Nessun dogma...
di Juan José Tamayo
Adista Segni nuovi n° 28 del 26/7/2014
«Bisogna però che il vescovo sia irreprensibile, non abbia preso moglie che una volta sola, sia sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la sua casa e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?».
Questo testo non è firmato da un movimento cristiano progressista dei nostri giorni che rivendica la soppressione dell’obbligo al celibato per i sacerdoti. È tratto dalla Prima Lettera a Timoteo – Nuovo Testamento – scritta forse alla fine del I Secolo, epoca in cui vescovi e preti erano in maggioranza sposati. Il celibato non appare come un comando o una condizione necessaria imposta da Gesù di Nazareth alle sue e ai suoi seguaci. Piuttosto era fondamentale la rinuncia ai beni e la condivisione di essi con i poveri. Niente che fosse relativo alla sessualità. E non si esigeva la continenza sessuale né dai dirigenti delle prime comunità, né, successivamente, da vescovi, presbiteri e diaconi. Era un’opzione libera e personale. L’esercizio dei carismi e dei ministeri al servizio della comunità non richiedeva che si conducesse una vita da celibe.
Nella Prima Lettera ai Corinti, scritta nell’anno 52 dell’era cristiana, Paolo di Tarso va anche oltre e rivendica il suo diritto a sposarsi così come il resto degli Apostoli: «Non abbiamo diritto a farci accompagnare da una sposa cristiana come gli altri fratelli del Signore e di Pietro?» (1Cor 9,4-6). Non esiste, pertanto, un vincolo intrinseco fra il celibato e il ministero sacerdotale.
La prima legge ufficiale riguardante il celibato obbligatorio per i sacerdoti è stata promulgata esplicitamente nel II Concilio Lateranense nel 1139 – implicitamente lo aveva già fatto il I Concilio Lateranense nel 1123 – richiamando alla necessità della continenza sessuale e alla purezza rituale per celebrare l’eucarestia. Siamo dunque di fronte ad una tradizione tardiva, lontana dalle origini del cristianesimo e pertanto dall’intenzione del suo fondatore Gesù di Nazareth.
Per molto tempo si è creduto che la legge sulla continenza sessuale dei chierici avesse la sua origine nel Concilio di Elvira, degli inizi del IV secolo, e in quello di Nicea (del 325). Oggi, tuttavia, è opinione molto diffusa fra gli specialisti che i documenti attribuiti al Concilio di Elvira non appartengano tutti ad esso, ma ad una collezione canonica che data intorno alla fine del IV secolo; e che a Nicea non sembra si sia trattato della continenza dei sacerdoti (cfr. E. Schillebeeckx, Il ministero nella Chiesa, Servizio di presidenza nella comunità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1981).
L’attuale Codice di Diritto Canonico, promulgato da Giovanni Paolo II in Vaticano il 25 gennaio 1983, si allontana dalle origini e segue la tradizione repressiva posteriore. Prescrive il canone 277: «I chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il Regno dei cieli, perciò sono vincolati al celibato, che è un dono particolare di Dio mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini». Ai sacerdoti è richiesta prudenza nel trattare con persone – donne, si intende – che possano mettere in pericolo l’obbligo di custodire la continenza.
Il cambiamento è abissale: dalla libertà di scelta all’imposizione della vita celibataria, dal libero esercizio della sessualità all’astinenza sessuale, dalla vita di coppia alla vita solitaria. La disciplina ecclesiastica repressiva impera sull’esperienza liberatrice del cristianesimo primitivo. Il Codice di Diritto Canonico scavalca il Nuovo Testamento e la sua autorità finisce con l’imporsi. Il cristianesimo a rovescio!
Cosa è successo nel cattolicesimo romano per produrre questa involuzione? Quali sono le ragioni di un tale cambiamento? Una prima ragione è stata la purezza legale, che proibiva le relazioni sessuali dei sacerdoti prima della celebrazione eucaristica perché la si potesse celebrare limpidamente.
