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Il cosmo e l’evoluzione sono tutto un Dharma

 Risposta a Telmo Pievani

di Vito Mancuso

MicroMega 1/2014 – Almanacco della scienza


1. Posta in gioco e stile

“È questo il modo corretto di trattare il pensiero di uno scienziato?”, si chiede Telmo Pievani a proposito di una mia citazione del biologo teorico americano Stuart Kauffman nel suo articolo Con buona pace dei teologi (‘eretici’ e non), in “MicroMega. Almanacco della Scienza” 1/2014, p. 22, d’ora in poi citato con la sigla MM. Ovviamente si tratta di una domanda retorica perché per lui la risposta è un evidente no, in quanto io avrei surrettiziamente estrapolato dal contesto l’affermazione dello scienziato per utilizzarla in modo improprio…

Su ciò ovviamente ritornerò mostrando la correttezza della mia citazione, ma prima vorrei dire che le pagine di Pievani dedicate al mio pensiero (accostato a quello di Fiorenzo Facchini, già ordinario di Antropologia presso l’Università di Bologna e sacerdote cattolico, il quale vedrà lui se e come replicare) sono guidate da pesanti ipoteche ideologiche che alterano la lettura dei miei libri e ne distorcono lo sguardo così da giungere ad attribuirmi quanto nel mio pensiero non c’è e a non cogliere quanto invece davvero vi è, cioè una filosofia della natura per la quale la vita e l’intelligenza non sono un caso ma il risultato di una logica naturale tendente alla progressiva armonia relazionale (che poi si può chiamare Dio, Logos, Dharma, Tao, Natura naturans, o semplicemente natura). Specifico in questa prospettiva che non si tratta di una disputa tra credenti e non-credenti, perché la posta in gioco è la natura, non Dio, e non a caso tra chi sostiene la mia stessa visione della natura vi sono non credenti, come alcuni degli scienziati e dei filosofi citati nei miei libri (tra cui qui desidero ricordare Duccio Demetrio e il suo La religiosità della terra. Una fede civile per la cura del mondo, Cortina 2013, dove a p. 106 si legge: “i non credenti non fanno parte di un’unica corporazione”). La questione è illustrata bene dall’astrofisico britannico Paul Davies, a sua volta oscillante in fatto di fede, che parla di “due visioni del mondo diametralmente opposte” e specifica: “Da una parte c’è la scienza ortodossa, con la sua filosofia nichilista di un universo senza senso, di leggi impersonali ignare di qualunque scopo, di un cosmo in cui la vita e l’intelligenza, la scienza e l’arte, la speranza e la paura sono solo i fortuiti e accessori abbellimenti di un affresco dell’irreversibile corruzione cosmica. Dall’altra c’è una visione alternativa, romantica, ma non per questo irrealistica, la visione di un universo autorganizzato che accresce la propria complessità, governato da leggi ingegnose che spingono la materia a evolversi verso la vita e la coscienza, un universo in cui l’emergere di esseri pensanti è parte integrante e fondamentale dell’ordine complessivo delle cose; un universo nel quale non siamo soli” (Da dove viene la vita, Mondadori 2000, p. 308). 

Chiarita la posta in gioco, mi soffermo sullo stile con cui il mio critico ha condotto le sue argomentazioni presentando a mia volta la domanda retorica: è questo il modo corretto di trattare il pensiero, non dico solo il mio, ma di chiunque? Che non lo sia, lo dimostrano anzitutto l’arroganza e l’aggressività del suo procedere, poco consone all’importanza dei temi trattati. È vero d’altro lato che ognuno nello stile esprime se stesso (le style c’est l’homme, diceva il Conte di Buffon, uno dei precursori della teoria dell’evoluzione) e a me capita spesso di doverlo constatare nei frequenti attacchi che ricevo ora da credenti doc, ora da atei altrettanto doc, entrambi scandalizzati nella loro ortodossia dogmatica dalle mie tesi. Devo dire però che non mi aspettavo un tale atteggiamento in chi fa professione di filosofia e con cui ho avuto cordiali dibattiti pubblici, uno dei quali telefonico su Darwin registrato e trascritto dalla redazione di MicroMega (in “Almanacco di scienze” 2009, pp. 41-60), anche perché gli altri numerosi dibattiti da me sostenuti in questi anni con scienziati e filosofi della scienza, tra cui ricordo quelli con Edoardo Boncinelli, Orlando Franceschelli, Giulio Giorello, Margherita Hack, Piergiorgio Odifreddi, a cui affianco i libri-disputa con Corrado Augias e Paolo Flores d’Arcais, hanno avuto sì momenti di duro contrasto ma mai hanno fatto venir meno la stima della persona. Il mio critico invece mi attribuisce una vera e propria disonestà intellettuale accusandomi di “stravolgere le conoscenze empiriche per fini propri” (MM, p. 4), di “travisamenti intenzionali e truffaldini di chi specula sulle notizie scientifiche per assecondare un proprio convincimento ideologico” (MM, p. 10), di “mal assortite citazioni «scientifiche» compiacenti” (MM, p. 11), di “inquinamento sistematico del dibattito filosofico sulla scienza” (MM, p. 12), di “citazioni estrapolate e pronte all’uso” (MM, p. 18) e cose di questo genere. In questa replica, che devo ai lettori dei miei libri e agli studenti dei miei corsi, affronterò dapprima il nocciolo teoretico della questione, cioè il rapporto tra scienza e pensiero filosofico-teologico, e poi mi occuperò nel dettaglio delle accuse che mi vengono mosse con tanta veemenza.

