto «papa Wojtyła»: la mia attenzione, dunque, è rivolta unicamente e solamente a come questa persona ha vissuto il suo pontificato, e in essa ha operato. Nulla io so, direttamente, della sua vita precedente in Polonia, e su di essa nessun giudizio posso esprimere. Parlo, dunque, del pontefice eletto il 16 ottobre 1978, e deceduto il 2 aprile 2005.
Sempre in rapporto alla beatificazione, questa, a mio parere, è la questione previa che si pone: è possibile, in un papa, distinguere la persona dal suo ruolo, le virtù private dalle decisioni pubbliche?
È bene evidente che su questa terra nessuno può giudicare la coscienza dell’altro; solo il Signore può farlo. Dunque, sotto questo aspetto, nulla io avrei da dire su Giovanni Paolo II. Se intervengo è perché mi domando se alcune sue scelte – così come valutabili dall’esterno – siano state una trasparente e cristallina testimonianza di quello spirito evangelico e di quelle virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) che debbono rifulgere in grado altissimo in un «candidato» alla gloria del Bernini.
Il caso Ior-Banco Ambrosiano
Sul pontificato di Giovanni Paolo II incombe un’ombra nera che, a mio parere, mostra come quel pontefice violò gravemente le virtù della prudenza e della fortezza: mi riferisco a come egli gestì la vicenda dell’Istituto per le opere di religione (Ior) in connessione con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è, questo, il luogo per esaminare in lungo e in largo la complessa vicenda; mi limito a rilevare che giudici italiani erano giunti alla conclusione che monsignor Paul Marcinkus, presidente dello Ior, aveva avuto gravissime responsabilità per il crack dell’Ambrosiano e, dunque, dalla Città del Vaticano doveva essere estradato in Italia per essere arrestato e interrogato. Del resto, questa era anche la possibilità, per lui, di dimostrare limpidamente la sua innocenza e l’infondatezza delle accuse addebitategli.
La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda, non fu quella di accertare se le accuse a Marcinkus fossero fondate, ma solamente quella di respingere, in quanto a suo parere contrastanti con i Patti lateranensi, le richieste della magistratura italiana, perché queste avrebbero interferito in un àmbito, e in uno Stato (Vaticano), in cui l’Italia non poteva entrare. In effetti, dopo una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, la stessa Corte di Cassazione nel luglio 1987 diede ragione alle tesi vaticane.
Senza entrare in questioni giuridiche, la domanda da porsi è la seguente: Giovanni Paolo II favorì l’accertamento della verità sul caso Ior? La risposta, mi pare, è negativa. Infatti, il papa decise, o lasciò che decidessero, di impedire, con pretesti giuridici, l’accertamento della verità. Infatti, ammesso e non concesso che i giudici italiani non avessero titolo a chiedere l’estradizione di Marcinkus, nessun processo pubblico si è tenuto nella Città del Vaticano per accertare i fatti. Wojtyła diede allora, e offre anche oggi, motivi fondatissimi per dubitare dell’innocenza di Marcinkus e, anche, della trasparenza della gestione economica della Santa Sede.
Pochi mesi dopo i fatti sopra citati (l’appello ai Patti lateranensi per evitare l’estradizione di monsignor Marcinkus), Wojtyła, il 26 novembre 1982, così affermava alla conclusione di una plenaria del Collegio cardinalizio che aveva discusso anche dello Ior: «Desidero poi ringraziarvi in modo particolare per l’attenzione che avete dato alla questione dell’Istituto per le opere di religione. Una riunione di 15 cardinali, com’è noto, ha previamente studiato la cosa prima che il Collegio cardinalizio si radunasse qui, in questi giorni.
Si tratta di questione delicata, complessa, che è stata soppesata in tutti i particolari: voi ne avete avuto un’esposizione adeguata, e avete potuto rendervene conto per quei suggerimenti che siano necessari. La Santa Sede è disposta a compiere ancora tutti i passi che siano richiesti per un’intesa da entrambe le parti perché sia posta in luce l’intera verità. Anche in questo, essa vuole solo servire la causa dell’amore».