Ha influito anche l’incorporazione alla teologia cristiana del dualismo platonico: la considerazione negativa del corpo come qualcosa da mortificare e della carne quale ostacolo alla salvezza, e la considerazione dell’anima come unica essenza dell’essere umano che bisognava salvare a detrimento del corpo. Secondo questa antropologia dualista, si riconosceva alla vita celibataria un “plusvalore” sulla vita matrimoniale. Nel suo famoso libro Camino, san José María Escrivá de Balaguer è ben esplicito a riguardo: «Il matrimonio è per la truppa, non per i grandi ufficiali della Chiesa. Così, mentre mangiare è un’esigenza di ogni individuo, generare è un’esigenza della specie, potendo disinteressarsene le persone singolari. Bramosia di figli? Figli, molti, e un’impronta incancellabile di luce lasceremo se sacrifichiamo l’egoismo della carne» (Massima 28).
La terza ragione è stata la demonizzazione della donna, ritenuta tentatrice, lasciva, libidinosa, passionale, sensuale, in grado di portare l’uomo alla perdizione. E questo non si applicava solo a determinate donne dalla vita poco esemplare, ma si riteneva che fosse iscritto nella stessa natura femminile. Alcuni Padri della Chiesa hanno definito la donna «la porta di Satana», la «causa di tutti i mali».
Oggi c’è un clima generalizzato, dentro e fuori il cattolicesimo, favorevole alla soppressione dell’anacronistica legge del celibato. Ventisei donne innamorate di preti hanno scritto al papa chiedendogli di derogare da essa per la «devastante sofferenza» che «lacera l’anima» loro e dei loro compagni sacerdoti. Nel volo di ritorno a Roma, dopo la sua visita in Giordania, Palestina e Israele, papa Francesco ha affermato che il celibato «è un dono per la Chiesa» e che di esso ha «grande stima», ma che, «non essendo un dogma di fede, la porta resta sempre aperta».
In termini simili si è espresso mons. Pietro Parolin, pochi giorni dopo essere stato nominato da Francesco segretario di Stato del Vaticano, in dichiarazioni rilasciate l’8 settembre 2013 al quotidiano El Universal del Venezuela, Paese di cui era nunzio: il celibato obbligatorio – ha detto – «non è un dogma della Chiesa e si può discutere perché è una tradizione ecclesiastica». Tali pronunciamenti non suppongono alcuna novità, coincidono con affermazioni note e condivise tanto dai difensori come dai detrattori di questa tradizione ecclesiastica.
Credo sia giunta l’ora di passare dalle parole ai fatti, dalle dichiarazioni propagandistiche al cambiamento normativo. È ora di dare scacco matto al celibato obbligatorio e dichiarare il celibato opzionale. Altrimenti, quanti sono scettici rispetto all’intenzione di Francesco di riformare la Chiesa avranno un argomento in più per continuare ad esserlo.
Conviene ricordare che nel cristianesimo, almeno nel cristianesimo di Gesù di Nazareth, l’incompatibilità non è fra amore di Dio e sessualità, fra amore divino e amore umano. In assoluto. L’opposizione è fra l’amore verso Dio e l’amore verso il denaro, in accordo con la massima evangelica «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24). Se si ama il denaro, Dio è di troppo.
Bisognerebbe leggere Eduardo Galeano [giornalista, scrittore e saggista uruguayano] per de-demonizzare il corpo, perderne la paura e riconoscerlo nella sua vera dimensione piacevole e festiva: «La Chiesa dice: il corpo è una colpa. La scienza dice: il corpo è una macchina. La pubblicità dice: il corpo è un affare. Il corpo dice: io sono una festa». È una riflessione in più per opporsi a norme che impongono comportamenti repressivi che rendono (più) infelici le persone.
* Docente presso l’Università Carlos III di Madrid; autore, tra l’altro,di “Invitación a la utopía” (Trotta, 2012) e “Cincuenta intelectuales para una conciencia crítica” (Fragmenta, 2013).