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Romero e la santità ostacolata

 

di Luigi Sandri                                                                          

“Tirreno” del 24 marzo 2014

 

Gli spararono mentre celebrava messa: e da quel 24 marzo 1980, quando monsignor Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, fu assassinato, il ricordo di quel generoso pastore continua a dividere la Chiesa cattolica romana, nei suoi vertici. Quando Romero, nel 1977, fu nominato da Paolo VI arcivescovo della capitale salvadoregna, l’oligarchia al potere brindò, perché quel prelato era, per dir così, un «conservatore».

Ma, poche settimane dopo il suo insediamento, vegliando sul corpo di padre Rutilio Grande, un prete assassinato dagli “squadroni della morte” – legati ai latifondisti che sfruttavano la povera gente che quel prete cercava di coscientizzare – il vescovo comprese di non poter lasciare disperdere la voce di quella vittima e di tutte le vittime; e, quasi per una interiore “conversione”, cominciò da quel giorno a denunciare i soprusi del regime, senza tacere anche delle violenze dei guerriglieri che si opponevano ad esso. Ma – egli riteneva – la guerra civile in corso in El Salvador era originata dalle ingiustizie sociali; e dunque il prelato puntava il dito soprattutto contro il governo che non interveniva per stroncare alla radice le cause strutturali di quelle oppressioni.

La “conversione” di Romero turbò l’establishment ecclesiastico, e anche molta parte della Curia romana, ai tempi di papa Wojtyla. Si riteneva insopportabile che, durante la predica domenicale in cattedrale, Romero leggesse i nomi delle persone che, la settimana precedente, erano state torturate, ammazzate, o rese “desaparecidos”.

E la domenica 23 marzo 1980, nella sua omelia, si rivolse all’esercito: “Vi chiedo, vi imploro, vi ordino: in nome di Dio cessi la repressione”. Era troppo, per la giunta militare e per gli “squadroni della morte”; e così l’indomani un killer da essi prezzolato sparò all’arcivescovo mentre celebrava messa. Tanto era il fastidio per l’opera pastorale di Romero che, ai suoi funerali, solo un vescovo salvadoregno ebbe il coraggio di partecipare.

Molte persone, in America latina, subito considerarono Romero, e tuttora lo considerano, un “martire”; anche a Roma, o in alcuni settori dell’episcopato latinoamericano, si conviene su quella definizione. Epperò... martire di che? Della “fede”, dicono quanti vogliono spogliare la sua figura della sua carica profetica; della “giustizia”, ribattono quanti sottolineano che egli – ucciso da un killer e da mandanti cattolici, non da atei! – sia stato eliminato perché difendeva i poveri sfruttati dai ricchi.

Questo contrasto interpretativo, lacerante anche le alte gerarchie ecclesiastiche, ha impedito, sotto Giovanni Paolo II e sotto Benedetto XVI, di beatificare e canonizzare Romero. Una dilazione scandalosa.

Ma vi sono molti motivi per ritenere che, sotto papa Francesco, sarà riparata questa penosa omissione, e Romero sarà infine posto sul candelabro, quale esempio di un vescovo che, come ha detto pochi mesi fa il vescovo di Roma a proposito del compito dei pastori, ha dato la vita “per conoscere l’odore delle pecore”.