Il papato a termine: 3-4 anni per riforme, poi seguirà Ratzinger
di Marco Politi
“il Fatto Quotidiano” del 3 maggio 2014
Due papi in Vaticano. E all’orizzonte si profila un pontefice a termine. Papa Francesco non ha molto tempo per la sua rivoluzione. In Argentina, dove molti gli davano del tu e hanno meno timore reverenziale, parecchi esponenti religiosi mettono in conto che gli anni a disposizione non siano molti. Padre Ignacio Pérez del Viso, suo antico docente, afferma che il pontefice “si rende conto di non avere dinanzi a sé un papato ventennale. Sente la pressione delle riforme, che deve attuare entro
3 o 4 anni… Deve agire finché sente l’appoggio della gente”. L’abdicazione di Ratzinger ha cambiato completamente la fisionomia del papato. Non si è più pontefici per sempre. All’indomani della sua rinuncia l’ex ministro degli Esteri vaticano cardinale Giovanni Lajolo notava: “La decisione di Benedetto XVI varrà come precedente anche per i successori”. L’ex portavoce di Bergoglio, padre Marcó, lo ha detto alla radio: “Dopo il gesto di Benedetto non sembrerebbe strano che Francesco rinunciasse, dopo aver fatto quello che pensava di dover fare”.
A un anno dall’elezione il papa è ancora abbastanza solo all’interno della struttura ecclesiastica. Questo spiega la sua straordinaria determinazione. Gode di un consenso amplissimo tra i fedeli e nell’opinione pubblica agnostica e non credente, però in curia non si manifesta, per il momento, un forte partito pro-Bergoglio. Anzi, c’è chi spera che il papa argentino sia un’eccezione transitoria. Non esiste nella Chiesa un movimento organizzato di sostenitori della sua rivoluzione. L’associazionismo cattolico sinora è rimasto fermo mentre ai tempi di Giovanni Paolo II erano visibili la presenza e la pressione di movimenti come l’Opus Dei e Comunione e liberazione, attivamente schierati a favore del programma del papa polacco. Un papa ottiene obbedienza quasi assoluta quando agisce lungo i binari della tradizione. Se invece vuole cambiare e riformare, sono infiniti i modi grandi e piccoli di frapporgli ostacoli. Giovanni XXIII incontrò resistenze aperte e sotterranee al suo disegno riformatore. Il monaco-teologo Enzo Bianchi considera il pontificato di Francesco una “seconda primavera”, ma non nasconde la paura che la dinamica possa essere bloccata. I settori conservatori puntano al logoramento del papa argentino, fanno leva sulla stanchezza che può subentrare al ripetersi delle sue esortazioni. Diffondono il timore che Francesco stia costruendo un’ “altra Chiesa”, uscendo dai binari della tradizione, della dottrina e della retta interpretazione della parola di Dio. “Stai sconcertando noi e non sappiamo più dov’è il nostro quartiere e dov’è invece il fronte nemico”, gli ha scritto Lucrecia Rego de Planas, ex direttore dell’edizione spagnola di Catholic.net in Messico I critici all’interno dell’apparato curiale rimproverano a Francesco di creare troppe commissioni e comitati, di muoversi in maniera solitaria, di non concentrarsi su pochi obiettivi, di non esprimere una visione teologica strutturata, di parlare troppo, di cedere troppo ai gusti della folla. C’è chi si ribella all’idea che Francesco sminuisca la “sacralità della persona papale”. Quando Francesco fustiga il chiacchiericcio e la circolazione di calunnie all’interno degli apparati, pensa ai sabotatori che parlano a bassa voce. “Vorrei morire da cattolico e spero che Bergoglio lasci al successore la possibilità di fare il papa!”, è la frase esasperata di un monsignore ostile alle riforme. Non è da sottovalutare nemmeno l’opposizione inerte di quanti in curia sono incerti per il loro futuro e il loro ruolo e sentono vacillare la stabilità dei dettami tradizionali.