2. Il nocciolo della questione (un discorso sul metodo)

Intendendo “smontare pezzo per pezzo” (come si legge nel sommario redazionale di MicroMega) le mie argomentazioni, Pievani ripete per sette volte una sorta di ritornello che qui riporto nella prima occorrenza: “Citare Conway Morris in quanto scienziato, per queste idee, è un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone” (MM, p. 20). Dopo il paleontologo Simon Conway Morris, il ritornello si ripete per la biologa Lynn Margulis, il già ricordato Stuart Kauffman, il fisico Fritjof Capra, il genetista Francis Collins, il biologo Christian de Duve e infine, raccolti insieme, l’astrofisico Paul Davies e i matematici John Barrow e Freeman Dyson. Per tutti vale che citarli “in quanto scienziati” per affermare idee filosofiche è “un non sequitur, una fallacia logica, uno sfondone” (MM, pp. 20-24). Tutti costoro, a cui andrebbero aggiunti altri nomi come farò più avanti, sono accomunati dal mostrarsi insoddisfatti della visione dominante che nega ogni logica all’origine della vita e ipotizzano che la vita sia un fenomeno cosmico fondamentale, destinato a manifestarsi ovunque le condizioni lo permettano. Vi sarebbe cioè una Fitness of the Cosmos for Life, secondo il titolo di un simposio presso l’Università di Harvard del 2003 i cui maggiori contributi sono raccolti nel volume Fitness of the Cosmos for Life: Biochemistry and Fine-Tuning, Cambridge University Press 200

Ebbene a proposito di questi scienziati Pievani stabilisce che in quanto scienziati essi non possono essere citati a sostegno di una filosofia secondo cui la vita e l’intelligenza, ben lungi dall’essere ridotte a colpo di fortuna chimico, emergono da un universo che mostra strutturale idoneità (fitness) alla loro comparsa. Perché non lo possono? Se non ci si basa sui dati offerti dagli scienziati, su quale base bisognerebbe costruire una filosofia della natura? E lui, Pievani, non fa proprio così nelle sue opere appoggiandosi ai suoi scienziati di riferimento? Ma più grave è che egli non vede che io non cito gli scienziati sopra elencati in quanto scienziati, visto che non ne discuto il valore scientifico valutandolo superiore rispetto a quello di altri scienziati più allineati con la visione della natura dominante. Più semplicemente io mi riferisco ai testi saggistici nei quali essi, partendo dalle loro competenze scientifiche, giungono in quanto esseri umani a una filosofia della natura consonante con la mia, e molto diversa rispetto a quella secondo cui la vita e l’intelligenza sono frutto del caso.Pievani ripete per sette volte che tra i lavori scientifici degli scienziati a cui mi riferisco e la filosofia della natura presente nelle loro opere non c’è alcun nesso e che volerlo stabilire comporta una fallacia logica. Non si rende conto però che ciò che per lui non sequitur, per questi scienziati, invece, sequitur. È evidente infatti che la loro filosofia della natura ha strettamente a che fare con le loro ricerche scientifiche: se per esempio Francis Collins è giunto a parlare di un “linguaggio di Dio” nella natura è perché ha lavorato per decenni sul genoma. È altrettanto chiaro ovviamente che le affermazioni di Collins non sono una deduzione necessaria, perché da quei dati sul genoma non scaturisce necessariamente la medesima convinzione, come dimostra il fatto che Craig Venter, il rivale-collega di Francis Collins, ha lavorato altrettanto a lungo sul genoma senza vedervi la minima traccia di un linguaggio divino e come del resto afferma lo stesso Collins a proposito della sua teoria denominata Bio-Logos scrivendo che “a differenza del disegno intelligente, il Bio-Logos non si presenta come una teoria scientifica” (Il linguaggio di Dio, Sperling & Kupfer, p. 209). Il che significa: tra i dati scientifici e la filosofia vi è sì un rapporto (altrimenti su che cosa si dovrebbe basare la filosofia?) ma non tale da essere necessitante. Sto sostenendo cioè che tra i dati scientifici e la visione filosofica che se ne può ricavare vi è un’indubbia relazione, ma altresì che tale relazione non è all’insegna della necessità, bensì, com’è consueto per ogni ragionamento autenticamente filosofico, all’insegna della libertà. Così avviene che i dati sul genoma sono identici per entrambi, ma Collins sostiene che parlano “il linguaggio di Dio”, Venter no; che i dati biologici sulle basi della vita sono identici per entrambi, ma de Duve sostiene che essa era già contenuta nella materia originaria che chiama “polvere vitale”, Monod no; che i dati sull’origine e l’espansione dell’Universo sono identici per tutti, ma alcuni fisici postulano il cosiddetto principio antropico e altri no, e così via su ogni ambito di interesse vitale. 

