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L’universo come scenario della rivelazione divina. Le implicazioni spirituali della fisica quantistica

Adista Documenti n° 21 del 7/6/2014



 
DOC-2623. QUITO-ADISTA. Se aveva ragione Tommaso d’Aquino ad affermare che l’errore sulle cose del mondo può portare all’errore sulle cose di Dio, un’adeguata comprensione della natura dell’universo si rivela essenziale per giungere a una più corretta immagine divina. In questo risiede la straordinaria importanza del libro Quantum Theology del religioso irlandese Diarmuid O’Murchu (v. Adista Documenti n. 39/13), vera pietra miliare nel cammino di riflessione teologica più aperto alle nuove acquisizioni scientifiche (quel percorso in ascolto del nuovo racconto sacro trasmesso dalla scienza a cui possono essere ricondotti a vario titolo, e con diversi gradi di coinvolgimento, teologi come Thomas Berry, Leonardo Boff, Frei Betto, Matthew Fox, Roger Haight, John Haught, Elizabeth Johnson, Sallie McFague, José María Vigil, per citare solo alcuni dei nomi che hanno trovato maggiormente spazio su Adista: tra i numerosissimi interventi ospitati sulla materia, v. Adista Documenti nn. 26/09, 29/10, 30/12 e 5/13). Pubblicato già nel 1997 e ristampato, in una nuova edizione rivista e aggiornata, nel 2004 (con il sottotitolo The Spiritual Implications of the New Physics), il libro di O’Murchu è uscito ora anche in spagnolo (Teología cuántica. Implicaciones espirituales de la nueva física), edito da Abya Yala, Quito, nella collana Tiempo axial (http://tiempoaxial.org), la quale, presentando l’opera, pone l’accento su quello che appare come il principale merito dell’autore: quello di aver mostrato come la fisica quantistica trasformi radicalmente la visione dei nostri antenati, rompendo «le regole della logica tradizionale incontrovertibile con cui abbiamo sempre funzionato e ancora funzioniamo» e obbligandoci a riformulare tutte le nostre categorie, «che ora non hanno più senso e non rispondono alle conoscenze attuali». Si tratta di una rivoluzione scientifica che «comporta ed esige» il superamento dei vecchi paradigmi e «la creazione di un racconto interamente nuovo», di cui la fisica quantistica appare «il simbolo più emblematico»: una visione della realtà «talmente attraente per la teologia che – secondo le parole di Sallie McFague citate proprio in apertura del libro – saremmo ottusi se non ne approfittassimo». La visione, spiega O’Murchu, di un universo in cui il tutto è più grande della somma delle sue parti (e, «misteriosamente», il tutto è contenuto in ogni parte), un universo vivo i cui elementi, anziché stabili, isolati e indipendenti gli uni dagli altri come nel modello meccanicistico newtoniano, sono tutti collegati e interrelazionati, di modo che «non sono le specie individuali che evolvono, ma tutti i sistemi viventi connessi in maniera interdipendente, nel seno di una totalità coerente». Una realtà che non è più retta da una rigida relazione di causa ed effetto, in cui tutto può essere quantificato, misurato e verificato oggettivamente, ma che è sempre più grande della nostra capacità di coglierla: «In un universo quantistico - scrive O’Murchu - nulla è prevedibile, ed è aberrante l’idea che la vita sia in qualche modo determinata». 

È su questa visione che poggia la teologia quantistica di O’Murchu, decisa a demolire ogni dualismo, «nella convinzione che la vita è fondamentalmente una, che non c’è un fuori e un dentro», che l’energia divina che rende possibili tutte le cose e le mantiene in essere è dentro e non fuori dal cosmo, operando «come una vibrazione dal finale aperto», piena di sorprese e imprevedibile (come evidenzia la teologia processuale, «nello stesso dispiegarsi dell’universo, Dio anche si dispiega. La creatività di Dio si manifesta o si rivela primariamente nel processo della creazione stessa»). E in contrasto con la teologia tradizionale, che, nel tentativo di definire la natura divina, ha molte volte prodotto un’idea di Dio spesso costruita «a immagine e somiglianza dell’essere umano», la teologia quantistica rinuncia a confinare il potere divino entro categorie religiose, ritenendo che «tutte le storie delle religioni particolari appartengono a una storia più grande che include, ma allo stesso tempo trascende, le tradizioni religiose di qualunque epoca storica o culturale».