Accanto a preti e prelati che ammirano Francesco, c’è chi liquida con disincanto le sue parole, specie sul tema della povertà. C’è una rete sotterranea di interessi ramificati, che guarda con sospetto e fastidio alle riforme. Papa Francesco prova disgusto per la corruzione dei cuori. “Tutti siamo peccatori, ma non tutti corrotti”, ha dichiarato a una riunione di superiori degli ordini religiosi. “Si accettano i peccatori, non i corrotti” che vanno espulsi da seminari e istituti, rimarca il pontefice. E le opere della Chiesa si gestiscano con povertà di cuore senza che il prete si identifichi, annullandosi, con la mentalità da imprenditore. Parole che sembrano risuonare in un deserto. “In curia la resistenza sta crescendo”, ammette un curiale. La reazione del pontefice ora è venata di umorismo, ora si fa pensierosa . “Mi hanno tirato un goal da centrocampo”, commenta quando gli organizzano qualche nomina poco convincente. Di fronte alle tensioni sotterranee la sua reazione è serena: “Il demonio si agita... siamo sulla buona strada”. Alla messa con i nuovi cardinali, creati nel concistoro di febbraio, ha ammonito che il Vaticano non è una corte: “Aiutiamoci a evitare intrighi, chiacchiere, cordate, favoritismi, preferenze”. Terminato il rito, il pontefice ha esortato a lavorare per l’“unità” della Chiesa, pronunciando la parola quattro volte in un fiato. È un segnale d’allarme. Contribuisce a un certo “essere solo” di Francesco la complessità del suo carattere. Il papa, che incoraggia la partecipazione nella Chiesa, così compañero con i suoi preti a Buenos Aires, amabile con i fedeli, nel privato custodisce una sua solitudine. Dice di lui una personalità vaticana, che lo conosce da anni: “Di sant’Ignazio si è scritto che osservava una ‘distanza cordiale’ nei confronti degli altri. Jorge Mario Bergoglio a suo modo è così. E questo gli rende difficile costruire una squadra intorno a sé”. Le messe mattutine a Santa Marta davanti a gruppi di fedeli nascono dal bisogno di non perdere da prete il contatto diretto con il popolo di Dio intorno all’eucaristia. Il rito
si svolge in un’estrema essenzialità. Durante la consacrazione, quando tiene elevata l’ostia, Francesco la guarda fisso con una straordinaria intensità. Non c’è più nulla attorno a lui. Potrebbe essere ovunque. Celebrando l’eucaristia nel deserto come Teilhard de Chardin o in un lager dei totalitarismi del Novecento.
Benché abbia un programma, Francesco in realtà ignora l’approdo a cui perverrà. “Fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri... all’interno di grandi orizzonti”, è la sua bussola. A chi è convinto che cambiamenti e riforme possano avvenire rapidamente, Francesco oppone l’idea che serve tempo per preparare un cambiamento autentico. Nasce da qui il senso di calma che lo accompagna mentre lavora senza pause – niente vacanze, niente escursioni nella natura come Wojtyla o passeggiate nei giardini vaticani come Ratzinger. Francesco è arrivato al termine del primo anno di pontificato con il volto segnato dalla fatica. A volte ha gli occhi gonfi dalla stanchezza e lo colgono momenti di debolezza. “Il lavoro è molto, ma sono contento”, ha confidato a un conoscente argentino. La sintonia straordinaria che si è creata tra lui e i fedeli rappresenta lo scudo contro le critiche e i taciti sabotaggi in atto negli apparati ecclesiastici. “Questo pontificato darà molte sorprese”, prevede il cardinale Tauran. La sfida della rivoluzione di Francesco si giocherà nei prossimi anni. Lo sbocco potrà essere per la Chiesa un New Deal come quello di Roosevelt o un terremoto come la perestrojka di Gorbaciov. “Iniziamo una nuova tappa nella Chiesa”, sono le sue parole, rivelate dall’amico teologo Victor Manuel Fernández. Se riuscirà a trasformare i sinodi dei vescovi in strumento di compartecipazione al governo papale, a renderli piccoli concili dove si individua la rotta della Chiesa nel mare della modernità – coinvolgendo in futuro anche il popolo dei fedeli – la rivoluzione di Bergoglio diventerà irreversibile.
Marco Politi, Francesco tra i lupi, Laterza, Bari 2014