Appare evidente come vi sia una specie di spazio vuoto tra la necessità oggettiva dei dati scientifici e la loro interpretazione in quanto generatrice di significato. Tale spazio fa sì che per alcuni scienziati tra i dati e il significato non vi sia nessun nesso e che per altri invece un nesso vi sia e vi si possa costruire una filosofia della natura dotata di significato, bioamichevole e orientata all’armonia relazionale. Tale spazio vuoto che porta alcuni a dire non sequitur e altri a dire sequitur è lo spazio della filosofia, cioè del pensare libero e non necessitato che conduce ad avere una propriaWeltanschauung o visione del mondo. La filosofia infatti è nata proprio a causa della libertà della mente rispetto al positum, e precisamente per questa sua indeterminazione costitutiva essa è sempre plurale e si presenta come una congerie di diversi sistemi in competizione tra loro, con il risultato che, a differenza della scienza il cui cammino è sostanzialmente unitario e progressivo, la filosofia procede in modo frammentario senza essere in grado di accumulare sapere consolidato in molte questioni fondamentali. Pievani però non si rende conto di tutto ciò e scambia per una fallacia logica il proprium della filosofia, il che, per uno studioso il cui primo titolo è quello di filosofo, è grave.

In realtà questa sua incapacità di riconoscere l’essenza della filosofia rivela il sogno dei dogmatici di ogni tempo, sia di quelli che usano la scienza per dimostrare Dio, sia di quelli che la usano per dimostrare l’ateismo, nel desiderio di far discendere dalla necessità dei dati (scientifici o biblici) un’unica necessitante visione del mondo in odio al pluralismo e alla libertà. E come in ambito ecclesiastico viene coltivata l’idea della filosofia come ancilla theologiae e poi della teologia come ancilla ecclesiae, allo stesso modo Pievani esprime una visione della filosofia come ancilla scientiae, di una serva cioè del tutto appiattita sul positum scientifico. 

Per fortuna però tale ideale positivistico orientato a un oppressivo pensiero unico non è realizzabile e a dimostrarlo sono gli “eretici”, cioè i liberi pensatori che a partire dai medesimi dati offrono interpretazioni diverse rispetto alla visione dominante. In ambito scientifico gli scienziati “eretici” da me citati si oppongono alla prevalente filosofia della natura che avversa ogni discorso di senso e di finalità, scrivendo per esempio come Christian de Duve: “Io considero questo Universo non come uno scherzo cosmico, bensì come un’entità dotata di significato, fatta in modo tale da generare la vita e la mente, destinata a dare origine a esseri pensanti in grado di discernere la verità, di apprendere la bellezza, di sentire amore, di desiderare il bene, definire il male, sperimentare il mistero” (Polvere vitale, Longanesi 1998, p. 490). Tra gli scienziati che condividono questa visione e che ricordo nei miei libri ho citato ora de Duve perché era un non credente a dimostrazione di quanto già detto, cioè che qui non è in gioco la fede in Dio ma l’interpretazione filosofica della natura (ho esplicitato tutto ciò in Il principio passione, Garzanti 2013, pp. 147-149). 

So bene che per altri scienziati l’universo non è dotato di nessun significato, ma questo significa solo che dalla conoscenza scientifica non discende un’unica e necessitante visione del mondo, come invece vorrebbero gli ideologi dello scientismo ateo che ambiscono ad accreditare come razionale la negazione del senso e come irrazionale l’affermazione di un senso complessivo del mondo a cui legare (proprio nel senso etimologico di religio) la vita. E proprio perché dalla scienza non discende un’unica visione del mondo, Wittgenstein ha scritto: “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati” (Tractatus logico-philosophicus6.52). 

Questa non completa sovrapponibilità tra conoscenze scientifiche e problemi vitali è illustrata al meglio nella Critica della ragion pura di Kant, dove si sostiene che è l’antinomia il destino a cui è inevitabilmente consegnata la ragione che riflette sui dati forniti dall’intelletto in modo teoreticamente puro e senza ideologie precostituite. L’intelletto offre dati, la ragione li elabora (nella dialettica tra sequitur e non sequitur), ma la sua elaborazione non sarà mai tale da produrre un sistema incontrovertibile, perché vi saranno sempre motivi per sostenere la tesi del senso e motivi per sostenere l’antitesi del non-senso. Ma come ho già detto, se non vi fosse questo spazio libero garantito dall’antinomia, vi sarebbe la morte della libertà e della filosofia che ne è la manifestazione. 

Di queste cose però Pievani non sembra avere la minima idea. Egli infatti scrive che “è del tutto plausibile che a volte sia lo stesso scienziato a offrire interpretazioni filosofiche improprie, infondate e incoerenti dei risultati sperimentali suoi o di altri colleghi” (MM, p. 11), e non si rende conto che a stabilire l’infondatezza e l’incoerenza delle interpretazioni filosofiche proposte sarà necessariamente un altro scienziato che cessa di essere tale e inizia a filosofare, e che in questo “conflitto delle interpretazioni” (per citare Paul Ricoeur) sta l’essenza di ciò che chiamiamo filosofia e che esprime la nostra libertà.