Quanto a noi umani, non siamo, afferma il religioso irlandese, «i padroni del mondo» e neppure «la specie definitiva», ma apparteniamo a un processo più grande che ci supera, che si dispiega ininterrottamente e che «può continuare ad esistere senza di noi». Poiché l’energia dell’amore, che non conosce limiti, «genera sempre forme di vita superiori e più complesse», «dal calvario dell’homo sapiens» emergerebbe con ogni probabilità un essere umano nuovo, con doti intellettuali, psichiche e spirituali più consone alla nuova era evolutiva: «Non sarebbe la prima volta nella storia dell’universo – esclama O’ Murchu – che la morte desse luogo alla resurrezione!». 

In ogni caso, se la nostra tendenza a considerare il cosmo come un oggetto da conquistare e controllare ci ha alienato «non solo dal cosmo, ma anche da noi stessi come creature relazionali», allora «l’unica e più urgente sfida del nostro tempo è abbandonare il nostro atteggiamento ostile e arrogante nei confronti dell’universo e della Terra e imparare ad essere amici della vita universale», e, in particolare, amici della Terra, non più vista come una massa di materia inerte e morta, ma come un organismo vivente, Gaia, un sistema che si auto-crea, si auto-regola e si auto-rigenera: come «soggetti in relazione con altri soggetti», conclude O’Murchu, siamo invitati, insieme a tutte le altre creature ad assolvere il nostro compito co-creativo nel progetto divino per il mondo, nella certezza che la vita sia «inevitabilmente destinata al trionfo ultimo del bene e non alla catastrofe definitiva prevista dalla seconda legge della termodinamica».

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci tratti dal settimo e dall’ottavo capitolo (il libro di O’Murchu può essere richiesto a: ventas@abyayala.org, oppure acquistato in internet sul sito www.abyayala.org). (claudia fanti) 


 

Una nuova narrazione


 di Diarmuid O’Murchu

 
PIÙ IN LÀ DEL NOSTRO ISOLAMENTO

«La scienza non può risolvere il mistero ultimo della natura. Ed è così perché, in ultima istanza, noi stessi siamo parte del mistero che cerchiamo di risolvere» (Max Plank). (…).

«La gravitazione unisce tutto così strettamente che l’alienazione è un assurdo cosmologico» (Thomas Berry).
L’idea che il nostro mondo sia una rete interconnessa di relazioni è stata inizialmente espressa dal fisico Werner Heisenberg. Una nozione che probabilmente nessuno scienziato quantistico metterebbe in discussione.

Quando J. J. Thompson scoprì, negli anni ’90 del XIX secolo, che l’atomo è composto da particelle più piccole, non poteva immaginare di aprire un orizzonte misterioso di appartenenza e di interrelazionalità. La sua intenzione e il suo sogno erano esattamente l’opposto: scoprire gli ultimi (i più piccoli) mattoncini di cui sarebbe formato tutto ciò che esiste, una ricerca riduzionista delle unità più piccole di materia, delle parti che compongono la struttura della vita universale. Dal cercare le particelle elementari, che si supponeva (e molti ancora lo suppongono) fossero isolate e indipendenti, siamo passati a suddividere le particelle subatomiche. Abbiamo quindi proceduto oltre, grazie a potenti acceleratori di particelle, tra cui i più noti sono quelli del Cern di Ginevra e del Fermilab di Chicago. Nel 1960 avevamo già identificato più di 100 tipi di particelle diverse, senza avere ancora un’idea chiara di come si relazionassero le une con le altre.

All’inizio degli anni ’60, gli scienziati identificarono un nuovo insieme di particelle subatomiche, che suscitarono enorme entusiasmo. Le chiamarono quark, definendo poi i loro opposti leptoni. A quel tempo, tutto indicava che questi potessero essere i più piccoli blocchi di costruzione, le unità finali da cui sarebbe stato costituito tutto il resto. Si sarebbero impiegati più di trent’anni per identificare il repertorio totale dei quark: il sesto e ultimo quark è stato scoperto nel marzo del 1995 al Fermilab. (…).

