Il patto dei mafiosi nel nome di Dio
di Barbara Spinelli,
da la
Repubblica, 26 marzo 2014
Così come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano
sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i
riti di iniziazione a Cosa nostra.
E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato
sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste
colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita
battesimale a nuova vita.
Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole
sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9
maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli
l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo
all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa
nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la
Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam.
Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del
Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.
Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle
vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore diLibera vissuto per
anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al
Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma. Il Papa ha
ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non
collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in
passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha
citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don
Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le
sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».
Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più
cruciali processiitaliani — quello sui patti fra Stato e mafia — esigendo a voce
alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più
minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e
tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal
menzionare. È un j’accusepesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel
cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la
più grande novità di questi giorni. L’Altra Chiesa, quella di Don Gallo e Don
Puglisi, da periferia che era diventa centro.
Gian Carlo Caselli, presente alle cerimonie e poi alla marcia diLiberaper la XIX
Giornata della memoria e dell’impegno, ha detto una cosa importante: che la
Chiesa parla alle menti se ha profeti, «e per un profeta non è difficile
arrivare più in là della politica». È facile soprattutto in Italia, dove la
politica s’inabissa nei silenzi elusivi, nelle smemoratezze. Caselli lo ripete
fin da quando, insediato a capo della Procura di Palermo, disse in un convegno
della Chiesa di Sicilia, nel ’93: «È necessario analizzare le ragioni per cui
rilevanti componenti della Chiesa (...) hanno potuto, e per molto tempo,
sottovalutare la realtà della mafia, e conviverci senza articolare una reale
opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società ».
Se Falcone e Borsellino vennero uccisi con le loro scorte, fu «perché lo Stato,
ma anche noi cristiani, noi Chiesa, non siamo stati sinoin fondo quel che
avremmo dovuto essere (...). Quante volte, invece di vedere il prossimo, ci
siamo accontentati dell’ipocrisia civile e del devozionismo religioso». Già
allora chiedeva al Vaticano uno scatto di responsabi-lità: lo stesso implorato
venerdì da Don Ciotti. Lo scatto che tarda a venire nella politica. Antonio
Ingroia, ex pubblico ministero a Palermo, osserva come manchi, nei primi
discorsi di Renzi premier, ogni accenno alle procure minacciate. Come sia vasto,
e voluto, il mutismo sul processo Stato-mafia (Huffington Post,3-3-14).
Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da
Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar
vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti
su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso,
“La Chiesa e la mafia”; da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di
mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un
libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza.
Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle
esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo
scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane».
Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo
Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà
risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e
alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana».
Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle
vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché
se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano. E implica, nella Chiesa,
l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i
pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione
offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori.
È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don
Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del
clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80:
proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione
del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta
collaborazione » lo prescrisse soltanto.
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi
come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta — lo è ancora —
dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i
parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere
affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato,
c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una
trattativa Stato- mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le
Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia. Allo
Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio
religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei
rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più
spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).
Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce
preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo
Dolci e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco.
Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il
’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari
Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti
dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che
rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma
ancor più i preti complici non processati.
Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche
nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che
viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».