3. Intorno a Stuart Kauffman

Dopo aver trattato la questione centrale (su cui alla fine ritornerò), affronto ora alcuni problemi particolari iniziando dalla citazione di Stuart Kauffman che vengo accusato di estrapolare e di inserire in altro contesto assegnandole un senso molto diverso, quindi sostanzialmente di disonestà intellettuale, di “travisamenti intenzionali e truffaldini” (MM, p. 10). Presenterò prima il contesto del mio scritto in cui ho inserito la citazione, poi il contesto dello scritto di Kauffman da cui l’ho estratta, e infine verificherò la coerenza tra i due. La frase di Kauffman da me citata è la seguente: “La mente immateriale – non reale oggettivamente – ha conseguenze sul mondo fisico reale” (Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, Codice 2010, p. 205). Il contesto in cui la inserisco è il paragrafo sull’energia del mio libro Il principio passione in cui affermo che, oltre alle forme note, vi è un tipo di energia che procede dal pensiero e che influenza la materia del corpo perché la può guarire o ammalare o non farle avvertire il freddo o il caldo, un tipo di energia che si può definire spirituale e che è conosciuta soprattutto dalle religioni di origine orientale (è detta prāna o kundalinī o śakti in India, qi in Cina, kiin Giappone) e di cui si ha evidenza nella pratica dell’agopuntura sempre più diffusa anche in occidente. In quel paragrafo ricordo poi due fisici, Erwin Schrödinger secondo cui “la teoria fisica nel suo stato presente suggerisce energicamente l’idea dell’indistruttibilità dello Spirito per opera del Tempo”, e David Bohm che ha parlato di “azione di un’energia che non è meccanica, un’energia che noi chiameremo intelligenza” (per i riferimenti vedi Il principio passione, p. 187). E a questo punto colloco la citazione di Kauffman che ipotizza l’esistenza di una forma di energia diversa rispetto alle forme note in quanto procede da una sorgente “immateriale”. 

Passando ora ad analizzare il contesto del libro di Kauffman, il capitolo da cui traggo la frase sostiene l’ipotesi del “cervello quantistico”, ovvero del fatto che la mente umana non coincide del tutto con il cervello biologico in quanto lavora anche sulla base di un’energia non meccanica. Si tratta di un’ipotesi in controtendenza rispetto alla visione dominante in neurobiologia che conosce solo l’energia di tipo meccanico proveniente dalle reazioni chimiche e per la quale è concepibile solo un’azione della materia sulla mente, e non viceversa un’azione della mente in quanto puro pensiero sulla materia. L’assunto della visione dominante è infatti il riduzionismo, ovvero l’idea che “tutte le frecce esplicative puntano verso il basso”, come afferma Weinberg citato da Kauffman, ma l’intenzione fondamentale del libro di Kauffman è esattamente di opporsi a questa prospettiva mostrando che “a dispetto di Weinberg esistono frecce esplicative che non puntano verso il basso” (Reinventare il sacro, p. xviii). Il che porta Kauffman a sostenere la tesi, proprio al centro del capitolo da cui ho tratto la citazione, che “la mente immateriale ha conseguenze sulla materia” (ib., p. 217). Ora io domando: quale tipo di energia sarà in gioco nell’azione che dalla mente immateriale procede verso la materia? La risposta è che si tratta esattamente dell’energia non convenzionale o spirituale di cui parlo nel paragrafo del mio libro dove inserisco la citazione di Kauffman, la quale, a questo punto, appare tutt’altro che un’estrapolazione indebita, ma esattamente quello che è nella sua veridicità, cioè l’intuizione di un uomo a cui l’esperienza ha mostrato l’esistenza di dimensioni dell’essere non riducibili alle forme di energia conosciute, su cui poi egli, da scienziato, formula delle ipotesi esplicative, in questo caso riferendosi alla meccanica quantistica. 

Penso così di aver mostrato la correttezza del modo in cui mi sono avvalso della frase di Kauffman, che non viene per nulla stravolta nel suo senso originario che era esattamente quello di una discussione su forme di energia diverse rispetto a quelle conosciute. È invece imbarazzante la supponenza di Pievani che prima definisce “personalissima e zoppicante” la concezione della vita del biologo americano, poi arriva a deplorare che “l’uso dell’aggettivo immateriale per indicare la sua mente quantistica è alquanto discutibile”, infine giudica che “la terminologia è confusa” (MM, p. 22), non facendo che mostrare che in realtà la vera confusione è la sua incapacità di cogliere che la posta in gioco nel libro di Kauffman è l’ipotesi di un livello di energia non materiale, al fine di affermare che “viviamo in un universo molto differente da quello dipinto dal solo riduzionismo” (Reinventare il sacro, p. 47) e quindi “reinventare il sacro”. 

4. Prove mancanti

Se si muovono accuse pesanti come “travisamenti intenzionali e truffaldini” (MM, p. 10), la deontologia scientifica impone di essere rigorosi e documentare le proprie accuse. La documentazione esibita da Pievani però consiste solo nella citazione di Kauffman, da me appena mostrata come del tutto coerente. Dove sono le altre prove di “mal assortite citazioni «scientifiche» compiacenti” (MM, p. 11)? Il mio critico documenta le proprie affermazioni solo in un caso, sbagliando. Che cosa occorre concludere? Che se proprio si vuole parlare di “travisamenti intenzionali e truffaldini” a metterli in atto non sono io. 