L’entusiasmo era realmente giustificato, ma si spense rapidamente quando divenne chiaro che i quark non rispondevano alle aspettative meccaniciste. In condizioni sperimentali, i quark non possono essere isolati. L’adrone (particella subatomica composta soggetta alla forza nucleare forte, ndt) in cui i quark sono incorporati non può essere diviso né ridotto in unità più piccole. La natura si rifiuta di rivelare le sue verità sotto forma di quark isolati e indipendenti (…). Forse non può farlo. Forse non lo ha mai fatto!

Questa non era una buona notizia per i fisici. Era una sfida al desiderio subcosciente di conquistare e di controllare. I quark si rivelavano altamente sfuggenti, ricevendo un senso solo dalla loro appartenenza a gruppi di due o di tre, e mostravano un’elegante versatilità nell’esprimere la propria esistenza solo in relazione. La capacità di relazionarsi sembra costituire il cuore del mondo dei quark.

E questo non era tutto! I quark insistevano nel muoversi nella danza quantistica della dualità particella-onda. Non si poteva mai essere sicuri se si manifestassero come particella o come onda. L’unica cosa che era dato sapere era che la forza energetica era significativa e che, per quanto difficile e strana, era così elegante e affascinante da continuare ad attirare l’attenzione di tutti. Tutto ciò suggeriva che, in ultima analisi, la natura era composta da modelli di energia interrelazionati e non da blocchi isolati. 

I fisici erano spazientiti, malgrado l’accettazione relativamente ampia del principio di indeterminazione di Heisenberg (secondo cui non possiamo mai conoscere con certezza, allo stesso tempo, la velocità e la posizione di una particella, in quanto la certezza rispetto all’una comporta automaticamente incertezza rispetto all’altra).

(...). Dopo cinque anni passati a bombardare atomi uniti, nel 1997 gli scienziati del Laboratorio nazionale di Brookhaven, a New York, hanno scoperto una nuova particella, un esotico mesone. A quanto pare, rivela il modo in cui i quark si mantengono uniti, ma, ironicamente, dura appena un miliardesimo di un miliardesimo di secondo. Roszak (1999) offre una risposta che si fa eco dei sentimenti di molte delle menti più acute: «A questa scala, il tempo possiede una qualche realtà? È possibile, si domanda il profano, che, oltre un certo punto, quello che stiamo apprendendo è il fatto che la materia non vuole essere separata? (…). Se una particella può essere separata solo per un istante così breve, forse fa parte di un tutto più ampio che deve essere ormai accettato come “elementare”. Lo sforzo di trovare qualcosa di più “fondamentale” distrugge il fenomeno più essenziale che è la relazione».

I quark potrebbero benissimo essere il punto finale della serie delle particelle. È possibile che si siano scoperti “i blocchi di costruzione più piccoli”, ma resta il dilemma misterioso e paradossale che non sono “blocchi” con cui costruire un edificio newtoniano. Sono forse pacchetti di esperienza (quanti) che ci permettono di partecipare in maniera più significativa alla danza della vita e di comprendere nuovamente l’energia creativa al centro del nostro universo quantistico.
 

RELAZIONALITÀ TRINITARIA

(…). I quark dimostrano in maniera affascinante e strana come la vita nel nostro universo non si sviluppi a partire dall’isolamento, ma dalla capacità di relazionarsi. Zohar (1990 e 1993) va ancora oltre e suggerisce che i bosoni – il collante di base nel mondo delle particelle – dovrebbero essere descritti come “particelle in relazione”.

Allo stesso modo, Margulis si spinge a descrivere le cellule come «associazioni microbiche» e «confederazioni batteriche» forgiate attraverso miliardi di anni di sforzo cooperativo, a dimostrazione del fatto che nel mondo creato tutto fiorisce attraverso alleanze simbiotiche. Roszak osserva acutamente che, a un certo punto, la membrana cellulare venne denominata “parete” e considerata una barriera solida che racchiudeva passivamente una goccia indifferenziata di citoplasma. Poi la parete si è trasformata in un sistema, che oggi tende a essere descritto come un centro di comunicazione dinamico e totalmente poroso tale da mantenere un dialogo costante con la cellula di cui è a servizio. 

