Quella via laica alla speranza che ci rende tutti immortali
di Zygmunt Bauman
“la Repubblica” del 24 settembre 2014
Non so (né saprò mai) a quale dei nostri antenati venne in testa per primo la domanda: «Perché c’è qualcosa invece di niente?». E una volta che quella domanda venne posta, niente poté più far sì che a essa non si cercasse una risposta. E noi la cerchiamo — noi, i rappresentanti del genere degli inguaribili curiosi. Da quante migliaia di anni, non ne ho idea. Sospetto però che i nostri discendenti non sprecheranno meno tempo dei loro antenati a cercare la risposta. Già, perché, per quanto scrupolosamente possiamo misurare il volume del cosmo, per quante dimensioni attribuiamo al cosmo e per quante particelle più piccole — quark e leptoni, o come ancora si chiameranno — , aggiungiamo agli atomi e alla “materia oscura” che si trova tra di essi, cercando di colmare le lacune nella comprensione, continueremo a spaccarci la testa contro gli stessi due limiti che non siamo capaci di superare con l’immaginazione umana.
Quei limiti sono il “nulla” e l’”infinito”. La “cosmogonia”, stimata branca della cultura, copiosamente dotata di fondi, aggiungerà dettagli (e perché mai non dovrebbe farlo?) alla storia delle prime frazioni di secondo dopo il Big Bang, ma non cesserà mai di dibattersi fra il paradosso della nascita di qualcosa dal nulla e l’idea della durata eterna che il nostro intelletto, formato per essere al servizio di una vita finita, non è capace di abbracciare e che viene negata da tutti gli esperimenti progettati dall’intelletto stesso. Qui si è annidato e sistemato per bene l’elemento intellettuale della non-autosufficienza del genere umano.
Il Dio-Creatore è l’ipotesi più attraente per uscire da quel vicolo cieco intellettuale, perché inscriviamo l’inconcepibilità delle sue intenzioni e della sua potenza nello stesso suo concetto — non già risolvendo in questo modo il «paradosso del qualcosa dal niente» e neanche comprendendo con la mente l’incomprensibile infinitezza del tempo o dello spazio, ma procurandoci la soddisfazione e la serenità d’animo che ci derivano dal capire perché queste due cose non riusciamo a farle! L’ipotesi contraria — che qualcosa è sorto da solo dal niente senza l’intervento di una forza soprannaturale, e quindi per definizione inconcepibile — non viene, è vero, a compromessi e non impone all’intelletto umano uno sforzo e un’azione sovrumani, ma gli pone un compito che quell’intelletto non è capace di eseguire.
Tutto questo si svolge tuttavia in un’altra sfera rispetto all’umano essere-nel-mondo o, detto in parole povere, alla sfera della realtà di ogni giorno. Tornando però a quest’ultima, da bravo sociologo dichiaro che non siamo compagni di viaggio né di Pangloss, né di Dawkins; se mi metterai alle strette, ripeterò con Candido: il faut cultiver notre jardin... E lo farò senza vergogna, e ancor più ormai senza scrupoli morali. Perché, ripeto: l’io morale non trae origine né da ordini dall’alto né da presuntuosità scientiste, ma proprio dal fatto che tutti si devono ineluttabilmente rimettere agli altri e alla reciproca solidarietà. E ancora aggiungerei alla risposta le parole di Lem: «Dio mi guardi dal privare chicchessia della sua fede!». Solo che lo farei senza un filo di orrore... Perché lo farei con la speranza di un umano auto-ravvedimento. A proposito di speranza, appunto... Se non ce l’avessi, certamente non scriverei libri e non concederei interviste. A che pro consumare lingua o penna se non si ha la speranza di essere ascoltato e che questo ascolto possa, sebbene non necessariamente, «fare la differenza» — per quanto minima (Roma non fu costruita in un giorno...)? Ciò che è stato fatto dagli uomini, può essere disfatto dagli uomini; non credo che siamo arrivati a un punto di non ritorno: perché diventi tale, bisognerebbe prima credere che tale sia — una volta per sempre, irrevocabilmente...
Finché cova la speranza, foss’anche sotto una montagna di cenere, non lo diventerà. Vorrei svolgere la funzione che a suo tempo attribuivo a Marek Hlasko, ossessionato dal bisogno di rimproverare gli uomini: «Guardate come vi divertite male, ravvedetevi — per amor di Dio o vostro... ». Quasi tutti i segni in cielo e in terra sembra si siano accordati per non dare conforto agli afflitti e agli spaventati — ma se la speranza dell’umanità è riposta in qualcosa, è appunto nella speranza. Finché essa è viva, è troppo presto per stilare necrologi dell’umanità. E io non riesco a liberarmi della convinzione che la speranza sia immortale e che, analogamente a Dio, possa morire solo insieme all’umanità.
L’uomo ce la farà — ma entro certi limiti... Non siamo mica dèi! Però già in questi limiti l’uomo non solo ce la farà, ma deve farcela. Di questo, di essere in grado di adempiere a questo dovere, è responsabile — e ciò indipendentemente dal fatto che si prosterni davanti all’Altissimo o che neghi la sua esistenza.
Ultimamente, per esempio, abbiamo fatto sì — e continueremo come niente fosse a farlo, senza preoccuparci delle conseguenze — , che i nostri discendenti vengano al mondo indebitati fino al collo per i costi della nostra orgia consumistica... E proprio di questo voglio parlare agli uomini, e desidero che proprio a questo prestino ascolto. Nel fatto che prestino ascolto ripongo tutta la mia speranza. Perché da loro e solo da loro dipende se ciò che è in potere degli uomini venga fatto o, al contrario, venga disprezzato e dissipato. Non supereremo la nostra umana limitatezza e Dio ci scampi dal provarci; guardiamoci dal giocare all’onnipotenza, che dovrebbe essere ascritta solo a Dio.
Non siamo dèi e non tutto sta nelle nostre forze, pur sempre solo umane — ma ciò che possiamo fare basta ampiamente a riempire una vita valida e degna (valida e degna in quanto serve all’espiazione dei peccati, ossia alla riparazione dei danni arrecati al mondo, oltre che alla salvezza umana, cioè a rendere il mondo più ospitale per l’umanità). Mosso da questa speranza infilo il messaggio nella bottiglia e la affido alle onde... Nella speranza che la trovino coloro che saranno alla ricerca di un messaggio.
Questo testo di Zygmunt Bauman è tratto dal libro Conversazioni su Dio e sull’uomo , scritto con Stanislaw Obirek, in uscita per Laterza il 2-3 ottobre Traduzione di Roberto M. Polce