5. A proposito di Darwin

A proposito di una mia affermazione su Darwin il mio critico scrive che “attribuirgli una visione di incremento dell’informazione e della complessità dal basso è fuorviante” (MM., p. 19, che rimanda a Paolo Flores D’Arcais – Vito Mancuso, Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia, Garzanti 2013, p. 32). Per documentare in base a che cosa sono giunto ad attribuire a Darwin quella visione, ecco quanto si legge in un passo particolarmente importante quale l’ultima pagina della sesta edizione dell’Origine delle specie del 1872: “Possiamo dunque guardare con qualche fiducia verso un sicuro avvenire di grande durata. E poiché la selezione naturale lavora esclusivamente mediante il bene e per il bene di ciascun essere, tutte le qualità del corpo e della mente tenderanno a progredire verso la perfezione”. Poco dopo Darwin prosegue: “Così, dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte, direttamente deriva il più alto risultato che si possa concepire, cioè la produzione degli animali superiori. Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secondo l’immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi” (L’origine delle specie, Bollati Boringhieri 2011, p. 552). Alla luce di queste parole, non estrapolate da qualche lettera occasionale ma poste da Darwin nell’ultima pagina dell’ultima edizione da lui curata in vita del suo capolavoro, quindi in un luogo difficilmente più significativo, è davvero fuorviante attribuirgli una visione di incremento dell’informazione e della complessità? O non è piuttosto fuorviante il contrario? In un altro passo decisivo dell’Origine delle specie, nel capitolo quarto dedicato alla selezione naturale, si legge: “Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità perperfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita” (ib., p. 157, corsivo mio). Torno a chiedere: è davvero fuorviante attribuire allo scienziato inglese una visione di incremento dell’informazione e della complessità? O non è piuttosto fuorviante il contrario? 

6. A proposito di travisamenti

Ho affermato all’inizio di questo scritto che in Pievani vi sono pesanti ipoteche ideologiche che ne alterano la lettura dei miei libri e ne distorcono lo sguardo così da giungere ad attribuirmi quanto nel mio pensiero non c’è (se poi si tratti di un procedimento intenzionale oppure no è un fatto che riguarda Pievani). Ecco tre esempi di indebite attribuzioni al mio riguardo.

1) Si sostiene che io sia creazionista, ma ciò è del tutto infondato e per mostrarlo procederò dapprima chiarendo il concetto teologico di creazionismo nelle sue due accezioni e poi documentando la mia distanza da entrambe. Con creazionismo si intende la prospettiva di pensiero teologico che sostiene un’azione diretta di Dio sulla natura. Tale affermazione conosce due forme, più radicale la prima, più moderata la seconda. La prima consiste nella negazione dell’evoluzione in quanto tale sulla base di un’interpretazione letteralista dei testi biblici, per cui si afferma la fissità delle specie e si nega l’origine fisica dell’uomo dagli animali riconducendola direttamente a Dio. La seconda consiste nella considerazione dell’evoluzione come etero-diretta da un Progetto Intelligente esterno al mondo (il celebre Intelligent Design) e in alcuni momenti addirittura sospesa per lasciare spazio a interventi diretti di Dio, come in particolare per l’anima umana ritenuta creata direttamente da Dio senza nessun concorso dei genitori. Il creazionismo radicale è professato soprattutto nell’ambito di un certo protestantesimo americano, il creazionismo moderato è professato dalla dottrina cattolica ufficiale.

Ora premesso che se fossi creazionista non avrei nessun problema a dirlo visto che cerco di avere sempre il coraggio delle mie idee, affermo per quanto mi riguarda di non aver mai abbracciato il creazionismo radicale e di aver abbandonato quello moderato a partire dall’opera Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio(Mondadori 2002, con prefazione di Edoardo Boncinelli). Nonostante ciò Pievani sostiene che io sono creazionista, e immagino che ciò dipenda dalla sua difficoltà a cogliere la distinzione teologica tra creazione e creazionismo. Lo evinco anche dal fatto che più di una volta (per esempio in MM, p. 12 e pp. 17-18) egli mostra di identificare il concetto di creazione con quello di teleologia, come se ammettere che vi sia una finalità interna alla natura debba coincidere di per sé con l’idea che la natura sia creata dal nulla da parte di un Dio. In realtà tra il concetto di creazione e quello di teleologia vi è una netta distinzione e si può benissimo sostenere il secondo senza abbracciare il primo, come dimostra la filosofia naturale di Aristotele che sostiene l’esistenza di un telos nella natura e al contempo pone il mondo come eterno, parlando più specificamente al suo riguardo di entelechia, cioè di un telos interno al mondo stesso, secondo una prospettiva di sacro naturale molto vicina a quella di Stuart Kaufmann e di altri scienziati contemporanei, e a quella di Tommaso Campanella e Giordano Bruno cinque secoli fa. Pievani però appena intravede un discorso teleologico pensa subito al creazionismo, e con ciò mostra ancora una volta di muoversi abbastanza male in filosofia. 
2) Un altro esempio di travisamento è la presentazione del mio pensiero come “lotta manichea” (MM, p. 17), come scontro tra “le forze del bene” e “quelle antinomiche del male”. Questo può significare solo due cose: o la totale incomprensione dei miei libri in cui il dualismo è sempre e ripetutamente avversato sotto tutte le sue forme, oppure un’esplicita volontà di stravolgerli a fini polemici e caricaturali. 
3) Si descrive il mio pensiero come una prospettiva consolatoria secondo cui “la giustizia alla fine trionferà”, essendo il mio critico convinto che per me “l’importante è dare a intendere al lettore che i buoni vinceranno”, visto che questo “è un lenitivo formidabile” (MM, p. 17). Questa presentazione del mio pensiero però, ancora una volta, è falsa, e per dimostrarlo è sufficiente un brano del mio ultimo libro: “Il Dio che governa il mondo secondo democrazia lascia aperta la storia della sua alleanza con gli uomini, la quale potrebbe anche fallire, e la meta, invece del regno di Dio in quanto regno della libertà che vuole solo il bene e la giustizia, potrebbe essere un immenso centro commerciale, dove tutto è in vendita e ognuno ha il suo prezzo” (Il principio passione, p. 116). 