Mai parole tanto impegnative (quelle che ho segnato in corsivo) sono state altrettanto contraddette: infatti, pubblicamente, nulla ha fatto Wojtyła per fare accertare la verità. È vero, ha poi riformato lo Ior e allontanato Marcinkus: ma la verità sui rapporti tra il prelato e Calvi, e il crack dell’Ambrosiano, non si è potuta sapere, da parte vaticana. E il fatto che la Santa Sede, pur dicendosi estranea al crack dell’Ambrosiano, abbia dato, a titolo di buona volontà, un sostanzioso contributo per aiutare chi da quel crack aveva subìto ingenti danni economici, non risolve affatto, ma rende più aspro, il problema di fondo.
Beatificare un papa che, su un tema tanto scottante, non ha fatto luce mi sembrerebbe assai grave. L’impressione – dall’esterno – che molti hanno è che, al dunque, Wojtyła abbia sacrificato l’accertamento della verità per non compromettere l’istituzione ecclesiastica che avrebbe subito danni rilevantissimi se il mondo intero avesse scoperto trame incredibili e imbrogli economici inimmaginabili. Per non parlare dello sbigottimento di milioni di semplici fedeli cattolici nel mondo intero.
Dal punto di vista religioso, a me pare che, nel caso citato, Wojtyła sia venuto meno, in modo obiettivamente gravissimo, alle virtù della prudenza e della fortezza: la prudenza che avrebbe dovuto imporgli, come capo della Chiesa cattolica romana, di salvaguardare il buon nome di tale Chiesa, e dunque di fare ogni cosa per accertare la verità; la fortezza che avrebbe dovuto spingerlo a opporsi alle prevedibili resistenze dell’apparato ecclesiastico della curia romana restìa a «scoprire gli altarini».
Quali che siano state le motivazioni soggettive per cui il papa agì come agì (motivazioni che io non so), il risultato pubblico di tale decisione è aver obiettivamente impedito l’accertamento della verità. Come persona il papa forse non ha fatto nulla di male o, soggettivamente, ha creduto di non farlo; ma come pontefice ha compiuto un gesto gravido di conseguenze.
La beatificazione di Pio IX
Quando, a fine 1999, fu annunciato che, di lì a pochi mesi (sarebbe effettivamente accaduto il 3 settembre del 2000), il papa avrebbe beatificato insieme Pio IX e Giovanni XXIII, da molte parti emersero fortissime perplessità. Perché? Non solo per l’«abbinamento» voluto da Wojtyła – dall’evidente significato di accontentare, da una parte, i «tradizionalisti», e, dall’altra, i «progressisti» – ma per due motivi ben precisi, legati alla pena di morte e alla vicenda di Edgardo Mortara.
Mastai Ferretti, come re dello Stato pontificio, aveva rifiutato la grazia a due patrioti, Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, che avevano compiuto un attentato, e che nel 1868, a Roma, erano stati messi a morte.
Protetto da Pio IX, l’inquisitore di Bologna nel 1858 aveva fatto rapire alla famiglia Mortara – un’illustre famiglia ebraica – il piccolo Edgardo in quanto nascostamente battezzato da una domestica. Perché il piccolo, ormai cristiano, fosse educato nella «vera religione», era inevitabile – secondo Pio IX – che esso fosse sottratto con la forza alla famiglia di origine: «I diritti del Padre celeste vengono prima di quelli del padre terreno», sostenne sempre il pontefice per giustificare la sua decisione.
Mi si chiederà che cosa c’entri tutto questo con Wojtyła. C’entra, invece. In questione non è infatti l’intima coscienza di Pio IX, che fece le sue scelte – nel suo contesto storico e culturale – ritenendo di fare il meglio possibile. In questione è il fatto che un «beato», molti anni o anche secoli dopo la sua morte, e dunque in un altro contesto storico, culturale ed ecclesiale, viene proposto a tutti i fedeli come esempio da imitare.
Ora, all’alba del Duemila, e quattro decenni dopo il Concilio Vaticano II, all’interno della Chiesa cattolica romana si era enormemente accresciuta la sensibilità (pastorale e teologica) su due temi: la pena di morte e il rapporto Chiesa/popolo d’Israele. Perciò, elevare agli onori degli altari un papa che aveva permesso esecuzioni capitali, e aveva fatto rapire un bambino ebreo battezzato era una provocazione impressionante. Infatti, la domanda non era, e non è, se Pio IX fosse in buona fede (lo diamo per accertato), ma quale significato assumesse oggi proclamare beato un papa che fece l’opposto di quanto oggi i buoni cattolici pensano.
