Il parlamento latitante
di Stefano Rodotà
“la Repubblica” del 8 ottobre 2014
Con una decisione inattesa, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto i ricorsi di cinque Stati dando via libera al riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Con una circolare assai prevedibile, il ministro dell’Interno ha dato disposizioni ai prefetti perché ingiungano ai sindaci di non procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. La Corte americana, notoriamente conservatrice, tuttavia non rinuncia a guardare alla società ed esercita i suoi poteri per rendere possibile l’esercizio di un diritto ormai sempre più largamente riconosciuto, modificando un suo precedente orientamento negativo (anche se non è escluso un suo ulteriore intervento). Il nostro ministro dell’Interno si chiude in una lettura formalistica della legislazione vigente e sfugge ad una precisa responsabilità politica, quella che da anni spetta al Parlamento che, proprio in questa materia, è stato ripetutamente sollecitato ad intervenire dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione e che, invece, si è chiuso in un inammissibile silenzio, in una grave e deliberata omissione di atti di sua competenza.
La decisione di molti Comuni di ammettere la trascrizione di quei matrimoni non risponde ad un capriccio o ad una impuntatura ideologica. Fa parte di un modo di intendere la democrazia “di prossimità”, coerente con il ruolo attribuito in modo sempre più netto ai Comuni come istituzioni di frontiera, alle quali i cittadini possono immediatamente rivolgersi. E l’attenzione delle persone è tanto più forte quanto maggiore è la distanza e il disinteresse delle altre istituzioni. Così si spiegano, tra l’altro, le iniziative comunali sui registri dei testamenti biologici e sulla trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, materie che toccano nel profondo la vita delle persone, la loro libera costruzione della personalità riconosciuta dall’articolo 2 della Costituzione.
È comprensibile, allora, la reazione dei Comuni che hanno deciso di impugnare la circolare del ministro, proprio perché in essa vedono una violazione del diritto delle persone ad essere trattate in modo conforme ai principi costituzionali, quello d’eguaglianza in primo luogo. Nella circolare, infatti, compare un errore altre volte commesso, quello di interpretare il concetto di matrimonio solo in base alle norme del codice civile, come se la Costituzione non esistesse e come se non esistessero le norme che impongono di guardare ad una serie di situazioni nella prospettiva europea.
Vedremo come risponderanno i giudici chiamati a decidere sulla legittimità di una circolare che si presenta come uno strumento volto a restaurare una legalità violata dalle iniziative dei sindaci. Fin da ora, però, si possono mettere in evidenza alcune conclusioni e argomenti impropri, a cominciare dall’affermazione secondo la quale sarebbe possibile procedere all’annullamento delle trascrizioni già effettuate. Bisogna comunque chiarire che la trascrizione si limita ad accertare l’esistenza di un matrimonio celebrato all’estero, senza attribuirgli efficacia nell’ordinamento italiano.
Ma la trascrizione non è irrilevante perché, ad esempio, può rendere più agevole rivendicare i diritti che già la Corte di Cassazione ha riconosciuto in via generale a questa forma di unione. E perché la mancata trascrizione farebbe prevalere la cittadinanza nazionale su quella europea, privando le persone del diritto di vedere applicate in Italia norme del diritto europeo, in contrasto con quanto stabilito nel 2011 dalla Corte di giustizia dell’Unione.
Proprio perché l’Italia è istituzionalmente collocata nel contesto europeo, la trascrizione, entro questi limiti, non può essere considerata in contrasto con l’ordine pubblico internazionale. Al contrario, evita una discriminazione fondata sulla cittadinanza e sull’orientamento sessuale. La circolare, tuttavia, riapre la questione politica del riconoscimento di queste unioni. Questione che è costituzionale e che, quindi, non appartiene ad una discrezionalità politica che consente al legislatore di stabilire più o meno arbitrariamente se occuparsi o no di una determinata questione. Infatti, la Corte Costituzionale, fin dal 2010, ha riconosciuto la rilevanza delle unioni tra persone dello stesso sesso, poiché siamo di fronte ad una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello stesso sesso, unite da una convivenza stabile, spetta «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Sono parole impegnative: un diritto fondamentale attende il suo pieno riconoscimento. La Corte di Cassazione è stata ancor più netta dei giudici costituzionali con una sentenza del 2012, riprendendo alcune conclusioni della Corte europea dei diritti
dell’uomo, ha affermato che, essendo ormai venuto meno il requisito della diversità di sesso e poiché si è in presenza di un diritto fondamentale, le coppie formate da persone dello stesso sesso possono già rivolgersi ai giudici «per far valere, in presenza di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata».
Quell’atto del ministro, insieme ad esplicite dichiarazioni contro ogni riconoscimento delle unioni gay, ci dice che si persevera nell’ignorare quelle esplicite indicazioni. Al Nuovo centrodestra (nuovo?) interessa affermare una identità, presentarsi come il fermo bastione dei valori non negoziabili, incurante dei diritti già riconosciuti alle persone.
Di questo atteggiamento strumentale è prigioniero il governo, dal quale certo non arriverà alcun tweet per ricordare quale sia la retta via costituzionale.
E alla maggioranza parlamentare verranno rivolti fermi inviti a non prendere iniziative avventate, “divisive”, che possano mettere a rischio la sopravvivenza dell’esecutivo. È tempo di sacrifici dei diritti civili e sociali, e quindi è difficile sperare in reazioni adeguate, non dico in una diffusa e sacrosanta indignazione. Perché questo possa davvero accadere, servirebbe una cultura politica vitale, che è proprio quello di cui continuamente registriamo la mancanza.
È malinconico dover registrare, dopo la distanza tra Stati Uniti e Italia, anche quella che divide la nostra discussione politica e il parlar chiaro invocato da papa Francesco. Conosciamo le posizioni della Chiesa cattolica nella materia qui considerata. Ma il tema è stato messo all’ordine del giorno, fa parte della sua “agenda politica”, invita al dialogo, con un atteggiamento che è l’opposto del formalismo e delle chiusure pregiudiziali, e che dovrebbe scoraggiare i politici italiani da inutili contorsioni per assicurarsi qualche aiuto dalle autorità ecclesiastiche. Questa constatazione non è un invito ai laici perché si trasferiscano in un altro spazio, ma perché riscoprano l’importanza e la dignità di riconoscere il proprio.