4) Un’altra accusa rivoltami è la seguente: “Si presuppone che l’esistenza stessa di scienziati credenti sia prova della compatibilità tra conoscenze scientifiche e credenze religiose” (MM, p. 11). In questo caso non si tratta di un travisamento perché è esattamente così: io ritengo infatti che la compatibilità tra conoscenze scientifiche e credenze religiose si basi anche sul fatto che vi è un certo numero di scienziati che, conoscendo di prima mano il mondo fisico, pensano che la vita e l’intelligenza in questo pianeta non siano frutto del caso ma di una logica complessivamente orientata alla crescita della complessità, la quale può rimandare a una più profonda dimensione dell’essere denominata tradizionalmente trascendenza. Tra questi scienziati vi sono stati Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Dalton, Maxwell, Faraday, Volta, Mendel, Pasteur, Marconi, Planck, Heisenberg, Schrödinger, Eddington, Eccles, Dobzhansky… Ai nostri giorni ai nomi menzionati sopra aggiungo quelli di Schroeder, Sheldrake, Swimme e degli italiani Nicola Cabibbo, Ugo Amaldi, Elena Cattaneo. Sia chiaro che non ho parlato di Dio né di divino, lasciando così volutamente indeterminata la modalità con cui viene pensata la trascendenza, ciò che Heisenberg chiamava “l’ordine centrale delle cose” (Fisica e oltre, Bollati Boringhieri 2008, p. 235). Non ho fatto il nome di Einstein perché il suo credo spinoziano è molto discusso, ma di certo egli auspicava un’armonia di fede e scienza come testimoniano i suoi scritti, tra cui la celebre affermazione di un discorso del 1941 a New York: “La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca” (Pensieri, idee, opinioni, Newton Compton, p. 29).

In questa prospettiva a mio avviso non serve a nulla citare come fa Pievani una frase da una lettera di Darwin del 1880: “Secondo me un uomo che voglia formarsi un’opinione su questo argomento deve valutare da se stesso le evidenze; e non lo si dovrebbe influenzare dicendogli che un numero considerevole di scienziati riesce a conciliare i risultati della scienza con la religione rivelata o naturale, mentre altri non riescono a fare altrettanto” (MM, p. 11); non serve perché: 1) è ormai impossibile a un singolo essere umano valutare da se stesso le cosiddette evidenze, talmente sconfinato è diventato il progresso dell’impresa scientifica; ciò che forse era ancora possibile al tempo di Darwin oggi non lo è più; 2) la divisione degli scienziati a livello di interpretazione filosofica dei dati scientifici fa parte delle stesse evidenze che occorre responsabilmente valutare.

7. Assenze sospette 

È molto strano che un filosofo della scienza, analizzando tanto puntigliosamente il mio pensiero per volerlo “smontare pezzo per pezzo”, abbia trascurato del tutto il mio riferimento all’ultimo libro di Thomas Nagel, professore di filosofia alla New York University e personalmente scettico in materia religiosa, che nell’ottobre 2012 ha pubblicato un libro dal titolo abbastanza esplicito: Mind and Cosmos: Why the Materialist Neo-Darwinian Conception of Nature is Almost Certainly False, “Mente e cosmo. Perché la concezione materialista neo-darwinista della natura è quasi certamente falsa” (Oxford University Press 2012, non ancora tradotto in italiano, qui riprendo le citazioni dall’e-book in versione Kindle). Nagel è un filosofo della mente e proprio a partire da essa intende giungere a “un’immagine comprensiva del mondo” (pos. 59), convinto com’è che la comparsa della mente “tocca la nostra comprensione dell’intero cosmo e della sua storia” (pos. 48). Con l’assegnazione di questa centralità epistemologica alla mente siamo all’esatto opposto rispetto a Pievani secondo cui “nulla di ciò che sappiamo sull’evoluzione suggerisce che la coscienza fosse un’evenienza inevitabile… ciò che sappiamo sull’evoluzione suggerisce proprio il contrario” (p. 18). Per Nagel invece la comparsa di qualcosa come la mente rende la spiegazione che fa delle variazioni casuali il motore dell’evoluzione “quasi certamente falsa”, mentre occorre ritenere che “principi di genere diverso siano all’opera nella storia della natura, principi di crescita dell’ordine che nella loro forma logica sono teleologici più che meccanicistici” (pos. 104). Si tratta di affermazioni che pongono Nagel accanto a Whitehead, Bergson, Jonas, pensatori di grande spessore e convinti sostenitori del dato dell’evoluzione, ma molto perplessi sulla sufficienza della spiegazione che ne dà il darwinismo, esattamente nella linea degli scienziati le cui opere cito nei miei libri. 
Pievani trascura del tutto anche le affermazioni di Claudio Verzegnassi, fisico teorico dell’Università di Trieste con diversi anni di esperienza al Cern di Ginevra, il quale, avendo letto recentemente un mio lavoro in cui sostengo che l’unico senso plausibile dell’esistenza del mondo è la nascita della libertà che si compie come amore, ha scritto: “Sebbene la Scienza non parli e non possa parlare di amore, l’ipotesi che l’universo sia stato creato con lo scopo di generare la vita appare sostenibile e, a mio avviso, coinvolgente e affascinante”. Naturalmente Pievani ripeterebbe il ritornello del suo non sequitur, ma per il fisico triestino le cose stanno in modo molto diverso: “Concludere che la visione qui presentata della ricerca scientifica moderna e la visione di una teologia avanzata e compatibile con quella cristiana siano, per usare un termine decisamente riduttivo, «non incompatibili», mi sembra oggettivamente soste-nibile” (da Claudio Verzegnassi, La luce della Conoscenza: da Prometeo al bosone di Higgs, in Il senso ritrovato, a cura di Ervin Laszlo e Pier Mario Biava, Springer 2013, pp. 20-21). 