Dopo i gesti coraggiosi (basti citare la sua visita alla grande sinagoga di Roma, del 1986, e al Muro del pianto di Gerusalemme, nel marzo del 2000) da lui compiuti verso il popolo ebraico, l’annunciata beatificazione di Pio IX appariva contraddittoria e incomprensibile.
In effetti, nei mesi precedenti l’annunciata beatificazione, personalmente ebbi modo di constatare l’amarezza e lo sconcerto della comunità ebraica romana per la decisione di Wojtyła. E analoghi furono i sentimenti in molti cattolici.
Non essendoci nessuna ragione cogente che obbligasse il papa a beatificare Pio IX, è necessario domandarsi perché egli così decise. La mia forte impressione è che, in realtà, Wojtyła volesse proclamare l’inattaccabilità e la supremazia del pontificato romano. E cioè: esaltare Pio IX, a prescindere dalle sue contraddizioni, era un passo necessario per esaltare l’istituzione ecclesiastica. A costo di smentire, indirettamente, il «nuovo corso» avviato dal Vaticano II.
Mi domando se, in questo caso, Wojtyła abbia osservato le virtù della prudenza e della temperanza (l’invito ad avere, nell’agire, il senso della misura).
I diritti umani violati
Il pontificato di Giovanni Paolo II è costellato di decisioni sue, o di organi ufficiali della Curia romana (in particolare della Congregazione per la dottrina della fede), che in sostanza hanno in vario modo punito la libertà di ricerca teologica: teologi, teologhe, studiosi non «in linea» sono stati allontanati dalle loro cattedre o è stato loro impedito di proseguire le ricerche. Non voglio qui fare il lungo elenco dei castigati: mi permetto di rinviare alla lista, non esaustiva, compilata dall’agenzia Adista (numero 76 del novembre 2003).
Nella maggior parte dei casi le procedure adottate da Roma per punire gli indiziati non soddisfano lo standard che nei paesi occidentali si esige perché un processo sia considerato giusto, e comunque i provvedimenti punitivi non hanno dato all’imputato il modo di difendersi adeguatamente.
Questa situazione è particolarmente stridente in un papa che è andato pellegrino in tutto il mondo a proclamare le esigenze della giustizia e l’intangibilità dei diritti umani.
Eppure, la ricerca della giustizia – nella Chiesa, anzitutto! – è, appunto, una delle virtù cardinali che dovrebbero rifulgere in un «beato». Tanto più se papa.
Aggiungo che, di norma, Wojtyła non volle mai ricevere pubblicamente in udienza i «dissenzienti» (ma, un «padre», non dovrebbe infine avere un dialogo a quattr’occhi con il figlio che, a suo parere, sbaglia?) o compiere verso di essi un gesto di amicizia. Un tale atteggiamento era il corollario inevitabile dell’intransigente «difesa della verità»? Non necessariamente; e a smentire Giovanni Paolo II è stato lo stesso suo successore che, pochi mesi dopo la sua elezione, ricevette in udienza Hans Küng.
Quale che sia stato l’intimo convincimento della persona Wojtyła, è un fatto che le scelte del papa Wojtyła hanno mostrato alla Chiesa un comportamento che indicava come «nemici» quanti e quante avessero opinioni teologiche diverse dalle sue.
D’altra parte, la storia della Chiesa e delle Chiese dimostra che condanne affrettate hanno soffocato idee che, con il passare del tempo, si sono invece rivelate più giuste di quelle ufficiali. Anche per questo, mi pare, Wojtyła è stato assai imprudente.
L’emergenza della questione femminile
Risolvere d’autorità i problemi acuti e aspri può, all’apparenza, sciogliere i nodi ma, in realtà, essi si aggrovigliano rendendo tutto più difficile. È quanto – a mio parere – è accaduto, sotto Wojtyła, con la «questione donna».