Su un altro versante rispetto a quello scientifico, c’è un’evidenza crescente del fatto che tutte le cose sono state create a partire dalla relazione, si sostengono in forza di tale relazione e si sviluppano attraverso l’interdipendenza. 

Si tratta di un’antica saggezza, nota a mistici e saggi da molto tempo e proclamata con coraggio da molte teologhe femministe (…). È anche una credenza fondamentale, archetipica, difesa da tutte le grandi religioni che ha conosciuto l’umanità. Questa verità di base, primordiale, è stata formulata per secoli attraverso dogmi sacri, i quali – paradossalmente e frequentemente – più che rivelare nascondevano il suo senso più profondo. Mi riferisco a ciò che il cristianesimo definisce come il mistero della Trinità. 

Nei primi secoli del cristianesimo, i teologi, affrontando il mistero della divinità, giunsero alla conclusione che Dio è fondamentalmente un’unità (da qui il monoteismo), per quanto al suo interno esistano, in totale uguaglianza, tre persone separate, Padre, Figlio e Spirito Santo. (…). 

La credenza nella natura trinitaria di Dio è considerata essenziale nella fede cristiana. Tale “mistero” non viene compreso dalla maggior parte dei cristiani e neppure riveste un’importanza reale per loro nella vita quotidiana. Gli abbondanti tratti patriarcali non la rendono neppure una nozione credibile o attraente per un mondo che aspira a modi più olistici e inclusivi di percezione e di azione (…).

In questa prospettiva, notiamo che molte delle religioni più importanti presentano una nozione simile nei propri sistemi di credenze. Gli esempi che vengono alla mente sono le figure trine di Vishnu, Shiva e Shakti nell’induismo; la dottrina buddista dei tre corpi (manifestazioni) di Buddha, cioè dharma-kaya (dimensione eterna), nirmana-kaya (apparenza corporale) e sambhoga-kaya (corpo glorificato); nello zoroastrismo, il triplice e potente dio del tempo Zurvan insieme ai suoi due figli, Ahriman (la forza attiva) e Ormazd (la forza passiva); il culto egizio di Isis, Serapis e del figlio divino, Horus; la triade neoplatonica Bene, Intelligenza e Anima del Mondo. Ed esistono tracce di questa relazione trinitaria anche nella letteratura sulla Grande Dea madre adorata per 30mila anni in tempi preistorici (…). Ci troviamo dinanzi a qualcosa che non è unico nel cristianesimo, ma che si rivela come un fenomeno archetipico che trascende tutte le religioni, un ingrediente chiave della vita e della cultura universali.

Greenstein (1988) e Barrow e Tippler (1986) alludono anch’essi a questo aspetto tripartito della vita universale, percependo che la natura tridimensionale dello spazio è una qualità inerente all’interdipendenza cosmica (…). Tanto per gli dei come per le creature, il tre sembra essere un numero di grande significato cosmico. (…).

Per quanto riguarda la dottrina della Trinità, il problema può essere che noi, i cristiani, la si spieghi (o giustifichi) in maniera insufficiente. Inventando un tipo di enigma teologico per cercare di far entrare tre in uno, abbiamo creato un paradigma meccanicizzato per la divinità che ha molto poco senso in un’era olistica.

Per la teologia che si dichiara ortodossa e per la corrente dominante della religione, i dogmi sono utili come punti di riferimento per la direzione e la verità certe. In un mondo quantistico, servono per uno scopo diverso: sono indicatori di una verità più profonda, la cui totalità (l’insieme) non può mai essere completamente compresa, di modo che ogni nuova era culturale esige una diversa riformulazione. Suggerisco che la dottrina della Trinità sia un tentativo di esprimere il fatto che la natura fondamentale di Dio è data dall’interdipendenza e dalla capacità di relazionarsi (…). Dio diventa significativo nel processo stesso della relazione. (…). Nel linguaggio semplice ma profondo della Bibbia cristiana, Dio è amore! (…).

Il vero problema del nostro tempo non è se Dio sia monoteista o politeista, una distinzione con connotazioni dualiste di epoche passate. Quello che la scienza – percepita per molto tempo come nemica della religione – rivela e conferma è che (…) Dio, prima di tutto, è una tendenza e un impulso verso la relazionalità e che l’impronta divina in nessun’altra parte è più visibile che nello stesso desiderio fondamentale della natura (esemplificato nei quark) di relazionarsi in maniera interdipendente e interconnessa. (…). 

