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Il pluralismo nel Nuovo Testamento

 

di Carlo Molari

 

 

Rocca” n. 1 del 1 gennaio 2015

 

Nell'articolo pubblicato (1° dicembre) ho lasciato incompiuta la riflessione di Giuseppe Ruggieri sulla efficacia del «racconto cristiano» e sulla pluralità di dati a volte inconciliabili che esso presenta. Credo sia necessario riprendere e ampliare il discorso. (G. Ruggieri, Della fede. La certezza, il dubbio, la lotta, Carocci, Roma 2014).

 

canone biblico

Ruggieri presenta il canone biblico del Nuovo Testamento come uno dei tre custodi del racconto cristiano (gli altri due custodi sono la liturgia centrata sull'Eucaristia e i poveri pp. 110-122). Il canone è «la raccolta degli scritti che contengono memorie degli apostoli e che le chiese hanno dagli inizi letto nelle loro liturgie e quindi, a partire dalla metà del II secolo, progressivamente delimitato rispetto ad altri scritti che rivendicavano uguale autorità. Il processo di selezione e di identificazione dura per secoli e si può sostanzialmente ritenere concluso nella metà del IV secolo» (p. 115). Come tale il canone costituisce «la regola che occorre seguire a garanzia della fedeltà del raccont (ib.).

Un dato comunemente affermato dai biblisti e teologi attuali è che gli scritti raccolti nel canone presentano una pluralità di immagini di Gesù Cristo e di discipline che i suoi discepoli hanno sviluppato dopo la sua scomparsa. Questo fatto, in realtà, è stato sempre riconosciuto, ma nel passato l'impegno degli esegeti, degli storici e dei teologi si è abitualmente orientato alla ricerca di una forma unitaria dell'avventura cristiana. Si sono delineate così delle figure canoniche di Cristo e della struttura ideale della comunità dei discepoli, considerate definitive e assolute. L'orientamento attuale, come emerge anche dalle riflessioni proposte da Ruggieri, è invece rispettoso della pluralità delle cristologie e delle ecclesiologie esistente negli scritti canonici ed è aperto a riconoscere eventuali sviluppi ulteriori, possibili all'interno dello stesso cammino di fede.

«Nel canone infatti, non è presente 'un' contenuto, ma una pluralità di contenuti, di cristologie, di ecclesiologie, di dottrine, che è impossibile ricondurre a una sintesi in cui ogni elemento si integri organicamente con l'altro. I vari contenuti restano vicendevolmente 'aperti', ma non sono integrabili secondo le leggi di un sistema. Questo fatto permette di dire che le varie versioni del racconto contenute nel canone sono ugualmente legittime e non debbono essere assorbite l'una nell'altra, ma soltanto mantenute nella loro apertura vicendevol (o. c., pp. 115-116). D'altra parte il canone è chiuso in se stesso e ha operato esclusioni. Questo fatto ha consentito di salvaguardare la continuità del racconto originario e lo ha preservato da una possibile dissoluzione. La pluralità tuttavia delle possibili letture presenti già nella stessa raccolta consente l'apertura a una molteplicità di interpretazioni del racconto che debbono restare rispettose le une delle altre.

Rimanere aperti alle altre narrazioni dello stesso racconto non significa rinunciare alla propria modalità di vivere e raccontare l'evento, ma significa riconoscerla parziale e prospettica ed esige l'apertura alle altre modalità del racconto presenti nel canone. Non tutte le modalità possibili del racconto sono legittime, ma nessuna di quelle legittime può rivendicare l'esclusività, dovendo restare aperta alla presenza di altre, anche se queste lungo la storia hanno perso visibilità. Particolarmente significativa in questo senso è la legittimità della cristologia giudeo cristiana che è scomparsa dalla tradizione cristiana. A giudizio di Ruggieri «l'esclusione del giudeo-cristianesimo e della sua cristologia, avvenuta sostanzialmente nella seconda metà del secondo secolo, non resta un fatto irreversibile, proprio in forza del canone. La possibilità di reintegrazione dottrinale della cristologia giudeo-cristiana, nell'attuale riflessione cristologica, è... possibile proprio grazie al canone» (o. c. p. 117). Essa infatti è presente in alcuni scritti contenuti nel Nuovo Testamento. Ruggieri individua anche nella Lettera ai Romani riflessi della cristologia giudea cristiana là dove Paolo scrive che il suo Vangelo riguarda il Figlio di Dio «nato dal seme di Davide secondo la carne,

costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Messia nostro Signore» (Rom. 1,4). Ruggieri commenta «questo testo è un unicum nel Nuovo Testamento. Infatti unisce all'idea del Figlio preesistente, tipicamente paolina, la cristologia messianica giudeo-cristiana che vede solo a partire dalla risurrezione la costituzione di Gesù a 'Figlio di Dio'» (p. 75) ci a Messia. «Questa cucitura avviene in maniera tranquilla, senza imbarazzo. Il racconto creava comunione e non separazione anche nella diversità dottrinale» (ib.). La teologia giudeo-cristiana infatti è sorta per la testimonianza di coloro che avevano conosciuto da vicino Gesù che cresceva in «sapienza età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 52); di coloro ci che avevano inizialmente giudicato una pazzia («è fuori di sé» Mc 3,21) la sua decisione di lasciare la casa e il lavoro per sollecitare la conversione attraverso la predicazione del Regno di Dio, ma che poi ne avevano riconosciuto la sua messianicità ed erano diventati suoi ardenti discepoli. In questa prospettiva la Lettera agli Ebrei scriveva che Gesù «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva liberarlo dalla morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek» (Eb 5, 7-10). Anche la lettera di Giacomo si muove chiaramente in questo orizzonte.

La ragione fondamentale per accettare l'evidente pluralismo risiede nella consapevolezza che «il racconto messianico possedeva... una sua eccedenza rispetto a quanto gli stessi cristiani erano in grado di tradurre nella loro esperienza a cominciare da Paolo e dall'autore degli scritti giovannei, da coloro quindi che con maggiore consapevolezza avevano espresso il loro entusiasmo per la manifestazione dell'amore di Dio nel suo Messia Gesù, conferendo al racconto una profondità forse mai raggiunt (o. c., p. 66).

Occorre però ricordare che il racconto cristiano «può essere partecipato solo dentro l'esperienza della contemplatio, della preghiera con la quale colui che accoglie il racconto come suo, sentit, sperimenta l'energia del raccont (o. c. p. 94); e che «il luogo vitale, in forza del quale si avvia il processo della formazione del canone [è] la liturgia ecclesial (o. c., p. 117). Quando invece la dottrina «si pone al di sopra del sentire cristiano, quando essa pretende di sostituire l'esperienza e la presenza del mistero, tradisce il suo compito e impedisce così di trasmettere la stessa definitività del racconto per l'esistenza credente. La fede è sempre esperienza di una presenza dentro l'assenza. I contenitori di questa esperienza non riescono a rinchiuderl (o. c., p. 94).

 

simboli di fede

Particolarmente significativo a proposito della connessione tra confessione della fede e preghiera è il percorso compiuto dalle formule del Credo, come simbolo di fede. «Nel Nuovo Testamento, come per tutto il periodo fino al Concilio di Nicea (325, non c traccia di una formula di fede unica per tutte le comunità cristiane). Ma esistono delle formule che esercitano un ruolo determinante per stabilire la consistenza dell'adesione all'insegnamento degli apostoli all'interno di ogni singola chiesa... Queste formule non avevano lo scopo di presentare il contenuto del racconto evangelico ai non credenti... e nemmeno quello di illustrare un aspetto della predicazione cristiana... Si trattava piuttosto di formule che potremmo chiamare di riconoscimento, anche se esse erano usate nei contesti più disparati» (o. c., p. 82). In seguito alla convocazione del Concilio di Nicea (325) da

parte di Costantino e alla sua conclusione in una formula di fede imposta per autorità, «sopravviene una grande rivoluzione con l'introduzione dei simboli sinodali e conciliari. A partire dal Concilio di Nicea, gli ecclesiastici che si incontravano in una solenne assemblea, incominciarono a introdurre in forma abituale l'usanza di redigere formulari che esprimessero il loro accordo sulle questioni d fede. Questi nuovi credo vennero considerati, naturalmente, come rivestiti di autorità molto maggiore di quella locale, (J.N.D. Kelly, I simboli della fede nella Chiesa antica, Dehoniane, Napoli 1987 p. 203) Un altro profondo cambiamento è avvenuto con il Concilio di Calcedonia (451) dove il Simbolo ha perso il carattere di confessione di fede: Noi (fedeli) crediamo che..., per diventare espressione di un insegnamento: Noi (Vescovi) insegniamo che... Ruggieri conclude: occorre «riportare il racconto dogmatico, ormai indipendente e autonomo, anzi in qualche modo sovrano sulla chiesa, dentro il suo confine naturale, quello della preghiera» (p. 90) Per ritrovare il pluralismo della fede.