Le crescenti e diffuse richieste di piena partecipazione della donna alla vita della Chiesa sono state da Wojtyła soffocate. Senza entrare qui nelle problematiche teologiche dei ministeri femminili o della donna prete, si deve rilevare che il pontefice ha accuratamente evitato di permettere, in proposito, un ampio dibattito, ad esempio in un sinodo dei vescovi ad hoc o ascoltando pubblicamente un’ampia e variegata rappresentanza delle donne.
Ma è prudente un pastore che deliberatamente evita di ascoltare che cosa dice l’«altra metà del cielo»? Pur avendo esaltato più volte il «genio femminile», e avendo dedicato alla «dignità della donna» una lettera apostolica (la Mulieris dignitatem, del 1988), in realtà Wojtyła non ha ascoltato le richieste delle donne; le ha solo interpretate a modo suo per conservare lo status quo dell’istituzione ecclesiastica.
Avendo negato, a livello istituzionale, un reale dibattito sulla «questione donna», Wojtyła si è assunto la responsabilità di impedire che varie posizioni emergessero, si confrontassero, si arricchissero nel reciproco ascolto e nella comune ricerca della volontà di Dio.
La vicenda di Oscar Romero
È in atto il tentativo – così a me sembra, leggendo i più recenti libri su monsignor Oscar Romero scritti da persone «sensibili» ai desiderata della curia romana – di descrivere come idilliaci i rapporti tra l’arcivescovo di San Salvador e il papa. Credo che tale descrizione non corrisponda alla realtà, e che, al contrario, essa sottenda il forte desiderio di proporre, sulla vicenda, un Wojtyła «comprensivo» che non è esistito.
Varie testimonianze, tutte basate su affermazioni di monsignor Romero, concordano nel dire che il papa accolse con freddezza Romero quando (1979) a Roma lo ricevette in udienza. In proposito posso portare anche un’esperienza personale.
Nel febbraio 1989 ho incontrato a Managua una religiosa – suor Vigil – che lavorava presso il Centro ecumenico Valdivieso. Ella mi confermò di aver incontrato a Madrid monsignor Romero di ritorno da Roma (siamo sempre nella primavera del 1979) e di averlo trovato «costernato» per la freddezza con cui il papa, durante l’udienza, aveva valutato l’ampia documentazione, da lui stesso fatta pervenire in Vaticano, circa la violazione dei diritti umani e della vita di quanti si erano opposti, anche fra i suoi diretti collaboratori, all’oppressione esercitata dal governo salvadoregno sulla popolazione. Oscar Romero avrebbe ricevuto dal papa una secca esortazione ad andar «più d’accordo» con il governo. A commento di quell’udienza – mi riferì ancora suor Vigil – Romero disse alla religiosa: «Non mi sono mai sentito così solo come a Roma».
Il «clima» di quella famosa udienza non appare nella sua drammaticità dal diario di Romero, che di essa pure fa cenno. Ma trarre da tale silenzio prova per smentire la successiva, e ben più realistica, «confessione» dell’arcivescovo, mi sembrerebbe un’operazione apologetica per salvare Wojtyła.
È evidente, infatti, che nella difficilissima situazione in cui si trovava, Romero «non poteva» condannarsi da solo, dicendo che il papa lo aveva rimproverato di «fare politica». Tanto meno poteva dirlo dal pulpito della cattedrale del Salvador. E, tuttavia, perché la verità si sapesse, e quasi a futura memoria, agli amici più intimi raccontò quanto disse anche a suor Vigil.
Al di là della vicenda dell’udienza, è un fatto che Wojtyła non fece gesti pubblici e inequivocabili per mostrare di essere dalla parte di Romero, e di sostenerlo. Del resto, se avesse voluto dire al mondo, con un gesto riconoscibile anche dai più umili, di essere dalla parte di Romero, Wojtyła lo avrebbe pur potuto creare cardinale nel suo primo concistoro (giugno 1979). Il che non fece.
Del resto, in oltre 26 anni di pontificato – e, cioè, sia prima che dopo la caduta del Muro di Berlino – Wojtyła ha mostrato, mi pare, un’incapacità radicale di cogliere la sensibilità di quei milioni di persone che vedevano in Romero un martire della giustizia, e la fondatezza pastorale ed evangelica di quei cristiani – religiose, preti, vescovi, laici, uomini e donne – che si ispiravano alla Teologia della liberazione. Una teologia con la quale, agli inizi, lo stesso Romero riteneva di non essere in sintonia, e della quale poi finì per incarnare in modo esemplare lo spirito.