Sorgono domande immensamente problematiche per i teologi. “Allora Dio non possiede un’esistenza indipendente?”. “Dio dipende in qualche modo dall’evoluzione?” (un dubbio formulato spesso contro i teologi processuali). “Non finisce per tradursi nel panteismo questo argomento della relazionalità?”. Tali domande – e molte altre – sorgono dalla necessità umana di esprimere la questione di Dio in categorie teologiche costruite dall’essere umano. (…). Sono domande valide, ma che non presentano un interesse reale per il teologo quantistico, felice di vivere con domande senza risposte (…). 

Per il teologo quantistico, la dottrina della Trinità assume un significato dinamico che intensifica il richiamo a relazionarsi, in amore e giustizia, con la totalità della creazione, cosmica e planetaria al tempo stesso. Ciò mette a sua volta in discussione la tendenza della teologia cristiana tradizionale a difendere la dignità della persona individuale come un obbligo speciale. La nozione di unità individuale è relativamente recente nell’evoluzione umana. Di fatto, è in gran misura un sottoprodotto della società industriale, in cui la competizione personale e l’abilità sono diventate valori fondamentali. (…).

Il valore guida è la cooperazione più che la competizione. Ma è in gioco qualcosa di più profondo: la convinzione, cioè, che stia tornando in superficie nella coscienza emergente del nostro tempo il fatto che noi siamo le nostre relazioni. Quello che siamo come individui, e quello in cui ci trasformeremo in futuro, è determinato dalla qualità della nostra interdipendenza con gli altri, tanto umani quanto non umani. (…). La nostra stessa costituzione come esseri umani è data dalla nostra capacità di relazione, e nella nostra lotta per realizzarla in maniera autentica riveliamo al mondo che siamo fatti a immagine e somiglianza del Mistero Originale, la cui natura trinitaria essenziale è anch’essa quella della relazionalità. (…).

TENDENZA ALL’AUTOREGOLAZIONE

(…). Nella sua storia evolutiva, la Terra ha sofferto ed è sopravvissuta a varie grandi catastrofi, molte di proporzione globale e universale. (…). Il geologo francese del XIX secolo George Curvier sostenne che il pianeta Terra, nella sua lunga storia evolutiva, ha sperimentato 27 grandi transizioni, molte delle quali dovute a cataclismi relativi a gravi cambiamenti climatici, estese eruzioni vulcaniche e impatti di meteoriti su ampi segmenti della Terra (…).

E tuttavia il pianeta Terra non solo sopravvive, ma prospera persino. Uno degli esempi più affascinanti dell’azione autopoietica e autoregolatrice è forse quello avvenuto tre miliardi di anni fa, quando cominciò la fotosintesi (l’uso della luce per produrre alimenti) e le prime alghe e i primi batteri iniziarono il loro processo evolutivo. Alcune di queste alghe, che sono state denominate verdi-azzurre (in virtù del loro colore), crebbero assimilando l’energia della luce e l’idrogeno dei mari. Ma ogni crescita ha un prezzo, in questo caso la liberazione di un veleno letale causato dall’utilizzo dell’idrogeno. Il nome di questa sostanza velenosa è “ossigeno”. 

Abbiamo un’idea dell’ossigeno come qualcosa di buono e di necessario, come un gas essenziale per il mantenimento della vita. Ma per le prime creature viventi era letale; di fatto, era più distruttivo dei raggi ultravioletti. Se l’atmosfera di allora si fosse riempita di ossigeno come l’attuale, le grandi molecole non si sarebbero mai potute formare e la vita sarebbe terminata. Ma la Madre Terra, sempre creativa, trovò un’ingegnosa soluzione. (…). Le alghe verdi-azzurre, creando molecole di alimento, impararono ad usare l’ossigeno in eccesso per bruciare queste stesse molecole, creando così energia. Oggi chiamiamo questo processo “respirazione”. È un esempio di come il pianeta Terra abbia trasformato una minaccia potenziale in una risorsa che non solo ha salvato il mondo dall’estinzione, ma ha reso possibile l’evoluzione di un’ampia varietà di forme di vita. (…). 

