Più che santi chiamiamoli testimoni
di Luigi Sandri
“Trentino” del 28 aprile 2014
La solennissima cerimonia di ieri, durante la quale, presente una folla imponente, papa Francesco ha canonizzato Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ha posto ufficialmente fine all’iter per proclamarli “santi”. Ma, in una prospettiva generale, rimane aperto più che mai il discorso sulla “santità”, perché si cominciano a porre inediti problemi di fondo. Nel secondo-terzo secolo, oltre a Maria, la madre di Gesù, crebbe l’uso di di proclamare “santi” i martiri; poi furono aggiunte le vergini e i confessori (quelli che, pur avendo proclamato la loro fede ai tempi delle persecuzioni, per qualche motivo non erano stati condannati a morte). Il tutto avveniva a livello di Chiesa locale, la diocesi; la centralizzazione a Roma di tali proclamazioni iniziò ad imporsi all’alba del secondo millennio, e sarà meglio sistematizzata nel 1588 da Sisto V e, più recentemente, nel 1983, da Wojtyla (il papa che, da solo, ha beatificato 1338 persone e ne ha canonizzate 482). Proclamando ”santa” una persona, il papa afferma che essa è salva, e vive nella gloria dei cieli. Egli dunque anticipa, in qualche modo, il giudizio ultimo di Dio, assumendosi l’arduo compito di distinguere, qui e ora, il grano dalla zizzania, i buoni dai cattivi, impresa che Gesù invitava a non aver fretta di compiere. Sempre difficile, tale decisione è quasi impossibile per le personalità – papi, re – che inevitabilmente nella loro vita hanno dovuto prendere importanti decisioni ecclesiali o politiche: le quali, lodate da alcuni, sono invece assai criticate da altri. E non basta la buona fede personale del “santo” (data per scontata) a risolvere il dilemma. Per esemplificare: come potrebbe invocare san Pio X – canonizzato da Pio XII nel 1954 – chi ritenesse, e molti storici lo ritengono, che la Curia romana, ai suoi ordini, per combattere il Modernismo (un tentativo di dialogo tra Chiesa e mondo), abbia violato i diritti umani delle persone condannate? Su altri problemi, l’interrogativo si può porre per san Giovanni Paolo II. Lasciando impregiudicato, ormai, il passato, e pensando al futuro, l’uscita da questa tenaglia sembrerebbe essere quella di non parlare di “santi”, ma piuttosto di “testimoni” di una grande fede e di un grande amore. Infatti, proclamando una persona eccelso “testimone” il papato non anticipa il giudizio divino, ma afferma che il popolo di Dio sente vibrare nella vita di quella persona l’Evangelo. E’ una costatazione di fatto, che non si addentra nel discorso sull’aldilà. Così, il papato potrebbe proclamare “testimone” Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador nel 1980 ucciso sull’altare da chi voleva tacitare la voce dei poveri senza voce (ma molti conservatori non lo considerano né “santo” né “testimone”, ma solo una “testa calda”!). Comunque, per questa nuova prassi potrebbe aiutare l’esempio delle Chiese protestanti: esse non canonizzano nessuno, nemmeno un martire come Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano che, per la sua opposizione al Nazismo, fu fatto impiccare da Hitler; ma lo riconoscono un “testimone” eccezionale dell’Evangelo che ha molto da dire al mondo d’oggi.