Nessun vescovo dell’America Latina apertamente schierato con la Teologia della liberazione è stato creato cardinale da Wojtyła: non che essi cercassero tale onore, ma, nell’attuale sistema ecclesiastico, sarebbe pur stato importante che il papa mostrasse apertamente la sua stima dando all’uno o all’altro la porpora. Non solo: ma Wojtyła ha portato nella curia romana prelati latinoamericani apertamente ostili a Romero, accaniti avversari della Teologia della liberazione e, anche, talora, non troppo coperti amici di dittatori.
Se, in tutte queste vicende, Wojtyła si sia segnalato per la virtù della prudenza è tema che, ritengo, meriti approfondita riflessione. Molti dubbi, comunque, sono leciti. In particolare, non vi sono segni che egli si sia chinato per cercare di capire una «pastorale» e una «teologia» diversissime dalle sue.
Il concubinato del clero
Non intendo esaminare tutta l’ampia problematica del celibato sacerdotale, cioè l’insieme delle ragioni storiche, bibliche, ecclesiali che oggi ne consigliano, o meno, il mantenimento nella Chiesa latina. Voglio solo affrontare uno spicchio di tale realtà: il concubinato del clero. Con ciò non intendo affatto dire che tutto il clero sia oggi concubinario: assolutamente no! Tutti conosciamo preti lieti e fedeli al loro celibato, e carichi di umanità. Ma certo, per una parte, sia pure limitata, del clero, il problema esiste.
Ricordo un episodio: quando, come «padre» conciliare, ero al Vaticano II, avevo come vicino di banco un vescovo dell’America Latina. Questi rimase molto male quando Paolo VI avocò a sé la questione della legge del celibato nella Chiesa latina, impedendo dunque al Concilio di discuterne liberamente. In tale situazione, mi disse: «Caro padre abate, e adesso come faccio, dato che nella mia diocesi tutti i preti sono concubinari? Ero venuto in Concilio proprio per favorire l’abolizione della legge del celibato!».
Già incombente ai tempi di Paolo VI, la questione del celibato si è fatta ancor più grave sotto Giovanni Paolo II. A questo papa imputo come scelta assai temeraria quella di avere impedito, in proposito, un reale dibattito ai vari livelli della Chiesa.
Wojtyła ha talmente insistito sulla «saldatura» tra ministero presbiterale e celibato da rendere di serie B i sacerdoti delle Chiese cattoliche orientali, spesso sposati. Ma, soprattutto, la sua esasperata difesa della legge in atto ha dimenticato un particolare decisivo, che un pastore saggio in nessun modo potrebbe ignorare: il problema dei figli dei preti, e delle donne dei preti.
Obbligando i preti latini che, in relazioni clandestine, avessero avuto dei figli, ad assumersi apertamente le loro responsabilità, e dunque a sposarsi per essere – coram populo – padri amorosi dei loro figli, e sposi affettuosi di donne non più tenute nascoste, si compirebbe un gesto di giustizia. Ribadendo invece la legge del celibato, di fatto si esimono questi presbiteri dall’assumersi le loro responsabilità, e si permette loro di continuare a trattare le madri dei loro figli come persone senza diritti.
Sono migliaia e migliaia, nel mondo – dalla Germania, al Brasile al Congo – i figli dei preti che non hanno diritto di avere una normale famiglia, essendo il loro padre «inesistente». Una tale situazione lede molti diritti umani, e fa stringere il cuore. È impressionante che Wojtyła non abbia mai voluto affrontare pubblicamente questo «tabù», preferendo le certezze dell’istituzione alle dolorose conseguenze derivanti dall’addentrarsi con realismo nelle problematiche concrete della vita, spesso assai complicate.
Tema differente, ma sempre legato al clero, è quello delle violenze sessuali di preti contro minori. La sgradevole impressione che si ha, in proposito, è che Wojtyła abbia affrontato questa piaga tremenda solo quando essa esplose negli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni Novanta.
Le dimissioni dal pontificato
Una delle conseguenze più corpose, perché più incidenti nella realtà, del Vaticano II è stata la norma, infine stabilita dal nuovo Codice di diritto canonico, che chiede ai vescovi che compiono 75 anni di presentare le loro dimissioni al papa, che valuterà caso per caso.