La storia del pianeta Terra non è un racconto descrittivo su un oggetto nello spazio (…). Il vero racconto non ruota attorno alla vita sulla Terra, ma attorno alla vita che è la Terra. Potrebbe trattarsi di una forma di vita più sofisticata, creativa, elastica e integrata di quella umana, forse più resistente di tutte le forme di vita conosciute? Potrebbe essere che i nostri antenati, identificando la Terra come la Grande Dea Madre, stessero, di fatto, scoprendo il mistero della nostra esistenza con un grado di saggezza e di intuizione che la mente razionale del nostro tempo è incapace di raggiungere? (…). 

Il racconto di Gaia serve da apertura alla prodigiosa fecondità di tutta la creazione. Il vuoto è una riserva gravida di possibilità illimitate. Descrivere il mondo come “rigurgitante di vita” sembrerebbe trionfalistico, ma alla luce della nostra storia evolutiva può essere persino un’espressione troppo moderata. Il potenziale di vita è così impressionante, penetrante e misterioso da sfidare la comprensione umana.

Tuttavia, continuiamo ad analizzare, a razionalizzare e a interferire. Abbiamo creato un antropomorfismo che è tanto letale quanto irrilevante. Ci siamo eretti a padroni non solo del pianeta Terra ma anche dell’universo intero e, nelle parole infami di Francis Bacon, ci siamo disposti crudelmente a torturare la natura fino a quando non ci rivelerà i suoi ultimi segreti.
 

IL PRINCIPIO ANTROPICO

(…). Nel 1974 il fisico britannico Brandon Carter coniò l’espressione “principio antropico”, la quale indica essenzialmente che se alcune caratteristiche della natura sono necessarie per la nostra esistenza, allora il mondo non ha senso senza di noi. Un’altra formulazione è centrata sulla convinzione che l’universo non avrebbe senso se noi non stessimo qui a esprimerlo: le uniche cose che possono essere conosciute sono quelle compatibili con l’esistenza di coloro che conoscono. (…). 

Barrow e Tippler offrono una sintesi comprensiva del principio antropico. Esistono quattro variazioni di diverso grado relative alla convinzione soggiacente secondo cui i più alti livelli possibili di intelligenza, informazione e coscienza sono quelli che sono stati sviluppati o che saranno sviluppati dagli esseri umani nel loro attuale stadio evolutivo. Ma noi umani, in questa nostra tappa evolutiva, non siamo l’obiettivo finale dell’evoluzione. Non siamo l’ultimo, neppure il penultimo, capitolo della storia; di fatto, potrebbe non esserci un capitolo finale. L’homo sapiens evolverà verso una creatura più sviluppata che vedrà, osserverà e si relazionerà con il pianeta in una maniera più sofisticata e illuminata di quella di cui abbiamo dato prova noi.

Sì, l’universo è un organismo intelligente, con potenzialità infinite in termini di crescita illuminata e di rinnovamento. Nei miliardi di anni di evoluzione futura, noi umani saremo sorpassati da altre creature più sviluppate. È giunto il momento di riconoscere questo fatto e di ripensare, sobriamente, onestamente e umilmente, il nostro ruolo nel grande racconto evolutivo.

Dal principio dei tempi fino ad ora, ogni creatura e ogni specie ha contribuito al dispiegamento intelligente della vita. Il processo di fotosintesi, iniziato miliardi di anni fa, esprime la condotta intelligente e altruista di un pianeta vivo in cui tutte le parti cooperano sotto l’influenza di un’intelligenza superiore che è più grande della somma delle parti. L’interazione sottile e complessa delle particelle subatomiche (…) rivela una saggezza profonda ed elegante.


GLI UMANI E GAIA

(…) Tanto Lovelock quanto Sahtouris, nelle loro riflessioni sull’ipotesi Gaia, presentano un panorama futuro desolante per noi umani, se non impariamo a rinunciare allo sfruttamento della vita planetaria (…). Nella storia evolutiva – la nostra e quella del pianeta Terra – il pianeta vince sempre. La Madre Terra ha una straordinaria resilienza e un’intelligenza profonda e può essere piuttosto spietata nel compito di mantenere la propria integrità.