8. L’armonia relazionale

Pievani definisce “estrapolazione inconsistente” la mia affermazione di un’armonia relazionale sottesa al processo naturale e scrive di “fantomatica armonia relazionale” (MM, p. 20). Per molti grandi uomini di scienza però l’armonia è tutt’altro che fantomatica. Pressoché tutta la scienza antica si basava sul concetto di armonia, e venendo alla modernità ecco quanto ha scritto Planck a proposito di Keplero: “Ciò che lo sostenne e gli diede la forza di lavorare fu la sua scienza, ma non le cifre delle sue osservazioni astronomiche, bensì la sua fede in leggi razionali che reggono l’universo. Anche il suo maestro Tycho Brahe era dotto come lui e disponeva dello stesso materiale di osservazioni scientifiche, ma gli mancava la fede nelle grandi leggi eterne. Perciò Tycho Brahe rimase uno tra i tanti meritevoli scienziati, ma Keplero diventò il creatore dell’astronomia moderna” (La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, 1993, p. 262). Il titolo di una delle opere fondamentali di Keplero è, com’è noto, Harmonices mundi, “L’armonia del mondo”, ma quello che vale per Keplero vale per Newton che ne poté unificare le tre leggi del moto planetario sulla base della convinzione di una più fondamentale armonia cosmica, vale per Einstein che giunse a unificare la meccanica newtoniana con le leggi dell’elettromagnetismo di Maxwell sempre sulla base della convinzione di una più fondamentale armonia cosmica, e vale probabilmente per i fisici contemporanei che ipotizzano la teoria delle stringhe per unificare la relatività einsteiniana con la meccanica quantistica. Credere in un’armonia tra la mente e il mondo è sempre risultato molto produttivo per la comprensione del mondo.
Che l’armonia relazionale non sia per nulla “fantomatica” lo mostra anche la più grande scoperta scientifica dei nostri giorni, la rilevazione del bosone di Higgs ufficializzata dal Cern di Ginevra il 4 luglio 2012 e ipotizzata da Peter Higgs nel 1964, ancora una volta per un’esigenza di armonia. Da essa si evince che ogni particella è dotata di massa non per se stessa ma grazie alla relazione con il campo di Higgs, per cui occorre ritenere, cogliendo il significato filosofico del dato, che la prima delle categorie con cui pensare la realtà non è più la sostanza (come si ritiene classicamente a partire da Aristotele) ma è la relazione, e ovviamente una relazione tanto più è produttiva quanto più genera armonia. Ma il concetto di armonia relazionale è così decisivo da risultare centrale non solo a livello macroscopico in ambito astronomico e a livello microscopico nell’ambito della fisica delle particelle, ma anche a livello biologico per la salute fisica e psichica dei nostri corpi, come sanno da sempre la medicina cinese e indiana, e come per fortuna si va sempre più riscoprendo in occidente. Insomma l’armonia relazionale, ben lungi dall’essere “fantomatica”, è un concetto decisivo della rinnovata ontologia come interconnessione del tutto. Tutto in natura infatti è frutto di aggregazione di elementi: l’aria che respiriamo (78% azoto, 21% ossi-geno, 1% argon), l’acqua che beviamo e di cui siamo in massima parte composti, il nostro corpo e prima ancora i nostri organi, il nostro pianeta, la stella che ci dà l’energia vitale, il sistema di pianeti in cui siamo inseriti, la nostra galassia: tutto è frutto di assemblaggio di elementi. C’è una spinta innata nell’energia e nella materia verso l’aggregazione, spinta che la sapienza classica ha chiamato logos, traendo il termine dal verbo leghein, cioè legare, collegare. 

Certo, oltre a tale spinta c’è quella contrapposta verso la disgregazione, c’è il caos. Essa si è manifestata a partire dallo scoppio primordiale o Big Bang che ha messo in moto l’universo attuale; e poi nell’esplosione delle stelle che dissemina nel cosmo gli elementi alla base della vita, in primo luogo il carbonio; e poi nel ciclo vitale che prevede malattie, vecchiaia, morte. Quello che abbiamo quindi è: logos-aggregazione + caos-disgregazione. Non si tratta però di una perfetta equazione, perché tra logos e caos non c’è simmetria, ma asimmetria: se non fosse così, nulla si sarebbe costruito e noi non saremmo qui a ragionarne. Già il solo vedere, riconoscere e nominare il caos, è una vittoria del logos, visto che anche la struttura del linguaggio e del discorso (logos) riflette l’ordine senza cui non potremmo neppure sensatamente parlare, e chi sostiene il primato del caos, già solo per il fatto di fare un discorso ordinando logicamente le parole e le idee, manifesta il primato del logos.