Non so se si sia riflettuto sino in fondo sulla «teologia» che sottostà a tale norma: una volta, infatti, si diceva che il vescovo è lo «sposo» della sua Chiesa, cioè della sua diocesi, e perciò l’ama fino alla fine, cioè – in linea di principio – ne resta titolare fino alla morte. Perché mai, infatti, uno sposo non sarebbe più tale quando è avanti con gli anni?
Ad ogni modo, ammesso il principio non solo della legittimità, ma anche dell’opportunità delle dimissioni dei vescovi diocesani a 75 anni, non si comprende perché a tale normativa si sottragga il vescovo di Roma. Anche se non giuridicamente, ma di sicuro moralmente, egli dovrebbe essere il primo ad applicare una tale legge. Perché è il re il primo servo delle leggi di tutti.
Invece, quando Wojtyła compì i 75 anni, e ancor più quando, più tardi, andò aggravandosi in modo irreversibile la sua malattia, impedendogli un reale controllo della curia romana, a chi direttamente o indirettamente gli suggeriva di rassegnare le dimissioni, egli rispondeva che «Cristo non si dimise dalla croce».
Vi è una contraddizione teologica grande nel ragionamento di Wojtyła: perché mai sarebbe normale che, a 75 anni, un vescovo (che magari sta ancora bene in salute) si dimetta dalla sua diocesi, e sarebbe inaudito invece che nella stessa situazione si dimettesse il vescovo di Roma?
A me pare che da tale ragionamento emerga un substrato che considera il papa un «super vescovo»: ma questo è del tutto contrario alla Lumen gentium. La mistica della sofferenza connessa con il papa che, in quanto tale, «non può» dimettersi senza tradire il Cristo sofferente, confligge con la decisione giuridica e pastorale adombrata dal Vaticano II che chiede al vescovo «normale» di… discendere dalla croce e lasciare in altre mani la diocesi.
A parte una tale questione di fondo, vi è poi un problema concreto: è stato prudente, Wojtyła, a voler rimanere in carica quando era evidente da tanti mesi la sua impossibilità di governare? Non ha forse, così facendo, favorito maneggi che permettevano all’una o all’altra «cordata» curiale di far prevalere la propria linea, e dunque imporre scelte, nomine, decisioni, tutte formalmente del pontefice, ma in effetti tutte forse non sue?
Se la «resistenza» di Wojtyła fino alla fine è, per alcuni, un segno di particolare fedeltà al proprio dovere, a me suscita invece molta perplessità, e mi induce appunto a domandarmi dove, in tale dolorosa vicenda, lui abbia dimostrato in modo forte le virtù dell’umiltà e della prudenza.
Lasciamo Wojtyła nella sua complessità
Esaminando i pochi fatti elencati appare evidente come sia difficile, per non dire impossibile, distinguere tra le scelte dell’uomo Wojtyła e di Wojtyła papa. Ora, è vero che, qualora lo si proclamasse «beato», si preciserebbe che ciò avverrebbe per aver accertato che egli visse le virtù in modo eroico, ma non si intenderebbe con questo «santificare» tutte le sue scelte come pontefice.
In teoria, la distinzione corre; e infatti – per rispondere in qualche modo alle critiche per sua incredibile decisione – la propose lo stesso Wojtyła nel discorso in cui spiegò perché beatificava Pio IX. Nei fatti, però, essa è zoppa, come dimostrò appunto la vicenda di Pio IX.
Immagino bene che la «macchina» del processo per la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II procederà inarrestabilmente verso il traguardo atteso. Per parte mia, ritenevo mio dovere elencare i gravi dubbi che ho via via sollevato. Ho detto in altra sede, e ci tengo qui a ribadirlo, che le mie riflessioni non derivano da alcun interesse personale, o da alcun fazioso pregiudizio, ma solo da un’onesta valutazione di fatti e circostanze che, secondo la mia scienza e coscienza, non si dovrebbero sottacere.