Nell’ottica di Gaia, siamo solo una specie, né i padroni né gli amministratori del pianeta. Il nostro futuro dipende molto più da una corretta relazione con Gaia che dall’affermazione ripetuta che siamo i padroni della creazione. Gaia non è di certo anti-umana, ma se continueremo ad alterare l’ambiente planetario contro di essa, non faremo che determinare la nostra sostituzione da parte di una specie più benevola nei confronti dell’ambiente. (…) Sarebbe saggio ricordarci spesso che la danza di Gaia continuerà con noi o senza di noi.

Noi umani ci siamo trasformati in un’anomalia cosmica. Abbiamo violato e contaminato lo stesso ventre che ci alimenta e ci sostiene. (…). 


IMPLICAZIONI TEOLOGICHE

Solo negli ultimi vent’anni la teologia ha iniziato a pensare seriamente all’evoluzione e finora solo alcuni teologi assumono la cosmologia come un interesse centrale. (…). 

Il contesto è nuovo proprio nel suo invito a ricercare il senso da dentro più che da fuori. Anche quei teologi che adottano una prospettiva evolutiva tendono invece a immaginare Dio come un agente esterno che guida il dispiegarsi evolutivo. D’altro lato, i teologi processuali, o “del processo” (…), affermano che Dio co-crea congiuntamente al processo evolutivo, che spesso suona come se il passo e il corso dell’evoluzione dettassero il modo e il grado del potere creativo di Dio.

La teologia quantistica vuole apportare alcune considerazioni nuove attorno a queste domande profonde e complesse.

a) Poiché il tutto è più grande della somma delle parti, allora il “tutto” del processo evolutivo/creativo supererà sempre le nostre considerazioni umane, scientifiche e teologiche. Il processo evolutivo/creativo è un tema per la contemplazione e la comprensione mistica più che un discorso teologico o un’analisi scientifica.

b) La teologia quantistica sostiene che il “tutto” più grande del processo evolutivo/creativo è sostenuto e animato da una forza di vita soprannaturale. Tuttavia, considera la forza della vita come inerente al processo creativo, più che esterna ad esso.

c) La teologia quantistica non è particolarmente interessata alla natura di Dio. Giacché qualunque visione quantistica deve accettare e integrare questioni irrisolte e imponderabili, essa accetta tranquillamente il detto “lasciate che sia Dio a essere Dio!” (…).

d) (…). Apparteniamo all’universo e al suo dispiegarsi evolutivo. Le nostre vite non hanno senso separatamente dall’universo. (...). Allora, qual è il nostro ruolo nel grande processo evolutivo? Forse siamo pensati per essere il sistema nervoso del pianeta Terra o, come un numero crescente di scienziati e filosofi sta ipotizzando, la dimensione cosciente dell’universo, nel senso che la coscienza riflessiva (l’abilità di riflettere sul fatto che possiamo riflettere) sembra darsi unicamente in noi umani. Nella visione meccanicista del mondo, supponiamo di essere stati dotati di coscienza per sottomettere tutte le altre forme di vita “inferiori”. Nella visione quantistica, siamo invitati a porre questo dono al servizio dell’universo, diventando più coscienti, in quanto la coscienza, presente in tutta la creazione, sembra attendere un senso più pieno (…). Forse la pienezza della stessa evoluzione è l’universo cosciente pienamente vivo! (…).

In termini quantistici, il ruolo teologico come essere umani può benissimo essere quello di narratori della storia sacra cosmologica. (…). Solo quando saremo entrati profondamente in questa storia e ne avremo colto il significato nella profondità dei nostri cuori, avremo compreso realmente cosa c’è in gioco nel tema della vita. Non avremo conquistato il mondo, ma avremo compreso; avremo visto la Luce! Allora, e solo allora, potremo essere realmente in pace, con noi stessi e con la totalità della vita. (…). 

Non realizzeremo il nostro desiderio appassionato di comprendere in profondità per mezzo di doti intellettuali o di conquiste tecnologiche, ma immergendoci nella storia divina ed evolutiva e impegnandoci nella contemplazione e nella narrazione di questa storia in ogni epoca nuova. (…).