Ne viene che cercando l’armonia si attua la logica-logos da sempre all’opera nel mondo mediante una faticosa, e spesso drammatica, processualità. Utilizzando il termine coniato da Schrödinger nel 1935, la fisica parla di entanglement, letteralmente “intreccio”, ovvero non-separabilità di tutte le cose, a partire dalle particelle subatomiche. Il mondo è un intreccio di relazioni, non c’è nulla che sta in sé, ogni cosa è in quanto è in relazione. Senza relazioni armoniose nulla vive, tutto muore. Saperlo significa raggiungere una base naturale per l’etica; cercare di realizzarlo è ciò che fa la vera grandezza di un essere umano, la sua capacità di giustizia.

9. Ancora sul metodo e in difesa della “domenica” 

Avviandomi verso la conclusione riprendo l’accusa principale, cioè “un uso filosofico, teologico e ideologico” della scienza (MM, p. 4). Sopra ho risposto dicendo che per pensare il mondo e il senso della nostra vita in esso non si può fare a meno della scienza, perché se non ci si confronta con i suoi dati non si pratica un pensiero responsabile, e che quindi un uso della scienza in filosofia e in teologia è più che legittimo, anzi è doveroso, come mostrano teologi del calibro di Hans Küng, Carlo Molari, Jürgen Moltmann, Alexandre Ganoczy, John Polkinghorne, Alister McGrath, Arthur Peacocke, Keith Ward, Ian Barbour, Michael Heller, Medard Kehl, Philip Clayton (e altri nomi per i quali rimando a The Oxford Handbook of Religion and Science, Oxford University Press 2006). La differenza rispetto all’uso ideologico della scienza praticato dai fondamentalisti credenti e dai fondamentalisti non-credenti è che io teorizzo, in linea con Kant, che dai dati scientifici non scaturisce necessariamente né un’affermazione di Dio e del disegno intelligente né al contrario una visione atea, perché i dati assumono un significato differente a se-conda della filosofia dell’interprete. Essi infatti, al fine di renderli significanti, vengono inseriti nella più ampia visione del mondo che abita la mente di ognuno e che non può derivare da un’oggettiva osservazione del mondo perché a nessuno è dato un punto di vista esterno al mondo da cui guardarlo oggettivamente. 
Va inoltre considerato che, a differenza di quanto scrive Pievani, l’universo non sta solo “là fuori” (MM, p. 28) ma è anche qua dentro, perché anche noi siamo una parte dell’universo, una parte insignificante dal punto di vista dell’energia e della materia, ma molto significativa dal punto di vista dell’informazione, e non a caso Nagel pone la mente quale punto prospettico da cui leggere il senso complessivo dell’evoluzione cosmica. Lo devono fare tutti? No. Ma alcuni lo possono fare senza tradire la loro natura di esseri pensanti e responsabili.

Che la nostra mente sia parte dell’universo e quindi influenzi pesantemente i dati da osservare che quindi non risulteranno mai del tutto oggettivi, è provato dal fatto che nel ‘700 e nell’800 per fondare l’ateismo si ricorreva al determinismo (tipico è il caso di Laplace) mentre oggi per raggiungere il medesimo obiettivo ci si basa sul principio opposto della contingenza. In realtà nel mondo esistono sia la determinazione (che si esprime nelle leggi fisiche dette costanti perché non mutano mai) sia la contingenza (che si esprime nella fragilità della vita), con il risultato che non tutto è necessario e non tutto è contingente, e che ancora una volta siamo al cospetto dell’antinomia e rimandati all’interpretazione senza fine dei significati, cioè alla nostra libertà. E infatti il valore di ogni essere umano consiste nella sua libertà e nel modo con cui l’utilizza.
È precisamente per questo che a me interessa conoscere l’esperienza e il sentimento della vita che i grandi uomini di scienza hanno consegnato ai loro scritti saggistici che leggo con un senso di grande rispetto che talora sfiora la venerazione come nel caso del “Manifesto Russell-Einstein” del 1955 contro la bomba atomica. Non è certo invece, come purtroppo scrive Pievani, per “grufolare nel sottobosco dei pensieri della domenica degli scienziati” (MM, p. 26). Grufolare è un verbo che il Vocabolario Treccani definisce così: “del porco, spingere innanzi il muso grugnendo e cercando il cibo”. Che dire? Come ho già osservato, lo stile rivela l’interiorità, perciò non mi stupisce che nell’autore di quelle parole sia assente ogni tipo di considerazione per i “pensieri della domenica”, i quali sono l’essenza stessa della filosofia, di quella disposizione particolare della mente di cui Aristotele diceva che “tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore” (Metafisica, I, 983 A). E sempre a proposito di domenica, Hegel faceva consistere l’idea di Dio nella “domenica della vita”, dicendo che gli esseri umani hanno sempre considerato “questo sapere e sentire Dio come una loro più alta forma di vita, il loro vero fine e la loro vera dignità: come la domenica della loro vita, dove scompaiono le preoccupazioni terrene e finite e lo spirito si acquieta” (Georg W.F. Hegel, Premessa alle Lezioni sulla filosofia della religione, Laterza 1983, I, p. 4). 

Che cosa concludere alla fine da questo attacco poco documentato, denigratorio, talora ai limiti della volgarità? Sempre più mi vado convincendo della preziosità delle parole di un maestro del pensiero laico, Norberto Bobbio, spesso citate dal cardinal Martini: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa” (vedi Religione e religiosità, MicroMega, Almanacco di filosofia, 2/2000, pp.8-9).

(3 marzo 2014)