Sono consapevole di essere solo una piccola voce, e naturalmente rispetto le molte voci di altro tono. Ho parlato, e parlo, per amore della nostra Chiesa romana. Mi rendo conto che, in un clima prevalentemente apologetico rispetto a Wojtyła, alcune mie affermazioni sembreranno quasi inaudite. Eppure, molte persone, soprattutto (ma non solo) in America Latina, si ritroverebbero in esse.
Non ho potuto e voluto fare un’analisi esaustiva del pontificato di Wojtyła, delle sue (secondo me) luci e delle sue (secondo me) ombre. Ad altri l’arduo compito! Ma, ritengo, le pur poche cose dette potrebbero dare un aiuto per evitare sia critiche aprioristiche che applausi scontati al pontificato wojtyliano.
Se potessi esprimere un sogno, sarebbe questo: che Wojtyła sia lasciato al giudizio della storia, abbandonando dunque l’idea di elevarlo agli onori degli altari. Sono infatti così complesse, e contraddittorie, le scelte del suo pontificato, che è difficile separare luci e ombre, le personali convinzioni dell’uomo Wojtyła, la sua pietà privata, dalle sue decisioni pubbliche.
Credo che, lasciare Wojtyła nella sua complessità, e come tale affidarlo alla storia, oltre che alla memoria della Chiesa, sarebbe la scelta migliore per onorarlo nella sua sfaccettata verità. L’insistenza e l’ansia con cui molti ambienti lavorano per la beatificazione di Wojtyła a me pare un atteggiamento che poco sa di evangelico, e molto di voglia di esaltare il pontificato romano come istituzione.
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* Giovanni Battista Franzoni, più noto come dom Franzoni, è un teologo e scrittore italiano. Nato a Varna (Bulgaria) nel 1928, dove i genitori si erano stabiliti per motivi di lavoro, tornò in Italia e trascorse la propria adolescenza a Firenze. Franzoni venne poi ammesso all’Almo collegio Capranica di Roma e iniziò la formazione al sacerdozio, nell’ordine benedettino, compiendo gli studi teologici presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Fu ordinato sacerdote nel 1955 e prese ad insegnare storia e filosofia nel collegio dell’abbazia benedettina di Farfa. Nel marzo 1964 fu eletto abate dell’abbazia di San Paolo fuori le mura a Roma e, in tale veste, partecipò alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II, risultando il più giovane tra i padri conciliari. In quegli anni, avviò l’esperienza della comunità cristiana di base di San Paolo, in cui si coniugava l’ascolto del Vangelo con la lettura delle situazioni politiche ed ecclesiali e la presa di posizione in senso progressista e marxista. Alcune di queste scelte, come l’opposizione al concordato tra Stato e Chiesa, la condanna verso la guerra in Vietnam e la solidarietà con le lotte operaie del’autunno caldo, gli procurarono la contrarietà della Santa Sede che lo invitò a dimettersi dalla carica di abate, il 12 luglio 1973, pochi giorni dopo aver pubblicato la lettera pastorale La terra è di Dio. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’aperta critica, espressa da alcuni membri della comunità cristiana di base, verso le operazioni finanziarie compiute dallo IOR che, nella primavera del 1973, avevano ricevuto la ferma deplorazione del sistema bancario internazionale. Nel 1974, prese apertamente posizione per la libertà di voto dei cattolici al referendum sul divorzio, definendolo «un bisturi necessario» e sottolineando che il matrimonio non poteva essere un sacramento per i non cattolici.Seguirono forti critiche dalle gerarchie ecclesiastiche, non meno che dagli esponenti politici della Democrazia Cristiana e la mediazione di Mario Agnes, presidente dell’Azione cattolica, oltre al sostegno espresso da David Maria Turoldo, Ernesto Balducci e Carlo Carretto, non bastarono ad evitare la sospensione “a divinis” di dom Franzoni. Nel 1976, dopo il suo dichiarato appoggio al PCI durante la campagna elettorale, fu dimesso dallo stato clericale. Continua, da allora, la sua attività di animatore della comunità di San Paolo e nella partecipazione al coordinamento nazionale delle comunità cristiane di base, cui affianca una feconda attività di riflessione in campo ecumenico e solidale, anche collaborando con la rivista “Confronti”. È uno dei protagonisti del dialogo dei cristiani con il mondo marxista e con i movimenti di liberazione in America Latina ed è impegnato nel movimento per la pace. (da Wikipedia)